Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “Il volto del lupo” di Alessandro Foletti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

«La ragazza è qui che urla e inveisce contro i passanti, viene lei a prenderla o la portiamo in centrale?»

Non era la prima volta che sentiva quelle parole. Elisa stava vivendo una crisi nervosa o era nuovamente sconnessa dalla realtà a causa dell’utilizzo massiccio di sostanze stupefacenti o di alcolici. Oppure entrambe le cose. Sua mamma ne era abituata. Ciò non la rincuorava, anzi, la sofferenza della figlia la consumava lentamente dall’interno, però sapeva bene cosa fare.

Quando Maria, la mamma, arrivò sul posto, la trovò che tirava calci a un bidone dell’immondizia, illuminata dalla luce arancione di un vecchio lampione, gridando all’aria ogni sorta di insulto e imprecazione le venisse in mente. Era arrabbiata con quell’uomo, con le stelle e con sé stessa. Purtroppo, non riusciva a ricordare la sua faccia. Solitamente si faceva del male e anche quella sera era stato così. Il piede destro era gonfio e aveva una lacerazione sul dorso che le sue scarpe non erano state in grado di evitare.

Maria si mise nel campo visivo della ragazza. Quando Elisa la vide si fermò, passarono una decina di secondi e poi la giovane scoppiò in un pianto disperato e singhiozzante, con lacrime a cascata dai suoi occhi rossi di collera a inondarle le guance scarne. Il suo aspetto incuteva terrore, era lo specchio di sé stessa. Prima non era così.

A sua mamma non servivano le parole. Sua figlia sapeva che lei le voleva bene e che comprendeva la sua rabbia, anche se non aveva mai espresso nulla che potesse far intendere di poter giustificare il suo comportamento. Secondo Maria si poteva agire in altri modi. Ma non poteva biasimarla. Ognuno reagiva a modo suo alle avversità e quello che era successo a Elisa era mostruoso.

Rimase a letto undici ore quella notte, nelle quali si alternarono momenti di sonno profondo a numerosi rapidi incubi. Quello che visse nei meandri della sua mente furono immagini già viste centinaia di volte. Sogni angosciosi che la tormentavano quasi tutte le volte che si assopiva. Non c’era verso di abituarcisi. Al contrario, creavano un costante incremento del suo stato d’ansia che la portavano periodicamente a mettere in atto comportamenti autodistruttivi. Anche dopo essersi svegliata, la sensazione di essere braccata non svaniva mai del tutto. Sapeva che alla fine sarebbe stata catturata e che non avrebbe avuto alcuna via di scampo.

Era quasi mezzogiorno del giorno dopo e la mamma la informò che stava per arrivare la sua amica Nadia per portarla fuori a pranzo.

«Ma dai mamma, ti sembro nelle condizioni di uscire?»

«Ti ha sempre fatto bene stare con lei!»

Non poteva darle torto. Da quando si erano conosciute alle scuole medie erano diventate come sorelle. Entrambe figlie uniche avevano colmato un vuoto generazionale. A Maria piaceva molto quella ragazza e anche se era stata la prima tra i suoi coetanei a iniziare a fumare e a diciassette anni, senza patente e all’insaputa dei suoi genitori, aveva preso l’auto per recarsi al mare a vedere l’alba con sua figlia, aveva molto rispetto per lei. Aveva la testa sulle spalle, frequentava l’università, lavorava come fattorino per pagare la retta ed era stata l’unica tra i conoscenti di Elisa che non l’aveva mai abbandonata. Era stata con lei o l’aveva sentita al telefono ogni giorno, sia durante il ricovero in ospedale che nel successivo in clinica di riabilitazione. Diciotto mesi nei quali Maria non aveva perso la speranza, ma anche nei quali non avrebbe scommesso sulla dimissione e sul rientro a casa.

