Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “L’eroe con la giacca a quadri” di Gianpaolo Chieffi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Issa la mano destra verso il cielo. Stringe una specie di connettore, lo maneggia senza tremare come prima di andare a dormire quando estrae lo spazzolino dal bicchiere sul lavandino. La sicurezza che solo un’azione consueta può darti. Strizza gli occhi, memore di un passato da miope, indossa ancora gli occhiali perché senza non si riconosce.

Quella piccola e cilindrica fessura con all’interno delle puntine arrotondate gli deve ricordare il cavo dei mouse e delle tastiere di un secolo e mezzo fa che aveva consumato a furia di scrivere libri e articoli sul diritto costituzionale, la bioetica, il federalismo.

Ma questo è diverso, non lo ha mai visto prima. Ha solo sentito parlare di come quell’arnese serva a mettere in comunicazione il mondo che gravita tra i semi vivi e i quasi morti. Miracolo della tecnologia apparso solo pochi anni fa, nel duemilacentoventi. Ne abbiamo pure discusso a tavola lo scorso Natale, mio padre faceva parte di una commissione bioetica che si interrogava sui rischi derivanti da un trasferimento di energia vitale che un anziano signore voleva devolvere al nipote in coma. I medici non erano sicuri che dopo il transfer il nonno ce l’avrebbe fatta. Ma il signore voleva provarci lo stesso. Papà parteggiava per la libertà di scelta, fondamentale però che quella persona fosse informata adeguatamente. Che gli spiegassero a cosa andasse incontro, che una commissione stabilisse prima se la sua decisione fosse cosciente al cento per cento.

Quella storia gli deve essere ripiombata nella mente in questi istanti. Il suo calcolo dei rischi dura il tempo di cercare gli occhi di mia madre al di là del vetro. Comunica a quelle ombre in camice verde nella stanza.

“Lo faccio, sono consapevole. Mostratemi per favore come usare questo aggeggio, collegatemi. Non perdiamo altro tempo” gli dice con un tono secco, stavolta distogliendo lo sguardo da mamma. 

Non ci ha mai saputo fare con la tecnologia. A volte passavano settimane che non tornavo a casa e quando lo facevo mi precettava puntualmente per riprendere a far funzionare la stampante. Usa ancora leggere e scrivere su cellulosa, non si è mai abituato ai visori ottici, alla realtà aumentata.

Questa volta non mi ha chiesto aiuto. Una delle ombre con la tunica fino ai piedi prende il filo, invita mio padre ad accomodarsi su una sedia e con un click aggancia la periferica alla porta sotto la sua nuca. Scorgo un lampo nelle sue pupille nocciola scuro, un attimo prima che le palpebre si serrino di colpo come saracinesche.
Scossa elettrica. Buio. Fonti luminose che si attivano e fendono l’oscurità come lame affilate che a stento illuminano la notte di quel Paese sconfinato. Si moltiplicano in onde luminose. Lattiginose, la cui frequenza aumenta col passare dei secondi. Ora brillano puntiformi in mezzo ai castagni americani. Sono gli occhi di un cervo che fa per attraversare la strada ma poi si ferma, sterza per ributtarsi nel bosco ma lo fa sul lato sbagliato e si ritrova di fronte a una rete. Non sa che fare. Corre a zig-zag. In un attimo tutto ritorna a essere fumo bianco, una coltre spessa che si trasforma in un’unica saetta che va dall’altra parte dell’oceano. Salto quantico temporale all’indietro.


E’ sera. I suoi capelli sono di nuovo nero corvino. Ciuffo agghindato sul lato sinistro della fronte, compatto, ispido, più e più volte riaggiustato con la mano durante la giornata.

Era tornato a casa dopo che io e i miei fratelli avevamo finito di cenare, succedeva spesso dal lunedì al venerdì. Il suono attutito dal parquet della sua ventiquattr’ore di pelle nera e logora adagiata al suolo. Dalla cucina percepivo uno spostamento d’aria che mi ricordava il battito d’ali del mantello di Superman. Era la sua giacca che veniva sistemata sull’attaccapanni. Grondante dei nostri cappotti, uno o due per figlio. Quella giacca retrò, dai quadretti ocra riempiti di nero o forse blu scuro. Aveva un odore forte. Forte, non maleodorante. Associavo quell’olezzo al significato più recondito del lavorare. Capivo perché dalle nostre parti fosse sinonimo di faticare.

Era già tardi e mezzo sonnolento lo osservavo di sfuggita mentre me ne tornavo in camera per giocare. Mangiava affamato di fronte al telegiornale per poi sedersi alla scrivania dove riprendeva quello che di sicuro aveva fatto durante il tutto giorno all’Università. Scrivere, correggere, comporre mosaici di giornali con quella colla dall’odore così buono che veniva voglia di mangiarsela. Era per noi arrivato il momento di andare a letto mentre lui si accoccolava sul divano.

