Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2021 “Il falo’ dei vocabolari” di Concetta Pintacuda

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Il ticchettio della pioggia era ormai incessante da giorni. In alcuni momenti gli era di conforto. Trovava rilassante il ritmo cadenzato delle gocce sul tetto. La luce accecante del sole che illuminava la stanza a volte lo irritava. Faticava a concentrarsi. Il chiarore faceva apparire le cose esattamente com’erano, senza alcun mistero. E la semplicità non era nella sua indole. Non amava la schiettezza, la considerava volgare. Detestava anche quel tipo di persone che si credono detentori della verità, che scambiano l’educazione per ipocrisia, elargendo parole al limite dell’offensivo in nome della sincerità. Blasfemia del rispetto per gli altri, conseguenza di un bagaglio culturale pari a quello di un poppante. Nonostante il grigio del cielo rivestisse di malinconia ogni cosa come lui amava, non riusciva a mettere giù nemmeno una frase. Stava col computer davanti al viso, osservando le vecchie foto dei viaggi in cerca di ispirazione. Ma nulla, nemmeno due parole messe insieme. Ci si metteva anche la gatta, che con la sua gelosia non sopportava di essere esclusa.  Aveva iniziato il rito del corteggiamento. Prima strofinandosi tra le gambe, poi con un balzo sulla scrivania con la zampetta allontanava la mano dal mouse. Infine, non contenta delle sole carezze, passeggiava sulla tastiera digitato una successione di lettere senza senso fino a che lui esausto la faceva accucciare sulle ginocchia.

Continuava a tormentarlo un certo sapore d’amaro in bocca. Ma forse non era in bocca, quel senso di nausea lo pervadeva per intero. Non ne poteva più di tutto. Qualcosa si era inceppato. Avrebbe voluto distendersi e aprire la pergola per osservare in eterno il cielo. Ma pioveva e non poteva bagnare il bel sofà color pavone. Si sentiva in trappola, avvinghiato dall’apatia, non trovava uno spiraglio. Forse una sigaretta lo avrebbe appagato, ma quella manciata di minuti a inalare veleno non produsse alcun effetto sul suo stato d’animo.

Oramai non riusciva più a sentirle, le parole. Non gli erano più familiari. Si erano confuse tra le amputazioni verbali sui cellulari e le deformazioni linguistiche giustificate dalla consuetudine. Non l’aveva mica mai compresa questa consuetudine. Non riusciva ad accettare il prevalente atteggiamento di considerare regola ciò che ormai era diventato abitudinario nella vita sociale. Quindi se diventava usuale imprecare in pubblica piazza allora poteva essere considerato come un semplice modo colorito di esprimersi, bestemmie e volgarità evoluzioni della lingua. Apriva i giornali e un groviglio di termini volgari, parole straniere inserite alla rinfusa, quasi gli bruciavano le sinapsi. Le testate giornalistiche esordivano con titoloni aggressivi e irrispettosi anche per le notizie di morte. Regnavano i femminili forzati, ignorando totalmente le desinenze latine, in nome di una parità dei sessi che in realtà si dissolveva nei contratti lavorativi e dentro le mura di casa. I premi letterari venivano attribuiti alle opere più scabrose od offensive. Frasi sgrammaticate erano stampate su tutti i cartelloni pubblicitari e se accendevi la televisione, valanghe di offese caratterizzavano gli scambi di opinione. Sapeva che la lingua si evolveva, d’altronde in passato era successo così, ma non si era mai allontanata dalle regole grammaticali o dalla decenza. Per lui era una violenza, lo stupro della lingua. Qualche anno prima era stato fatto un timido tentativo da parte del Governo di preservare la dignità del linguaggio dando delle direttive all’interno dell’educazione scolastica, ma in nome della democrazia e della libertà di espressione, fu quasi accusato di tirannia.  Vennero indette manifestazioni di protesta in tutto il Paese, capeggiate da quel ramo dell’opposizione che pur di arrivare al potere appoggiava qualsiasi nefandezza del popolo. Le minoranze erano così esigue che non poterono contrastare il delirio generale. Vinsero i nuovi governanti con lo slogan “al bando l’autocrazia del latino”. Molte delle regole grammaticali vennero considerate sorpassate, le radici della lingua latina annientate. Si diffusero gli a me mi, i ma però; i se io avrei. Emblematico divenne l’uso del piuttosto che: perse il vero significato avversativo di anziché e invece, per essere usato in senso disgiuntivo o aggiuntivo con oppure e oltre che. Paladina del misfatto ful’arroganza di quella fascia del paese che si riteneva detentore del progresso, sia dal punto di vista economico che culturale.  Persino i dialetti, emblema del senso di appartenenza di una comunità, soprattutto in certe aree del territorio, vennero considerati illegali, limitando i diritti a quella fascia della popolazione delle piccole realtà. Il pregiudizio dettato dall’ignoranza si scagliò quindi anche contro la Costituzione che vietata la discriminazione su basi linguistiche. La Nazione era immersa nel caos più totale: nelle scuole gli insegnanti definiti di “vecchio stampo” venivano rimossi. La letteratura e l’arte ridotte al minimo indispensabile. Il latino e la filosofia aboliti per ampliare le ore di informatica, robotica e tecnologia. In nome del progresso parole straniere presero il sopravvento: i termini “incontri” o “riunioni” scomparvero, e insieme a loro il senso di umanità e di vicinanza che emanavano. Così con meeting venne indicato qualsia raggruppamento di persone o cose senza alcuna distinzione, come un freddo agglomerato di oggetti non identificati. L’uso dell’inglese, servì persino a camuffare certi lavori umili, dandogli un tono altisonante, pur di giustificare richieste di qualifiche spropositate rispetto al ruolo realmente ricercato. L’apoteosi del ridicolo fu l’introduzione del termine inglese “flow”, con il quale scomparvero espressioni come il flusso del tempo, il flusso della vita. E questi erano solo alcuni esempi dello scempio linguistico, perché molte altre aberrazioni prendevano sempre più piede.

