Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2021 “Camera 123” di Idria Pilogallo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

«La Madre voleva che ogni martedì e ogni venerdì mangiassi mucillagine a volontà per colazione. Diceva che mi sarebbe servita per arrivare a prendere sei in inglese.« One, two, three.» Un’ampolla echeggiava. Dove li metto gli altri tre?» pensavo fissando aldilà della finestra di scuola. Quella mattina in aula l’appellativo di Ciccione mi aveva riportato alla mente mio padre.

«Badate ragazzi, state borbottando troppo.» «Su, Tommy, che avrai da parlare così tanto? Vieni interrogato e staremo tutti a sentirti.» La voce dell’insegnante tuonò. Finsi una leggera sorpresa, dubbioso se rendere partecipi tutti. Mi guardavo la punta della scarpa e con la mano sinistra mi toccavo la pancia. «Finiscila con questa recita» sentenziò la professoressa spazientita. Una cantilena ebbe inizio dentro di me. Incrociai le dita e improvvisai: «Professoressa, io avrei un progetto da presentarle, ne stavo giusto parlando con Lapo al banco.» «Non mi manca il coraggio per esporlo, è solo che la Madre mi ha suggerito di raccontarlo soltanto al mio amico più fidato.» «E Lapo naturalmente sa custodire il mio segreto.»

La professoressa continuava a guardarlo con stupore quando la voce unanime degli altri allievi si levò: «Su, forza, Bomba dicci chi appoggia il tuo progetto.» In classe si respirava proprio l’odore di scuola. La pioggia scendeva dirompente e, infastidito, battei dei pugni contro il banco. La mia mattinata era iniziata carica di tensione. Da giorni ero pieno di mucillagine e niente altro. Ne erano passati di anni e non mi ricordavo più che aspetto avesse la mia cucina di casa. La Madre mi teneva lontano e ogni volta in cui litigava col babbo il suo sguardo, nebuloso e offuscato, come nebbia funesta, era perso tra i segni del tempo. One, two, three e via in pancia. In quei momenti cavità afone mi laceravano cavalcando angusti ed eterei orifizi. La mia bocca semi-aperta, bramosa di poter provare altro, vedeva avvicinarsi solo quel richiamo. Con un sogghigno in volto la Madre mi obbligava. Così mi appoggiavo rigidamente alle sue spalle col vuoto dentro. Mi toccavo morbosamente la pancia e ripugnanti demoni mi facevano fervidamente sentire tra evanescenti nebulosità. Mi ricordai di una mattina all’alba: avevo trovato mio padre morto, proprio mentre la teiera fischiava il mio tè in cucina. Tra lui e la madre non c’era nessuna intesa. Lei era sempre furibonda con lui per il suo aspetto fisico tondeggiante che in nessun modo voleva cambiare. Tappandomi le orecchie con le mani, avevo chiuso la porta della mia camera dietro di me. Mi ero passato una mano sulla pancia per carezzarmela, avevo sospirato e avevo spento l’abat-jour. Succube completamente di lei.

Mesi dopo era nevicato e aveva coperto come coltre quel ricordo. Era oramai iniziata la fine. Mi abituai a guardarla in faccia con gli occhi aperti e con un dolore nascosto. Per via della malattia costante che regnava in casa non notai particolari cambiamenti nel tempo se non l’ossessione sempre più viva della Madre che si ostinava a inculcarmi che non dovevo diventare come mio padre. La sua voce paranoica mi faceva quasi impazzire, non cambiava mai intonazione e suonava  monotona e martellante. «Mangiala a cucchiaiate e ti sazierà» mi ripeteva. Di fronte alla sua voce indisponente la guardavo senza muovermi né reagire. La mia mandibola, al suo vociare continuo, era paralizzata. Non potevo più contare né sulla mia bocca né sulla mia mente. Appena one, two, three e ingoiavo! Oramai non era più soltanto il martedì e il venerdì. Era sempre, a qualsiasi ora della mattina, della giornata, della sera e della notte. Solo MU-CIL-LA-GI-NE. 

Il tempo scorreva. L’estate con il suo acceso e caldo sole stava lasciando il posto al cadere delle foglie. Con l’autunno sembrava che l’angoscia si stesse permeando su di me. Perdevo luce e un’essenza soffiata dal vento si era oramai depositata addosso.

Per sempre implacabile.   Quel giorno in aula, prima giornata di autunno, udì un forte fruscio delle foglie. La campanella di scuola suonava. Minacciava un violento temporale e avrei voluto che scoppiasse immediatamente. Ero troppo arrabbiato e l’aria era diventata troppo pesante e insopportabile.  Ero arrivato alla conclusione di un mio progetto. Improvvisamente un fremito nel corpo. Ero talmente lusingato di questo mio traguardo che lo volli confidare per primo a Lapo. Poi scoppiai rivolgendomi a tutta la classe: «Vi succede mai di averne fin sopra i capelli?» Quel senso profondo di inadeguatezza si era tramutato in rabbia. Mi dicevo: «Ma non è colpa sua.» pensando alla Madre che oramai vacua era nella 123.

Il quadro apparve piuttosto allarmante agli occhi della professoressa che stordita e tirata continuava a mordersi le labbra. Tuttavia, gli altri studenti continuavano a burlarsi di me. Lapo se ne stette alla larga e, per smorzare la situazione prese da sotto il banco il mio progetto: un’anfora di alabastro con dentro il veleno che era servito alla Madre per levarsi di torno il babbo. «Che delirio» pensò la professoressa ostentando un sorriso triste e girandosi in bilico sulla fila degli allievi che mi  stavano ridicolizzando. Cercai invano il loro consenso, mi sedetti, poi mi alzai e poi cercai  di nuovo il mio posto. In qualunque modo mi mettessi, in piedi o seduto, mi girava tutto. Alla fine, stordito più che mai, chiesi alla professoressa di poter andare dalla Madre, nella stanza 123 della clinica psichiatrica. La settimana precedente, esattamente il primo giorno di scuola, al crepuscolo io e la Madre c’eravamo ritrovati a parlare con mia enorme sorpresa mentre la notte pian piano si consumava.  Mi aveva detto la verità. «Shhh…» aveva incalzato la Madre indicando il veleno  usato per il babbo a due passi da loro. Silenzio. Stordimento. Mi ero infilato a letto e una volta trovata la posizione giusta attraverso cui non far passare alcun rumore avevo avuto di cosa disperarmi. L’impeto si era fatto vivo all’improvviso: «Pronto, devo denunciare mia Madre.» Non ero un malato. Ero sveglio.

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1 commento »

  1. Questo racconto è davvero inquietante. Prima di tutto ti faccio sinceri complimenti per la scrittura notevole. Il lessico è curato e appropriato, il racconto si srotola piano e ti inghiotte come sabbie mobili. La follia di una madre, il dolore e il disincanto del figlio che ha avuto in lei un’aguzzina. Privato di ogni affetto trova in sé la forza di reagire e gli auguro con tutto il cuore di riuscire a trovare il suo angolo di meritata felicità. Scrivi benissimo davvero.

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