Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “L’albero di mele” di Maria Luisa Valeri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

 

Il vecchio muro di pietrame grezzo non era mai stato intonacato, e nella parete nord, in alto, il tempo aveva creato una piccola apertura, uno spiraglio, irregolare e ben visibile. Non era come nella parete a est, dove si affacciavano le camere da letto, perché qui, la fessura in alto, sotto il tetto, a forma di triangolo, era stata a bella posta voluta. “Per Maria o per Gesù” gli disse la madre, mia nonna. Ma restò così, nudo, un triangolo divino che proteggeva il sonno. Nessun uccello ci fece mai il nido.

Nello spiraglio a nord, invece, ogni anno arrivava, puntuale, il codirosso, “coa rossa”, come si chiamava in paese. Primi di giugno, chiudevano le scuole, l’estate finalmente! Lunga libera oziosa invincibile fremente come le gambe in crescita di noi ragazzini; a bordo della Fiat 600 ci trasferivamo nella vecchia casa in montagna ed ecco, miracolo, appena messi i piedi sul vialetto, lui smetteva di dirci serio serio questo si fa, quello non si fa, con la convinzione che d’estate cominciava una nuova vita familiare e puntava il dito in alto invitandoci a guardare in su e sorrideva, e lei chinava un poco il capo, quasi fosse imbarazzata di guardare apertamente la cova di una madre. Era tornata “coa rossa”, la femmina. Il nido costruito. La natura che si ripete. Il paese, il loro paese ci accoglieva, apprestando all’istante le luci, i canti, gli odori, i suoni così distanti dalla città, che ancor oggi, aiutata dai ricordi, ostinatamente ricerco.

Guardavo, gli occhi a fessura, la bocca imbronciata di chi si è appena affacciata all’adolescenza, minuti persi al tempo con le amiche che già mi aspettavano smaniose di storie, mentre mio fratello, più piccolo, teneva malamente a freno le gambe magre e vogliose di corse e frementi, come la piccola coda rossa del maschio che svolazzava impaurito nell’andirivieni tra il prugnolo, qualche metro più in là, e il nido. “Solo un momento. Guardate”, diceva, lui, mio padre, spostando lo sguardo deciso su di noi, nel tentativo di pietrificare l’attimo. “Adesso entrate” diceva lei, mia madre, sgretolandolo quell’attimo, mentre lanciava uno sguardo rassicurante, con il potere di rimettere tutto in moto, le gambette di mio fratello, il volo del maschio e il controcanto dei miei sbuffi.

Lui ogni volta scuoteva la testa, serrava la bocca e si rifaceva serio, preoccupato per noi. Avevamo colto l’attimo? Lo guardavo mentre mi allontanavo, le mani nei blue jeans, i capelli sciolti (li avrebbe voluti più corti e raccolti; ah, che lotta quei capelli!), con pensieri che sostenevano una cruda battaglia, quasi di tenerezza, fugace però, se si soffermavano sulle striature rossastre di un volto operaio cotto dall’altiforno, che restavano lì a ricordo, pur avendo cambiato lavoro, e di avversione per dover, anche solo per un momento, fermarmi a considerare uno stupido nido. Poteva restare in paese, in mezzo alla natura, invece di emigrare in città!

 “Rincasa presto. Non tardare, eh”. Ecco, mia madre. Lei. Sapevo che mi seguiva con lo sguardo benevolo e avrebbe alzato le sopracciglia e allargato le braccia per mitigare le parole contrariate di lui.

Ci seguiva sempre con lo sguardo; il suo sguardo camminava da noi alla casa, agli alberi e poi di nuovo giù e poi su come se io, noi, le cose fossimo tutte una sua proiezione, un’appendice necessaria per la vita. Credevo da bambina che lo sguardo di mia madre avesse una qualche influenza su ciò che circondava la vita. Per esempio le nuvole o il vento forte che ancor oggi mi terrorizza. “Passa, guarda, guarda se n’è già andato”. Tutto poteva essere guardato sin nel profondo, sin dentro il pozzo, non c’era bisogno di parole e infatti lei ne versava piccole quantità. Guardava le mie battaglie e non ha mai raccontato le sue, guardava il suo uomo come “coa rossa” guardava il suo, i voli frenetici e, a volte, disordinati, per raggiungere il nido.

Il paese ci accoglieva, anno dopo anno, come un grande nido scampato all’inverno e alle intemperie, sempre più solitario e appartato e ci illudeva che sarebbe rimasto immutabile, come la natura, mostrata senza segreti. E tutto pareva sempre uguale, i ritmi, i suoni, la natura, le amiche dell’estate, le salite erte, le serate luminose. Anche per lui tutto doveva ripetersi come per il “coa rossa”. Un modo per fermare il tempo.

Ogni mattina di ogni estate, sin dal primo giorno, riempiva di acqua le due vaschette, una grande e una piccola e le posizionava al limitare dell’aia: il merlo e i passeri non sbagliavano mai vaschetta. Lui sorrideva contento e distribuiva molliche e semi e quando si avvicinava gli uccelli non volavano via. Poi severo ci rimbrottava. Perché eravamo distratti, perché non capivo, anzi perché mi ribellavo. Ma come…sotto quegli alberi.

