Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “Il figlio” di Paola Macchiarulo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

 

Dalla mia finestra si vedono il porto e le banchine. Da questa barca che sta attraccando scende un bel giovane abbronzato, elegante nei modi. Aiuta i passeggeri a scendere, sorride, immagino che stia salutando e ringraziando. Quel giovane è mio figlio: io lo so, lui non lo sa. Fa lo skipper, d’estate porta in giro per l’arcipelago le persone che vogliono passare una settimana in barca a vela, assaggiare il sapore del mare e di una piccola avventura senza pericoli. Li imbarca di sabato su questo molo, li sbarca sempre di sabato davanti ai miei occhi nascosti dai vetri. Ha come me il mare nelle vene, ma non sa di chi è quel sangue e chi glielo ha passato. Sua madre invece è una donna di terra. Vive in mezzo alle vigne sui muretti a secco, non ama il mare e ha voluto tenere suo figlio lontano da lui e da me. Lei sa che dalla mia finestra lo vedo arrivare in porto, ma abbiamo un patto e io, nonostante sia un marinaio, certi patti li rispetto.

Eravamo giovani, troppo. Lei si innamorò di una bianca divisa, io di una chioma nera come la notte. Lei aspettava il ritorno dei cadetti, io aspettavo le sue braccia. L’Accademia finì e rimasi in Marina. Partivo, giravo il mondo, ritornavo, ci ritrovavamo e ricominciavamo tutto da capo: l’amore, i sogni, i progetti. Erano giorni felici, dimenticavo il mare e tutto ciò che in quei mesi ci aveva allontanato, lei dimenticava la terra e le vigne. Io vivevo di lei, della allegria della nostra casa, ma mentre le vigne erano sempre ferme, assopite al sole, io guardavo le onde che vanno e vengono, i brillanti sull’acqua, l’orizzonte che si perde nella luce. Non sono mai stato un uomo di terra, ho bisogno di movimento, di cambiamento, di sfide, di assaporare la partenza: trovavo tutto questo solo quando lasciavo il porto e prendevo il largo. Il mare è una sirena: bella, affascinante, dal bacio infinito e io ogni volta bevevo questo bacio che non mi bastava mai, ogni volta lo desideravo un po’ più dei baci di lei. Ma anche ogni volta, quando intorno a me non c’era che acqua e l’orizzonte era una linea indefinita, o nella notte, quando la luna disegnava una riga chiara e il mare era il buio assoluto, avevo nostalgia di lei, del suo odore di sole e del suo tocco segreto.

Quando mi annunciò di aspettare un figlio mi sentii perduto: la mia libertà, il mio mare erano in pericolo. Capii che non l’amavo abbastanza: la sirena scintillava al sole, sussurrava di notte, prometteva e indugiava e mi teneva legato. Anche lei capì. Non saremmo mai stati veramente felici insieme, ci avrebbe sempre separato il mio desiderio di navigare, l’anima irrequieta del marinaio, un muro invisibile fatto d’acqua salata. Nessuno dei due volle rinunciare: lei al bambino, io al mare.

Per questo facemmo quel patto che oggi mi costa tanto: il figlio era suo e io dovevo sparire. Non voleva che il mare le togliesse anche quell’illusione di famiglia che era tutto quello che aveva, aveva paura che anche lui un giorno andasse via verso quella sirena senza volto. Decise che sarei stato suo padre solo di nome, nient’altro: avrei saputo tutto di lui, l’avrei visto da lontano, avrei conosciuto la sua vita ma non vi avrei mai partecipato. E questo allora mi piacque: ero libero di navigare, avevo una famiglia ma non ne avevo le responsabilità. Ero giovane, gli anni sembravano infiniti, la sirena mi baciava ancora.

Ma gli anni non sono infiniti e ho sentito sempre più forte il desiderio di un luogo a cui tornare per fermarmi, ritrovare anche quello da cui ero fuggito, diventare un uomo. Ho scelto di continuare a vivere nel paese in cui avevo amato la donna che mi aveva dato un figlio. Ho cercato una casa che guardasse il porto e le banchine dove si svolgeva tutta la vita del paese e da dove vedere il mare anche quando ero a terra. Senza confessarlo nemmeno a me stesso c’era una famiglia che mi apparteneva e a cui appartenevo, anni che mi stavo perdendo senza conoscerli, un porto a cui tornare ma non in barca.

