Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “Note di riscatto” di Cristina Di Claudio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Sono sempre stata una bambina introversa. Anche prima dell’incidente. Le mie guance avevano l’imbarazzante abitudine di prendere fuoco. Le parole erano solite muoversi per loro conto, incespicando e arrotolandosi su sé stesse. Le mie unghie si avvicinavano incautamente alla bocca, deliziando i miei denti crogiolanti in uno sgradevole vizio. Mia sorella invece era l’esatto contrario. Lei amava mettersi in mostra. Quando parlava, tutti tacevano. Viveva come un’attrice al centro del palcoscenico. E noi non potevamo far altro che ammirarla.

Questo a sottolineare che impacciata lo sono sempre stata. Non è colpa dell’incidente. Ma per i miei genitori prima era scomodo farci caso. È dopo la disgrazia che si sono accorti di me. Credo sia lì che Sara abbia iniziato a odiarmi. Le ho rubato la scena. Senza capire che la mia continuava a essere un’esistenza ai margini.

Ricordo quando ha distrutto il violino regalatomi da mio padre. Lo ha battuto più volte contro la spalliera del letto. Non sopportava la mia passione per la musica. Non sopportava che papà la condividesse con me. L’ho reso felice quando gli ho detto che volevo imparare a suonare. Ma io lo facevo per me. Sola con il mio strumento. La condizione perfetta.

È alla musica che penso anche ora, nel giorno più importante della mia vita, mentre mi trascino lungo strade ancora buie ma già brulicanti di gente. L’inconfondibile profumo di Sacher, mi fa tentennare di fronte una signorile pasticceria. Guardo l’orologio. Devo accontentarmi del caffè che stringo tra le mani. Chiudo il cappotto e riprendo il cammino tra le eleganti vetrine di negozi ancora assopiti. Il suono dell’arpa di un’artista di strada riempie l’aria con le note del Bel Danubio blu di Strauss. Chiudo gli occhi per un momento. Vienna è davvero la capitale della musica. Una fitta alla gamba mi costringe a fermarmi. Sento il telefono squillare. È Sara.

«Ciao Melania! Emozionata?»

«Al momento mi sento più stanca»

«Noi saremo lì per le dieci e mezza»

«Ok. A dopo»

Ecco le nostre conversazioni. Brevi, concise. Metafora dei nostri incontri. Fulminei, di circostanza. Schizzi diradati, scarabocchiati a tratti su tele distanti. Lei ha appena raggiunto i quaranta. Io ci sono quasi. Ma quel divario nato dopo l’incidente non lo abbiamo mai superato.

Avevo tredici anni. Era una mattina come tante altre. Stavo andando a scuola. Lievi goccioline di pioggia, via via sempre più insistenti, mi punzecchiavano il viso. Poi lo scroscio improvviso. La repentina corsa. L’assordante suono del clacson, il fragoroso rumore dei freni, lo stridio della gomma che scivola sull’asfalto bagnato. L’orrore di fronte l’inevitabile. Urla, dolore. Poi il nulla.

Posso reputarmi fortunata. Ma la gamba non è più tornata quella di prima. Sono rimasta zoppa. Una storpia, come ho sentito più volte mormorare alle mie spalle. Forse mi sono chiusa ancora di più in me stessa. O forse no. Non so. So solo che la musica è stata la mia salvezza.

Qualcosa di freddo e bagnato mi cade sulla testa. Alzo lo sguardo. Nevica! Vienna imbiancata deve essere uno spettacolo meraviglioso. Ma devo andare. Senza di me, non si può iniziare. Giro l’angolo e l’imponente edificio mi colpisce in tutta la sua statuaria bellezza. Con un respiro profondo, varco l’ingresso del Musikverein. Sono nel tempio della musica classica. Raggiungo la Sala D’Oro, dove un intenso profumo di fiori mi inebria. La stanno addobbando. Vedo i musicisti disposti sul palco. È ora di iniziare le ultime prove.

«Melania!». Mi volto di scatto. È Sara. Sono già le dieci e mezza?

«In bocca al lupo. Sono così felice per te».

Un lampo di rabbia mi acceca. Non resisto: «Smettila. Non ti importa niente»

Si fa scura in volto: «Sei sempre stata invidiosa»

E proprio qui, poco prima del concerto, il rancore accumulato negli anni prende vita. Ci urliamo addosso parole irripetibili. Scorrono minuti che sembrano eterni. Poi mi dice che non vuole più vedermi.  La guardo uscire. Il brontolio dei suoi passi mi rimbalza nelle tempie. Non penso quello che ho detto. E lo so, neanche lei. Avverto un nodo arrampicarsi nella gola. Si fa strada fin dentro gli occhi. Sento le lacrime rigarmi il volto. Ora vorrei solo fuggire. Lontano. Ma eccolo di nuovo: il rumore dei suoi tacchi riecheggia ancora nella stanza. È davanti a me. Mi guarda negli occhi. Mi molla un sonoro ceffone. Resto impassibile. Fin quando un improvviso calore mi avvolge. È lei che mi circonda. E io mi sciolgo tra le sue braccia. Restiamo a lungo così, annodate in un abbraccio al profumo di conforto e liberazione.

Adesso sì. Posso davvero andare in scena.

Sono in piedi, spalle al pubblico. Gli occhi rivolti all’Orchestra. Un rigolo di sudore mi bagna la fronte. Alzo le bacchette. Le muovo lentamente. Faccio partire la musica. Violini, oboe, clarinetti, trombe. A ogni mio gesto, il suono prende sempre più forma. Oscillo le mani in un’altalena armonica che interpreta e colora le note. Tutto svanisce: il teatro, l’orchestra, il pubblico. Anche la gamba nemica. Sono aria. Sono vento. Sono unione perfetta tra il mio corpo e la musica. La mia musica. È lei che guida i miei movimenti. È lei che mi ha guidato fin qui oggi.

Passo da Strauss a Bruckner, da Komzák a Ziehrer. Il tempo scorre in maniera indefinita. Poi finalmente il gran finale: la Marcia di Radetzky. I capelli si bagnano, la testa oscilla, le bacchette si agitano frenetiche. Sento il pubblico scaldarsi. Siamo un tutt’uno. Ogni barriera tra noi cade. Un ultimo sussulto e fermo tutto. Un silenzio assordante ci avvolge. Riapro gli occhi. Mi volto.

Esplode l’ultimo applauso. La gente è in piedi. Le mura di questo teatro stanno per crollare. Lampi di pura felicità mi investono. È Gennaio, ma i raggi di un sole d’Agosto mi irradiano. Ho davvero diretto l’Orchestra Filarmonica di Vienna. Al concerto di Capodanno. In un mondo di Direttori uomini. Io, la prima donna a riuscirci. Ripenso alla bambina timida e insicura di un tempo. Sorrido. Posso lasciarla andare. Incrocio gli occhi di mia sorella, mia madre e mio padre. Applaudono commossi.

E scusate, ma io questo applauso me lo prendo tutto.

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