Tutti i significati che rappresentavano raffinatezza nel lessico, furono spazzati via. Così era svanita anche questa ultima bellezza: l’eleganza del suono della lingua Italiana, che nonostante nel resto del mondo fosse considerata melodia, era invece disprezzata dal suo stesso popolo.

In pochi cercarono di resistere per non smarrire il senso identitario che solo una lingua può dare, per non tradire la memoria dei grandi letterati e intellettuali del passato o quelli contemporanei che erano stati esiliati. Ma non era facile, e così Luca che dello scrivere ne aveva fatto un mestiere, che negli anni precedenti al colpo di Stato, era riuscito a pubblicare qualche romanzo, si ritrovava a non poter più essere se stesso. Le vecchie case editrici erano fallite, e l’unica via di uscita sarebbe stata adeguarsi al nuovo Sistema. Il suo linguaggio era ormai sorpassato, nessuno avrebbe più comprato i suoi libri, e rischiava di essere censurato per uso improprio delle parole e peggio accusato di essere un reazionario.     

La mente era atrofizzata, svuotata dalle parole ormai perdute. Non riusciva più a formulare alcuna frase, quella nuova lingua oscena non poteva accettarla, meglio il silenzio, scegliere di essere muti, in ombra, allontanarsi da tutto. Ma poi vedeva in fondo alla parete l’immensa libreria e i molteplici nomi di chi aveva lottato per una società etica, civile e giusta trovando le parole più nobili per arrivare al cuore del popolo. Allora pensava di non arrendersi, di continuare a combattere contro tutta la bruttezza.

Ma mentre rifletteva su come uscire dall’impasse sentì suonare in maniera concitata alla porta. Ebbe appena il tempo di giare la maniglia e subito fu travolto dall’irruenza della sorella che quasi soffocando nel suo respiro affannato gridava <<Allora sei in casa! Ho provato a chiamarti mille volte al cellulare! Non hai visto cosa sta succedendo? E perché hai le tende chiuse?>>

Non rispose, quasi si vergognava del suo sconforto. Giulia era sempre stata una ragazza forte, e spesso non sopportava l’arrendevolezza del fratello. Era stata lei a spingerlo a rincorrere il suo sogno di diventare scrittore, aveva sempre creduto in lui. Entrambi avevano le stesse passioni, gli stessi valori in cui credere e la loro complicità era l’arma contro l’imperante disumanizzazione.

<<Vieni andiamo fuori, può essere che non ti sia nemmeno affacciato alle finestre?>>

<<No perché dovrei, tanto sta piovendo!>>

<<Mah! Diamine, non senti nemmeno questo odore?>>

Destandosi dal torpore dei pensieri, prese lentamente coscienza e sentì l’odore agre dell’aria invadergli le narici.  Ebbe un sussulto, quello che avevano temuto da tempo forse stava avvenendo. Prese per mano la sorella e si precipitò in terrazza: una serie di colonne di fumo si ergevano in vari punti della città e nemmeno un elicottero della polizia sorvolava il cielo.

<< Hai visto Luca, è successo! In ogni quartiere stanno bruciando i vocabolari. Hanno preso d’assalto pure le biblioteche. La polizia, che tra l’altro è ormai ridotta a poche decine di agenti, ha avuto l’ordine di non intervenire. Siamo a un punto di non ritorno. Luca è finita!>>

Luca guardava immobile e atterrito: persino la pioggia era contro di loro, si era arrestata per non disturbare quei falò.  Un senso di rassegnazione lo pervase e in un istante capì che non restava altro da fare. Come molti altri che già da tempo avevano avuto il sentore di ciò che poteva accadere, doveva cancellare ogni brandello di speranza che gli era rimasto attaccato al cuore: si diresse verso il pc e aprì la pagina web dell’aeroporto. Con la sorella consultò il calendario, si guardarono, i loro occhi erano inumiditi dalle lacrime. Ebbero un attimo di esitazione ma dalle finestre il cielo diventava sempre più scuro e con un click Luca spazzò via il presente, mentre dentro di sé infuocava la rabbia e il dolore di dover dire addio alla sua lingua, alla sua cultura e alla sua terra.