Quando non mi addormentavo subito sentivo la televisione in sottofondo e dall’apertura della porta nella nostra stanzetta scorgevo in lontananza un bagliore blu dal soggiorno.

Quel baluginare di suoni e immagini mi tranquillizzava, voleva dire che c’era qualcuno a vegliare su di noi. E allora il torpore poteva avere la meglio su di me.

Rallenta Papà. La macchina sta correndo troppo. Se fai così ci sfracelliamo contro gli alberi per schivare quel cervo. Evita di correre. Non l’hai mai fatto nella tua vita perché devi iniziare proprio adesso? E poi casa non è così lontana.

È la prima volta che guidi questo veicolo fluttuante, prenditi il tempo per familiarizzare con questa tecnologia. Cerchiamo di non spaventare l’animale ancora di più. Ne ho visti di cervi ammazzati sui cigli delle strade da queste parti!

Tranciati di netto, senza una zampa, col collo spezzato. So solo che hanno scelto il momento sbagliato per attraversare. Si, ecco così va bene, stagli alla larga. Vedi che si calmerà.


Dovevo avere tredici o quattordici anni. Era luglio o forse agosto. Di sicuro non era inverno perché indossavo una t-shirt e dei pantaloncini mentre passeggiavamo per le stradine della cittadina sugli Appennini dove i miei genitori avevano da poco comprato una piccola casa. Passavamo davanti a una pescheria quando una vespa si appoggiò sul mio collo. Avvertì un dolore, come un pizzico. Sentivo la pelle pulsare. Non era la prima volta che una di quelle bestie mi pungesse. Al contrario di altre occasioni mio padre era lì accanto a me in quel momento. Non ci pensò un attimo, mi spostò la maglietta e succhiò il veleno iniettato con la rapidità con cui si beve un caffè che scotta al bancone affollato di un bar. Solo adesso realizzo quanto fosse stata una mossa lontana dal suo essere, fin troppo avventurosa, audace. Quel gesto aveva implicato un contatto fisico che fino a quel momento avevo sperimentato solo quando lo facevo imbestialire a tal punto da meritare qualche ciabattata sul fondoschiena.


Quel cervo non è da solo, dall’altra parte della strada ce n’è uno più piccolo. Non deve avere che qualche mese, vorrebbe attraversare per ricongiungersi all’adulto che dall’altra parte dell’asfalto rimbalza contro la rete fino a impigliare le corna tra le maglie metalliche a rombo. Rallenti, giri di qualche grado a est, le due ruote di destra si inzuppano a contatto con l’erba autunnale. Blocchi il veicolo col freno di stazionamento, accendi le quattro frecce prima di aprire la portiera e proiettarti all’esterno.


Notte di fine estate, caldo umido del golfo. Tv accesa nella loro stanza da letto e lui già dormiva da tempo perché lo sentivo russare.

Il telefono di casa squilla. Mi alzai io. Risposi. Era uno dei miei migliori amici del liceo, da un anno studiavamo insieme all’università di chimica. Era rimasto bloccato in una stazione ferroviaria a una quarantina di chilometri dall’arrivo in città, di ritorno dalle vacanze al mare. Mi raccontava la situazione con un tono di voce basso, dimesso e stanco, di chi si trova di fronte a un ostacolo troppo alto e ha speso già le sue migliori energie. Avevano da poco fermato il treno e fatto scendere i passeggeri che dovevano trovarsi un altro modo per tornarsene in città. I suoi genitori come pure il fratello erano rimasti ancora qualche giorno al mare ed erano troppo lontani per andarlo a recuperare. E pensò a me. In realtà pensò a mio padre.

Sperai che si svegliasse dal sonno profondo e che soprattutto non ci rifiutasse un aiuto. Lo sfioravo appoggiando appena i polpastrelli sul braccio come se quella pressione delicata e impercettibile potesse influenzare positivamente  l’umore del suo risveglio.

“Papà, papà svegliati. Scusami.”

Non blaterò, non si lamentò. In fretta ci vestimmo per dirigerci alla stazione lontana almeno trenta, quaranta minuti di macchina.

Una volta ripescato l’amico sventurato il silenzio notturno cullava il nostro ritorno mentre mio padre guidava. Intorno a noi nessuno schiamazzo, nessuna moto rombante o frenata di gomme urlanti. Le luci fioche arancio dei lampioni autostradali impreziosivano come perle di una collana il cono del vulcano sonnecchiante che ci veniva incontro per poi scomparirci alle spalle. Silenzio anche dentro all’abitacolo.