Avevano scelto un ristorantino etnico all’interno di un quartiere della città caratterizzato da grattacieli pretenziosi e futuristici. Nonostante la zona fosse rinomata si riusciva a mangiare ancora non spendendo molto.

La mamma di Elisa lavorava in un negozio di abbigliamento e i soldi bisognava ridistribuirli con molta attenzione tra le diverse spese. Il papà se ne era andato alcuni mesi dopo il suo ricovero e non si era più fatto né vedere né sentire. La mamma non aveva una spiegazione per la sua fuga e non voleva azzardare risposte per ipotesi. I due genitori erano già molto distanti tra loro negli ultimi anni, parlavano poco e praticamente non trascorrevano nessun momento speciale insieme, se non qualche rituale familiare. La mamma era consapevole che l’amore potesse finire un giorno e si assumeva almeno metà di ogni responsabilità, però non riusciva a comprendere come avesse potuto abbandonare la figlia. Era stato un papà molto presente fin dalla sua nascita, nonostante i lunghi turni in segheria, era sempre pronto a togliere qualcosa a sé pur di non far mancare niente a Elisa. Qualcosa però era cambiato.

Dopo aver ordinato due poke a base di tonno, riso venere, avocado, salsa Teriyaki e semi di sesamo tostati, le due ragazze si sedettero a un tavolo rialzato vicino alla vetrata esterna e iniziarono a mangiare. Erano l’una di fianco all’altra ed entrambe spostavano continuamente lo sguardo dalla piazza sottostante agli enormi edifici. In alcuni momenti, senza parlarsi, si soffermavano a ipotizzare come fossero affascinanti o deprimenti le vite delle persone che, come formiche, brulicavano sotto di loro.

Nadia avanzò la conversazione.

«Dovremmo partire, cambiare città. O paese. O continente. Cosa ne dici dell’Australia?»

«Non sono pronta.»

«Non importa, partiamo lo stesso!»

«Non mi abbandoneranno cambiando casa.»

«Ti riferisci ai tuoi incubi?»

«Già. Sono passati tre anni e non è cambiato nulla. Incubi tutte le notti e non riesco neanche a ricordare la sua faccia. Occhi grandi che mi inseguono. Mani grandi che mi afferrano. Io che urlo e non riesco a liberarmi. Vorrei che non mi avessero trovata in quel bosco, così mi sarei lasciata morire!»

«Lo sai che non la pensi così davvero, ami troppo la vita. Altrimenti saresti ancora in clinica.»

Un lungo silenzio le accompagnò mentre finirono di mangiare e tornarono a casa. Nadia era proprio una vera amica – pensava Elisa – ed era uno dei motivi per cui valeva la pena di non lasciarsi andare.

«Pensaci.» disse Nadia prima di salutarla con un abbraccio sotto casa.

Non era ancora il momento di partire. Sapevano entrambe che non sarebbe bastato.

Elisa salì a casa, abbracciò sua mamma, la ringraziò e le disse che le voleva bene. Passarono una serata tranquilla insieme, cucinando e guardando la televisione fino a tardi.

Anche quella notte gli incubi la tormentarono. Nel sogno c’era una bocca grande con tutti i denti in vista che luccicavano davanti a lei. Fauci animalesche impegnate in un ghigno diabolico colante di viscida saliva a bagnarle il volto. Immobilizzata nella morsa di un predatore antico, pronta per essere…

Si svegliò urlando e completamente fradicia di sudore. Il suo primo istinto fu quello di vestirsi per uscire di casa per ricercare sollievo in una bottiglia di liquore o con la prima sostanza psicoattiva illegale da rimediare nei pressi della stazione. Si obbligò a resistere. Non fu facile, ma quella volta ci riuscì. Rimase a lungo seduta a gambe incrociate sul piatto doccia con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani che impedivano alla sua fronte di cascare in avanti. Come tante altre volte aveva sperato inutilmente che quel getto di acqua calda che le batteva sulla testa e che rimbalzava sul suo corpo nudo potesse cancellare il passato, nella stessa maniera che una tempesta tropicale cancella le orme sulla terra. Non funzionò neanche quella volta. Però finché rimaneva sotto l’acqua corrente aveva l’illusione di poterci riuscire.