Mio figlio è cresciuto sotto i miei occhi che lui non ha conosciuto. L’ho visto correre con gli altri bambini, distinguendolo anche in mezzo a una folla e sentendolo ridere e gridare. Da lei ho sempre saputo tutto delle loro giornate: le abitudini, i progressi, i gusti di quel bambino che ci univa e ci aveva diviso. Ci sentivamo spesso, ci incontravamo per parlare di noi e di lui come se parlassimo di altre persone, di altra vita. Eravamo ancora innamorati, lo sapevamo, ma non eravamo riusciti ad amarci fino in fondo. Ci volevamo bene ormai come due amici legati da una vecchia abitudine e da molti ricordi in comune. Il patto era rispettato.

Ma senza che ce ne accorgessimo quel bambino sentì la voce della sirena e lei fu più forte di noi. Quando per la prima volta lo vidi su una vecchia barca della scuola di vela capii che tutto era stato inutile: noi, i suoi genitori, avevamo lottato invano contro qualcosa di più grande di noi. Era marinaio: nel suo cuore batteva il palpito della vela che cerca il vento, nella voce tintinnavano le drizze che battono nell’albero, nelle mani scorrevano le scotte fradice d’acqua. Il mare era in lui quando ancora non sapevamo che esisteva.

Non sono stato un buon padre, anzi non sono stato un padre. Toccava a me insegnargli a navigare, conoscere i pericoli e gli incanti del mare, interpretare i venti e le bonacce, affinare l’istinto che guida oltre la ragione. Dovevo essere io a metterlo sulla prima piccola barca che avrebbe ricordato per tutta la vita come l’inizio dell’età adulta, perché la vela è la mano tesa di padre in figlio come complicità e sicurezza, un patto fra uomini che si fidano e si affidano l’uno con l’altro. Toccava a me insegnargli a vivere. Invece ho preferito rimanere un ragazzo che ha creduto che la libertà fosse una conquista e che il mare fosse solo mio senza dividerlo con nessuno. Dovevo rinunciare a navigare, fermarmi: non ho capito che quel mare più piccolo mi avrebbe dato la stessa felicità dei grandi orizzonti, che è la passione a riempire gli occhi e il cuore, quella passione che avrei visto negli occhi di mio figlio uguale alla mia. 

Il sole si sta abbassando dietro le gru del porto. I nuovi passeggeri stanno salendo a bordo e il bel giovane abbronzato porge la mano per aiutarli, il suo sorriso è quello di sua madre, il portamento somiglia al mio. Ormai sono le ultime partenze. Con l’autunno la sua vita cambierà e lo vedrò molto raramente: il suo mare diventa molto più vasto. So che fa traversate oceaniche, trasferimenti, regate d’altura: è uno skipper molto richiesto, serio, esperto, che sa come affrontare anche le situazioni più difficili. Ne sono orgoglioso, ma in tutto questo non ci sono io. Anche questo toccava a me: parlargli delle incognite del mare, delle sue illusioni, delle improvvise tempeste e delle bonacce logoranti. Avrei spiegato che il mare è come la vita, sorprendente, imprevedibile, piena di insidie e di meraviglie, la vita a cui si rimane attaccati sempre, anche quando mostra il lato più amaro, perché sempre si spera in quel filo di vento che riporta a casa.

 Avrei dovuto raccontargli dei momenti di paura, metterlo in guardia dai pericoli dell’imprudenza e della sicurezza eccessiva, dagli inganni dei miraggi, da quella sirena così bella e così traditrice, io che la conosco bene e ne sono stato incantato, io che per seguire lei ho dimenticato lui. E forse per questo sono in ansia per mio figlio, cerco notizie su Internet, chiedo a sua madre, mi informo nel porto dagli armatori. Qualche volta penso che sia l’età che avanza che mi fa sentire inquieto, ma so che non è così. Dentro di me si muove un leggero senso di smarrimento al pensiero di non vedere dalla mia finestra la sua barca: non avrei più un motivo per affacciarmi a guardare il mare, diventerei lentamente un uomo di terra, quella terra a cui è attaccata lei. Io che ho visto tanti mari, tanto vento, tante tempeste, ora temo il mare di mio figlio, aspetto dalla mia finestra un ritorno che si fa attendere. Io ora, troppo tardi, mi sento padre

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1 commento »

  1. La pretesa di governare il destino di un figlio può condurre ad una vita quasi irreale che in ultimo presenta il conto a tutti i protagonisti. Racconto costruito interamente attraverso la narrazione con una bella prosa ornata che rende partecipe il lettore dei sentimenti del protagonista.

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