Non un silenzio d’imbarazzo, tantomeno reverenziale. Marinai recuperati da una tempesta che riposano sotto coperta, caduti nel mare burrascoso. I tentacoli del kraken divennero solo un atroce ricordo. L’ammiraglio li aveva tratti in salvo e ora timonava il veliero verso il porto con lo sguardo sereno di chi aveva superato l’ennesima sfida solcando i mari.


Scendi dall’abitacolo, mi fai segno di non seguirti. L’animale scalcia, vedo i suoi zoccoli illuminati dai fari della nostra macchina. Sbuffa di paura, il suo naso è umido, sprizza umori di terrore, le pupille sono dilatate. Starà pensando che è arrivata la sua fine. Le bestie a due zampe in mezzo ai boschi imbracciano bastoni sputa fuoco che stendono i suoi simili. E poi quando giacciono immobili per terra, quando nessun soffio di vita è più presente e non possono fronteggiarli con i loro palchi da battaglia, i vigliacchi si avvicinano, li trascinano via su quei mostri che corrono sui fiumi neri con le strisce gialle che tagliano le foreste. 

“Che vuoi fare Papà? Quella bestia è fuori di sé. Non sarebbe meglio chiamare la forestale?”

La batteria della macchina cede. I fari si spengono. È tutto nero. Non vedo nemmeno una stella lassù in cielo. Foglie secche d’acero come piedini microscopici corrono sull’asfalto ticchettando, il vento le trascina da una parte all’altra.

Anche se sei solo pochi metri da me già non ti vedo e non ti sento più. Non percepisco la tua presenza, sono solo. Ho paura Papà.

“Professore, deve sbrigarsi”. È la voce fuori campo dell’ombra verde.


Solo un anno fa. La sua chioma risentiva di più di un secolo e mezzo passato su questo pianeta. Ciuffo scompigliato, colore simile ai suoi vecchi ritagli di giornale. Qua e là qualche carattere nero guizzava tra i capelli.

Era venuto a trovarmi, a ovest dell’oceano, dove mi ero trasferito solo qualche mese per lavoro.

Quello che alcuni chiamano caso fece in modo che risiedessi a nemmeno duecento miglia da dove lui vide per la prima volta la luce del nostro mondo. Suo padre emigrò in America con la moglie e una figlia piccola salendo su uno di quei barconi e sventolando un fazzoletto bianco. Poco dopo ebbe un figlio maschio. Passati solo due anni ebbe la fortuna di compiere il percorso inverso. Tornava perché ricevette una buona offerta di lavoro nella città dove nacquero gli altri quattro figli, dove poi sono nato anch’io. Da allora quel bambino che era mio padre non aveva fatto più ritorno in quelle terre. 

Centosessantotto anni dopo sedeva di fianco a me nelle tre ore di viaggio che ci separavano dal suo punto zero. Nei nostri viaggi in macchina aveva quasi sempre guidato lui. Ma non stavolta. 

Destini invertiti di uomini fatti di porzioni di stessi acidi desossiribonucleici.

Con la scusa che le macchine americane fluttuanti fossero troppo diverse da quelle europee lo stavo scortando dove aveva bramato ritornare per decenni. Per me era un privilegio.

Non parlava, ma fiutavo, percepivo la sua emozione. Che di riflesso era anche la mia e quella di mia madre che immergeva la sua vista nella paletta dei colori d’autunno della flora che ci stava accompagnando lungo il tragitto.

L’abitacolo completamente insonorizzato dall’esterno creava un microclima di totale silenzio. Un silenzio che arriva solo prima delle grandi attese. Concentrazione, pensieri e ricordi che si avvicendano. Pensavo. Ragionavo che forse sarebbe potuto essere più aperto con me e i miei fratelli. Che ci avrebbe potuto dire almeno una volta “vi voglio bene”.

Non è bastato il calore avvolgente di nostra madre per renderci delle persone morbide. Siamo cresciuti rigidi come lui. Intirizziti nel freddo dei non abbracci, di una fisicità azzerata, della non esternazione delle emozioni. Emozioni roventi immerse nel catino d’acqua dove il fabbro raffredda il ferro di cavallo ancora rosso di fuoco.

Finalmente arrivati a destinazione. Di fronte a quell’ospedale ora diventata una residenza scattavi foto, ti scattavo foto in mezzo alla desolazione di una periferia dimenticata. Spiegavo ai fratelli neri che passavano su macchine scassate che quell’uomo era nato lì nel millenovecentocinquantacinque. Che quell’uomo col sorriso sulle labbra stava riprendendosi un pezzo di se. Che io lo stessi aiutando a chiudere un cerchio.