Elisa avrebbe voluto che ci fosse anche suo padre con lei, che non se ne fosse andato. Pensava che avrebbe potuto aiutarla, come faceva quando era bambina. «Dietro alle nuvole c’è sempre il sole» le diceva sempre. Lei ci aveva creduto, poi non più. Dopo quello che le era capitato come avrebbe potuto. Inoltre, aveva perso il papà e anche la nonna paterna non c’era più, stroncata dal crepacuore ripetevano le persone intorno a lei. Aveva riposto le foto del padre che erano appese sulla parete sopra la scrivania nella sua camera in un cassetto, perché dopo che lui partì, la sola presenza era un ulteriore pugno nello stomaco. Sperava che tornasse. Ma non sarebbe mai successo.

Neanche le oltre centocinquanta ore di psicoterapia con il dottor Antonietti erano riuscite a ricostruire il volto del mostro che l’aveva violentata. Le sedute erano comunque servite a ripristinare una certa regolarità nella sua vita. Anche se le notti erano tormentate da incubi, la maggior parte delle giornate funzionava. I momenti peggiori erano la mattina al risveglio e la sera quando le forze venivano meno. I farmaci aiutavano a stabilizzare l’umore e a evitare lunghi stati depressivi. Il medico le aveva anche insegnato alcune strategie per focalizzare il pensiero su oggetti, persone e attività rifugio su cui fare affidamento in caso di crisi. Alcune volte funzionavano, altre no. Nell’ultimo anno aveva anche ricominciato a lavorare. Faceva l’aiuto contabile per una piccola azienda di biciclette da corsa. Non era mai arrivata tardi e non aveva mancato neanche un giorno di lavoro. Occupare la mente la aiutava. Quando rimaneva sola o non aveva abbastanza energie per mettere in atto le difese per contrastare il suo male, cadeva in crisi, beveva, si faceva del male o si drogava. Il suo medico non la giudicava, ma le ricordava che c’erano altre vie. Sapeva anche però in cuor suo che i farmaci e le terapie non potevano bastare.

Passarono ancora molti giorni, settimane, mesi e anni. Giornate più o meno tranquille e notti terrificanti. Rischiò la vita in diverse occasioni, ma ogni volta risalì quell’esile filo che la teneva aggrappata alla vita. La mamma e la sua amica furono sempre al suo fianco.

Non riuscì mai a guardare un ragazzo con interesse.

Un mercoledì nella pausa pranzo, la sua amica, la convinse a fare shopping per svecchiare un po’ il suo guardaroba che si era arrestato alle mode del decennio precedente. Arrivata alla cassa i suoi occhi si soffermarono sui baffi del commesso. Non erano la prima volta che vedeva dei baffi. Ma quelli catturarono la sua attenzione. Era un taglio che non si utilizzava più, stile camionista americano, non terminavano ai lati della bocca, ma continuavano scendendo verticalmente per unirsi alla linea del mento. Erano biondi. Qualcosa iniziò a muoversi dentro di lei. Lei era bionda. Una mano sembrò afferrargli il cuore strizzandolo. Le mancò il respiro. Cadde sulle ginocchia con lo sguardo fisso nel vuoto. Non ebbe più alcuna reazione. Dovettero chiamare un’ambulanza.

«Papà sei un bastardo!» Furono le parole che pronunciò al suo risveglio in quel letto così familiare dell’ospedale.

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1 commento »

  1. Il mostro che vive tra le mura domestiche. Una realtà così traumatizzante che la mente a volte può rifiutare di accettare, come successo alla protagonista di questo racconto. Scrittura precisa ed efficace che trasmette piuttosto bene al lettore i sentimenti che si agitano in questa drammatica storia.

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