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12 commenti »

  1. Complimenti Concetta.
    Appassionata la tua difesa della parola scritta.
    Semmai si giungesse davvero alla tua distopia, con il falò dei vocabolari, prima di cedere alla depressione, occorrerebbe seppellirne alcuni esemplari da qualche parte, magari a Nag Hammadi, affinché possano riemergere in periodi più civili.

  2. Interessante. Muove da un dato di fatto – l’involuzione linguistica – per spingerlo al paradosso (purtroppo metaforicamente già consumato) del falò dei vocabolari. Complimenti!

  3. Grazie Gianni Antonio per aver letto il mio racconto e per il tuo commento.

  4. Molto ben scritto, complimenti. Una distopia che non è, purtroppo, troppo lontana dalla realtà di oggigiorno e dall’immaginabile futuro prossimo venturo.

  5. Grazie infinite Davide

  6. Complimenti per l’intensità e per la scrittura. Purtroppo, la realtà che racconti non è poi così distante da quella che viviamo…

  7. Molto ben scritto, tragico e surreale, forse nemmeno eccessivamente, purtroppo. Mi ha ricordato il teatro di Ascanio Celestini. Brava Concetta!

  8. Grazie mille Roberta! Il paragone mi lusinga e visto che non conosco molto Celestini corro subito a leggere qualche suo scritto!

  9. Un piacere, Concetta !

  10. “Il QI medio della popolazione mondiale, che dal dopoguerra alla fine degli anni ’90 era sempre aumentato, nell’ultimo ventennio è invece in diminuzione…
    È l’inversione dell’effetto Flynn.
    Sembra che il livello d’intelligenza misurato dai test diminuisca nei paesi più sviluppati.
    Molte possono essere le cause di questo fenomeno.
    Una di queste potrebbe essere l’impoverimento del linguaggio.
    Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso.
    La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, limitato al momento: incapace di proiezioni nel tempo.
    La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di “colpi mortali” alla precisione e alla varietà dell’espressione.
    Solo un esempio: eliminare la parola “signorina” (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all’estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l’idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie.
    Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.
    Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza nella sfera pubblica e privata derivi direttamente dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole.
    Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile.
    Più povero è il linguaggio, più il pensiero scompare.
    La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell – “1984”; Ray Bradbury – “Fahrenheit 451″) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole.
    Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c’è pensiero senza parole.
    Come si può costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza il condizionale?
    Come si può prendere in considerazione il futuro senza una coniugazione al futuro?
    Come è possibile catturare una temporalità, una successione di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, e la loro durata relativa, senza una lingua che distingue tra ciò che avrebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che potrebbe essere, e ciò che sarà dopo che ciò che sarebbe potuto accadere, è realmente accaduto?
    Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata.
    Perché in questo sforzo c’è la libertà.
    Coloro che affermano la necessità di semplificare l’ortografia, scontare la lingua dei suoi “difetti”, abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana.
    Non c’è libertà senza necessità.
    Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza.”
    Christophe Clavé

    Il racconto ha rievocato nella mia mente questa acuta considerazione di Clavé. Sposo appieno l’idea che il linguaggio con tutte le sue incredibili sfumature sia un patrimonio indispensabile per una reale crescita umana. Il tuo scritto è assolutamente un’opera da divulgare.

  11. Carlo Rogato le tue parole mi hanno veramente emozionato, al di là del tuo gentilissimo apprezzamento. Hai colto in pieno la mia amarezza e mi hai dato la speranza di non essere sola nella mia piccola battaglia contro lo svilimento della nostra lingua. Grazie!!!

  12. Forse viviamo già nella distopia che descrivi, e il “piuttosto che” ne è una delle avanguardie già da qualche decennio, anzi, mi sembra quasi che stia esaurendo il suo “ciclo vitale” e venga usata già un po’ di meno; oppure sono io ad essermi assuefatto? Non credo però che “abbiano” bisogno di incendiare i dizionari; quando Goebblels guidò il rogo dei libri nel 1933 in Germania, la “cultura” come possiamo intenderla, nel senso della “bellezza”, non scomparve, anzi ebbe modo di riprendersi i suoi spazi; ancora più pericoloso mi sembra invece lo svuotamento delle parole dal loro interno, per privarle della “consapevolezza”, come lo stesso Goebbels ben sapeva e attuava. Il tema che tocchi purtroppo è sempre attuale, e ha bisogno di un monitoraggio continuo, soprattutto quando riprende a guadagnare nuovi spazi. Personalmente, tra le parole scomparse negli ultimi decenni dalla circolazione o ridotte ai margini, mi colpiscono sono tutte quelle che riguardano il “conflitto sociale” o il “potere”, spiazzate dal nuovo moloch pigliatutto degli algoritmi, e private della loro dimensione umana, dove ci siamo noi. L’addio a tutto nel finale del tuo racconto mi viene da immaginarlo come qualcosa di simile alle partenze dei migranti, che staccano dolorasamente con tutto per ricostruire uno spazio inedito altrove, ma in questo nuovo spazio poi ci si accorge che qualche seme buono del vecchio riprende ancora.

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