Qualche giorno dopo che era tornato in Italia mi chiamò, ero in ufficio. Era un orario inusuale per ricevere una sua chiamata. La sua voce era squillante, mi chiedeva come stavo. Mi stava ringraziando ancora una volta. Nella sua lingua mi stava dicendo che mi voleva bene, che era grato perché suo figlio l’aveva riportato dove aveva sempre sognato di tornare. Avevo imparato a tradurlo ormai, ad apprezzare il non detto. A imprimere nella tavoletta dei miei ricordi che ci sono modi alternativi che un padre impiega per esprimere affetto.


Non ti vedo. Sono passati pochi secondi, mi sembrano anni. Non riesco a riaccendere la macchina. Apro la portiera per venirti a cercare pure se mi hai detto di non venire. Il terreno si fa presto melmoso, il cielo è una coltre di nuvole impenetrabile.

Sento un rumore metallico, deve essere il cervo che continua a dimenarsi contro la rete. E poi dei gemiti umani. 

“Aaaaaargh” sei tu. La bestia torna a sbattersi più forte di prima.

“Papà! Sono qua, ti do una mano” un buco nelle nuvole illumina la scena. Mio padre con entrambe le braccia prova a disincastrare le corna dalla rete. Vedo un fiotto di sangue colare dalle sue mani, il quadrupede non lo sta agevolando, impazzito di paura. Lo afferro estendendo quanto più possibile le mie braccia e cingendolo tra dorso e sottopancia per tirarlo indietro e diminuire la pressione che esercitava con le corna sulla rete.

Il mio orecchio destro pressato sul suo addome sente il suo calore, il suo cuore correre infuriato come le ruote di un treno in corsa. Non distinguo più il suo battito dal mio. Le mie caviglie affondano nel fango, non ho più presa fino a quando un masso sotto terra mi permette di esercitare un ultimo, disperato sforzo.

Sto per svenire, percepisco il suo vello irsuto scivolarmi dalla faccia come una carezza vetrata, il calore del suo corpo tramutarsi nel freddo della notte, nel sapore di erba e terra che mi entra in bocca. 

Qualcosa mi solleva da terra. Penso sia la mia anima che prende una strada diversa. Perdo i sensi.


Luce. Abbacinante. Non vedo nulla tranne che camici verdi che formano un capannello attorno a una sedia a pochi metri dal mio letto. Uno di loro mi sta tenendo il polso e alza un braccio verso gli altri.

“Operazione completata, transfer energetico effettuato. Livello vitale del paziente sufficiente  all’espletamento delle funzioni corporee di base”.

I dottori di fronte a me si diradano, escono dalla sala. Si dirigono verso una persona. Riconosco mia madre dall’altra parte del vetro. Credo che pianga.

Sono rintronato, sento che posso perdere conoscenza da un momento all’altro come se la sala fosse satura di anidride carbonica. Sgrano gli occhi una, due volte e riconosco mio padre sulla poltrona, l’ultimo medico rimasto gli stacca il connettore. Non ricordo tutte quelle rughe, ha gli occhi chiusi, le mani gonfie. Penzolano lungo la sedia seguendo un movimento impercettibile simile a un pendolo che ha smesso da poco di funzionare. Mia madre fa ingresso nella sala dei transfer, figura minuta che compie passi piccoli e rapidi per abbattere la distanza che la separa da suo marito. Strappa una coperta beige dalle mani di un infermiere che si stava avvicinando. Avvolge mio padre, la faccia è vitrea come il ghiaccio. Lo stesso gelo che si impadronisce di me. Che hai fatto Papà? Perché?

“Ahhhhhh” il mio urlo squarcia le pareti non prima di aver divelto la mia bocca arsa, serrata chissà da quanto tempo. Il fuoco di sentirmi di nuovo vivo e la fiamma del dolore si incrociano in un unico, divampante incendio. Mia madre volta il capo, mi guarda, ma non c’è più traccia di lacrime. Fa un passo all’indietro per portare la figura di Papà alla fruizione della mia vista. Mi siedo sul letto, mi porto appresso tutti i tubi.

Lo guardo. Le sue labbra. Sono una fessura. Un piccolo trattino. Immobile. Che decide a un certo punto di tremare, spezzarsi. Le sue gote riprendono colore. Fa per alzarsi ma i dottori accorsi di nuovo nella stanza lo invitano a prendersela con calma. Non un lamento, non una rimostranza. Il sorriso stanco di chi tutte le sere tornato dal lavoro appende il mantello a quadri sull’attaccapanni di casa. 

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2 commenti »

  1. Attendo con piacere i vostri commenti! Buona lettura.

  2. Ho letto con piacere. Mi è molto piaciuto questo mondo distopico e la possibilità di recuperare la parte affettiva.bravo. Leggi anche il mio?

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