Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2012 “Macchie bianche” di Andrea Masotti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Il mio volto. Non potete vederlo. Come un veleno potrebbe instillarvi, goccia a goccia, il desiderio della fine. Respiro e assaporo le molecole leggere che un giorno entrarono e uscirono dalle mie narici.
Non so più se esisto, cerco il riflesso di uno specchio, per scorgere i filamenti albuminosi di una sagoma che fu la mia. Solo una macchia bianca, il ritratto corrotto della più radiosa tra le ragazze. Sono tra voi, tornata tra i viventi. Qui a raccontare ciò che le parole faticano. E quali parole, chi mai, in quale lingua, hanno distillato ciò che è per sua natura indefinibile? Niente della mia vita precedente, delle vostre vite, imprime le proprie immagini tenui laggiù, dove è cecità e delirio. Ma ora sono con voi. Osservo i passi, le mani indaffarate sugli oggetti. Le bocche che si aprono. Un privilegio tornare. L’ho chiesto, ho implorato Colui che ascolta. Ho avvertito le mie labbra, che furono la Sensualità nel giardino dei vivi, approssimarsi all’eone che, traversando l’inesistente, il dopo, ritorna al principio nel cerchio del Tutto. Pensiero e Silenzio mi hanno risposto : – Torna.
Mi avvio su una scala mobile, passeggio tra i viali senza scansare le auto che mi attraversano. Ascolto il gracchiare di una radio fuori sintonia, le note di un I-Pod. Amavo il mondo che mi è sempre stato estraneo, come una stella marina dei fondali ama le fronde dei pini baciate dal sole. Presto incontrerò chi mi ha privato del girovagare tra i quartieri, delle corse sul metrò, delle boccate di gelo e di agrumi. Dell’amore. Era la mia richiesta ed è stata esaudita. Perché mai nessuno aveva meritato l’ira a tal punto. Esecrazione per chi dedicò tutte le sue energie per fare di una bambina la più aggraziata, maliziosa, palpitante creatura. Per poi abusarne, nel più torbido e inqualificabile dei rapporti: una sola carne con il padre. Il tormento ha seccato e poi spezzato il biancospino in fiore.
Dalle mura che isolavano il mondo esterno al balcone, pochi passi, le braccia rivolte al cielo come ali, il volo verso l’ignoto grigio dell’asfalto.
Ora rivedo ciò che mi era proibito e ho individuato il covo dell’assassino. Tra poco sarò da lui. Solo da breve tempo non sento il suo alito su di me, le gocce acide di sudore, la mano muscolosa che mi stringeva sopra il gomito, e l’altra inerme, perennemente avvolta in una fascia. Spesso si rivolgeva a me quando tornava dal tennis, era tanto dedito allo sport che era sempre costretto a curarsi il gomito dolorante, e dopo avvolgeva l’arto nelle bende. Una volta la benda mentre lottava con me si è sciolta e sotto ho scorto una macchia biancastra. Come mettere in atto una vendetta senza poter manovrare la lama ricurva di un coltello? Le mie braccia sono vuote apparenze. Era la mia seconda domanda a Colui che ascolta. L’Essere scaturito dal nulla come il vento del deserto si è avvicinato alle mie labbra, ho avuto sentore di cosa mi proponeva e l’ho concesso. Per un istante interminabile sono tornata la meravigliosa creatura la cui sola presenza poteva togliere il fiato. Ma ero solo odio e odio rimasi anche nell’amore.
Mi è stato così permesso di infiltrare la perfidia nella natura, tirare i fili reconditi del destino di un uomo che non voglio accettare come mio consanguineo: essere la piega triste del suo labbro, l’ombra minacciosa sul dormiveglia, il teschio che traspare dalla nuvola. Il verme nel piatto, la cloaca che risale nel bagno. Sarò il pianto che gocciola sul sole estivo, il carcinoma che sbuca sotto il seno, il filo di sangue nella saliva. Le lancette dell’orologio che rallentano nell’attesa. Sarò l’eterna compagnia dell’amarezza. Fino a che il balcone e l’asfalto non si saranno saziati di un altro corpo. Salgo i gradini di marmo della mia vecchia abitazione, li assaporo uno a uno. E’ un antico palazzo signorile, volto a tramontana, contornato dai platani. Quante volte ho sognato l’alto soffitto affrescato di ghirlande, la mia corsa leggera di fanciulla, tenendo la mano stretta alla ringhiera per non ruzzolare, sperando che non si accorgesse della mia fuga. Portavo nel corpo i lividi della costrizione, i solchi delle corde e delle percosse. Le lacrime vibravano dei sussulti, inumidivano la camicetta lacerata. Al mio aguzzino non difettavano gli scrupoli e se la porta era socchiusa, il cancello restava bloccato dai chiavistelli. Del mondo esterno rivedo immagini impresse nell’infanzia, quando accompagnavo mia madre ai giardini o al corso di danza. Captavo su di me, già dai primissimi anni, gli occhi turbati dalla bellezza che nulla concede alla ragione. Uomini maturi si giravano ad ammirarmi, ne percepivo gli occhi lubrichi, i giovani mi seguivano fischiettando. Alla scuola di ballo le altre madri mi squadravano invidiose, sussurravano dei miei capelli di miele, di occhi profondi come l’oceano, dei balzi e degli stacchi del tutù che sopravanzavano, con elasticità e armonia, ogni