Già, gli alberi, i suoi alberi, grandi, curati, ombrosi; il melo, piantato da suo padre, che mostrava come un pittore di corte può esporre un raffinato ritratto del principe, intorno al quale si era costruita l’aia e potato a mo’ di ombrello tale da abbracciare, come un prodigio, tutto il tavolo facendo l’ombra più odorosa e brillante che puoi immaginare; le mele, verdi come i ramarri, aspre e succose, buone per i maiali, come sentenziavano i contadini, ormai fattisi meno poveri che snobbavano ciò che fino a quel momento era stato sulla loro tavola. E quando ne staccavo qualcuna lui era contento, come avessi dato soddisfazione al suo albero, anche se mangiavo a morsi a bocca sfrontatamente aperta; i noci maestosi, che stavano lì dal tempo delle guerre del novecento, le querce che i suoi bisnonni avevano visto crescere, e più in là, appena il declivio si fa più pronunciato e il terreno più profondo e irriguo ecco i castagni secolari, contorti e nodosi, alcuni cavi come antri per le streghe.

L’orto mia madre non l’ebbe mai: non era fatto per le piantine quel terreno, ma per i giganti che donano ombra e riparo, per la corteccia dove scorre la vita, per le radici che trattengono la terra. E lei, rispettosa dei giganti, si limitava a seminare nei vasi le erbette profumate e i pomodori odorosi e l’aia si riempiva di fragranze.

         Quando capitò che le parole furono come spari fino a che ognuno rifugiò la propria storia in una cavità così profonda da non essere più visibile? Quando capitò che “coa rossa” non venne più e che lui non trovò nessuno di noi per condividere lo stupore? I figli, io, eravamo volati via, nella baraonda della vita, mentre il tempo procurava di aprire crepe, e dentro, invece di “coa rossa”, trovarono rifugio la vecchiaia, la solitudine, i rimpianti, le parole non dette, i racconti non fatti. Ed ecco che lei, alle soglie dell’anzianità, volle interrompere il tempo che colava inesorabile e guardò e lo sguardo profondo, brillante (avresti detto giovane) vagava tra le nuvole bianche erranti alla ricerca di una profezia e si prolungava sulla casa dove erano impressi gli affanni, i sacrifici, i sudori di generazioni umane che pietra su pietra, instancabili, noncuranti degli elementi, avevano costruito. E lo sguardo diceva di chiudere tutte le crepe, rinnovare, ammodernare perché le estati tornassero libere e lunghe. Così la casa fu intonacata e il pertugio a nord chiuso. Sì, sarebbero tornati i figli, belli e frementi come da ragazzi, sì, sarebbe tornato il paese, gravido di suoni e luci e coa rossa sarebbe tornata per occupare il triangolo a est.

Ma lo sguardo di lei, la madre, nell’attesa si faceva sempre più profondo sino a perdersi nelle tortuosità della mente e le nuvole bianche finivano oltre la montagna.

Ritornare. Il paese. I sentieri. Le montagne. Gli alberi, quelli che ti hanno visto diventare giovane, e poi allontanarti, l’erba e il vento, l’aria luminosa di ogni estate così gravida del desiderio del ritorno. Il nostos.  Là dove lo sguardo ha un senso, dove s’infila tra le foglie, si riempie dell’aria, della luce e poi s’abbassa sulla terra scura, concimata dai tuoi passi, dalla neve, dal fango, dalle acque turbinose.

Incrociare il tuo sguardo e non sostenerlo mai. Uno sguardo che incita “Ricordati di fare ritorno”. Ma lei non si avvide, la sua mente persa.

         L’albero di mele fu tagliato, ma allora lui, il padre, era già morto e non vide lo scempio.

“Perché?” chiesi a mio fratello. “Era secco” rispose. Poi ho fatto ritorno.

 

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2 commenti »

  1. Racconto molto bello. Struggente e malinconico. La nostalgia e i rimpianti per il non còlto, il non vissuto, il non compreso al momento non possono essere compensati da un ritorno, tardivo come tutti i ritorni.
    Il tempo diventa protagonista tangibile, si può toccare, respirare, sembra di poterlo afferrare e illudersi di poterlo riportare indietro.
    Lo stile è pregevole e dimostra padronanza del mezzo espressivo: essenziale, evocativo, poetico.

  2. Il racconto di Maria Luisa si presenta come una riflessione nostalgica sul tema del ricordo, l’antagonista per eccellenza del fluire temporale.
    L’autrice sviluppa questo tema, fondante il concetto stesso di letteratura, non nella forma meccanica di qualcosa depositato nella mente, ma come riappropriazione interiore di un passato irrevocabile e ad un tempo elemento attivo di un’esperienza attuale.
    La ricostruzione del passato di bambina, infatti, non prescinde dalle istanze del presente, anche quelle inconsce e perciò il ricordo diviene strumento di ricreazione del proprio io nelle diverse fasi della vita.
    Un tema così delicato, molto frequentato da una produzione letteraria che attraverso l’intera cultura dell’Occidente, è espresso in uno stile personalissimo che si amalgama perfettamente con il contenuto, creando in tal modo un’aura altamente poetica, soffusa di malinconia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.

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