concorrente. Corpi distratti mi sfioravano e mia madre era attenta a chi mi prometteva baci e carezze. Ma chi più ne soffriva era mio padre, il suo non era un calore affettuoso, bensì gelosia. Una sera quando il genitore di una amichetta mi allungò un buffetto sulla guancia lo agguantò per un braccio strattonandolo con rabbia. Presto rimasi sola. Le amicizie si dileguarono e la mia famiglia si isolò. Mio padre era preso dal lavoro e da frequenti viaggi in terre lontane, soffrivo la solitudine addolcita solo da mia madre, e lo immaginavo in compagnia di altri, ad abbrozarsi su spiagge tropicali, chiuso nel suo egoismo, o in qualche città dell’oriente, da cui tornava con qualche semplice dono. Spesso portava con sé fotografie, e rovistando ho scoperto che non c’erano solo spiagge esotiche e velieri sul mare azzurro, ma anche capanne miserabili e corpi nudi di adolescenti. Rimasi sconvolta. La malattia di mia madre aggravò ulteriormente la situazione: dovevo accudirla e rincuorarla nei pochi momenti di lucidità, il volto di lui era cupo, incapace di aprirsi agli estranei, inchiodato a noi due e allo stesso tempo privato della moglie, vacillava e la sua cupidigia unita a una personalità fragile lo spingeva sempre più verso di me. Già avevo intuito con angoscia le sue pulsioni.
Poi siamo rimasti soli, e a quel punto si chiuse la porta della prigione e si aprì quella dello scandalo e giunsero così gli anni più tetri. Ma sono tornata per sete di giustizia e tra poco lo rivedrò, lo conosco, passare la notte sui siti porno, per poi presentarsi al lavoro in dormiveglia, tenuto in piedi da qualche sniffata. Sempre curato ed elegante, con la cravatta, i capelli tinti, abbronzato. Avrà ancora il braccio fasciato, questo sì, ma coperto dalla giacca. Ci tiene all’aspetto, a sembrare giovane. Eppure è ombroso, i suoi conoscenti sono gli stessi della gioventù, quelli che lo sopportano meglio. Sono arrivata, attraverso il cancello, ecco la porta del suo studio, socchiusa, una stretta fessura, l’attraverso senza spostarla, sarà il suo ultimo momento spensierato, poi lo accompagnerò giorno dopo giorno…Intravedo i piedi, è sdraiato sul divano… anzi, è steso sul letto, l’ambiente è oscuro ma lo riconosco, è dimagrito, i capelli sono radi, a chiazze, il volto è reclinato sul cuscino. Sta facendo la pennichella. Dall’angolo della bocca esce un filo di bava: forse è fatto di alcool. La pelle è butterata, una mano informe penzola sul lato. Cosa può essere successo nel frattempo? L’urlo risuona dentro di me. Mi avvicino e perlustro il corpo, non se ne accorge, l’occhio è semichiuso da una garza imbevuta di un liquido sieroso, nella stanza incombe un odore stantio, nessuno arieggia. Aggiro il letto e scorgo con orrore che del naso è rimasta una cavità informe, le labbra sono corde retratte, e l’altra mano, che portava bendata, è senza dita. Sotto il mento una protuberanza rossiccia risale dietro la clavicola. Mio padre. Irriconoscibile. Ora comprendo il suo segreto: la macchia bianca che accuratamente celava sotto le fasce non erano i medicamenti spalmati sulla pelle, ma un primo agghiacciante sintomo. Nei suoi vagabondaggi e nei contatti con gli sconosciuti ha contratto e covava la lebbra che come una piovra macera e recide la sua carne. Respira, sommessamente ascolto sillabe nel deliquio, vorrei decifrarle, comprendere la parola che ossessivo ripete a se stesso, ma fatica a emettere dalle labbra amputate… potessi bagnarle con una goccia d’acqua – O… no… o… no… – cosa intende ? Certo tenta di respingere la morte che percepisce vicina, o chiede perdono, lui che non ne ha mai concesso. Perdono alla moglie trascurata, perdono ai bambini usurpati. Perdono a me. Sono disarmata.  Il più grande nemico era l’odio che covavo senza poter dimenticare e di fronte al corpo che geme nell’agonia svanisce. Non posso procedere alla vendetta, il corso si è compiuto e l’acqua della piena fangosa è prossima all’estuario. Lontano, dove presto tornerò, troverò sagome umane e sognanti note di violino, i profumi del gelsomino e delle viole, e non sento più, mai più sarò soverchiata da quel terribile urlo: il mio.

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6 commenti »

  1. Una storia terribile raccontata dalla vittima. Scritta molto bene. Bravo.

  2. Grazie Silvia, per smorzare la crudezza ho affrontato il tema con un racconto fantasy.

  3. Tema tosto e punto di vista femminile.Accidenti ti sei misurato con uno stile difficile ma ne esci molto bene. Complimenti, molto bravo!

  4. Francesca, immedesimarsi nel punto di vista femminile è difficile, ma immedesimarsi in chi subisce violenza e ingiustizie, putroppo, è abbordabile anche per un uomo. Grazie del commento.

  5. …sì purtroppo sì, hai ragione, un abbraccio e auguri a te!

  6. Terribile l’argomento… ma anch’io mi associo ai complimenti per aver saputo interpretare i sentimenti di una vittima femminile. E’ una storia che devasta e resta dentro. Giusta, a mio avviso, la soluzione del finale.

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