Premio Racconti nella Rete 2024 “La signora Amelia” di Paola Novelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024
“Ben arrivata, io sono Paola” le tendo la mano, lei mi guarda e senza stringermi la mano mi chiede quanti abitanti ci sono nel paese e se nella strada i pochi lampioni funzionano, poi sembra riaversi e mi tende a sua volta la mano “Amelia, io sono Amelia”. I suoi occhi, scurissimi, sono in continuo movimento, si guarda intorno come se cercasse qualcosa, nel salire le scale conta gli scalini e quando si accorge che la chiave della camera nella toppa non gira al primo colpo (sono serrature di una volta), ma è necessario trovare il punto giusto mi sembra veramente preoccupata. Prima di scendere le chiedo se ha bisogno di qualcosa, sorride e scuote la testa, un attimo prima che io chiuda la porta mi chiede con estrema ansia dove mi troverà se avrà bisogno.
Rimane sul terrazzo gran parte della giornata, quando finalmente si decide a scendere le consiglio di fare una passeggiata verso il Santuario, cerco di convincerla raccontandole della vista meravigliosa, degli animali che è possibile incontrare, della calma, del silenzio, del profumo di muschio e resina che impregna l’aria e invade le narici… Mi guarda senza vedermi e mi chiede: “Ci sono persone che vivono al santuario? E gli animali, che animali sono? Potrebbero essere aggressivi?” L’ansia nella sua voce è palpabile, ansima come se avesse fatto una corsa e invece è ferma qui davanti a me, i suoi occhi, come quando è arrivata, ruotano vorticosamente scandagliando con attenzione tutto ciò che la circonda. Si avvia di nuovo verso la camera, la seguo e le dico che ho mezz’oretta e se le fa piacere la accompagno io. Sembra contenta, sempre in ansia ma sorride e dopo aver calzato delle scarpe da ginnastica siamo pronte per partire. Camminiamo lentamente perché afferma di non essere abituata a fare passeggiate così in salita, e ha paura di sforzarsi troppo. Stiamo qualche minuto in silenzio anche se sembra l’occasione buona per fare due chiacchiere.
Finalmente parla, mi chiede come siamo finiti in un posto così, se ci vivo volentieri, se ho paura a stare in un luogo così isolato e lontano… dall’ospedale. Rispondo alle sue domande con calma e serenità, raccontandogli del lavoro di Tony dei viaggi per raggiungerlo, dell’occasione di trasferirsi nuovamente in Lunigiana ed infine della decisione di venire a gestire la Locanda qui a 900 metri, colgo l’occasione per mostrarle delle foto di albe e tramonti, del mare di nuvole che spesso ci avvolge e altre volte ci separa dalla valle. Improvvisamente mi racconta di aver perso i genitori e il marito nel giro di un anno. “Non riesco a farmene una ragione, vivo con un costante dolore al cuore, E’ come se avessi una ferita che non riesce a rimarginarsi, continua a sanguinare” segue un lunghissimo silenzio che non mi sento di riempire di parole, la prendo sottobraccio e torniamo verso l’hotel. Dopo cena saluta e sale in camera, passano una decina di minuti e Tony mi viene a chiamare in cucina (da metà agosto alla locanda sono stata “costretta”, da Tony, a cambiare ruolo, non più in sala ma in cucina: lavo i piatti, pulisco i banconi, sistemo, riassetto, taglio, grattugio, spremo, decoro, un lavoro umile ma necessario e che mi consente di staccare la testa dai pensieri che da sempre vi si affollano), è preoccupato Tony, mi dice sottovoce “La signora Amelia non sta bene”.
Amelia è bianca come la neve, respira a fatica, ansima e si tiene una mano sul petto, suda e sembra terrorizzata l’istinto è quello di chiamare subito un’ambulanza ma lei mi ferma “Aspetta ancora un po’ ho preso un ansiolitico, forse mi passa” In effetti dopo un po’ si calma, il respiro ritorna regolare, mi chiede di accompagnarla a fare due passi e mi racconta la sua storia. Non ha mai avuto attacchi di panico fino al 2020. Dopo la morte dei genitori e del marito si ritira a vivere in una casa isolata ereditata dai nonni sulle colline modenesi. Con l’auto percorre, ogni giorno, una trentina di chilometri per recarsi a lavorare in un ufficio in città. Le sembra che questa soluzione sia l’unica possibile in quel momento, la solitudine e la pace di quel luogo affievoliscono il dolore che l’accompagna. Le sembra di stare meglio in quella casa dove trascorreva le vacanze estive con la sua famiglia per scappare dalla calura della città. I ricordi si mescolano alla malinconia e al dolore che non l’abbandona. “Lo sapevo che la guarigione sarebbe stata un processo lungo e difficile, ma sapevo anche che sarei riuscita ad andare oltre, sono sempre stata forte, e invece….” sospira e le si riempiono gli occhi di lacrime, la mano di nuovo sul petto “…e invece a marzo 2020 è arrivato il covid, c’è stato il primo lookdown, non sono mai stata così sola. Il bosco che ho sempre amato, che ripara la casa a nord, cominciava a sembrarmi un luogo spaventoso. La mia casa, così piena di ricordi bellissimi, alcune sere la vedevo chiudersi su se stessa, pronta a schiacciarmi. Ho cominciato a dormire poco, a percepire ogni piccolo rumore come una minaccia.
Uscivo una volta ogni tanto per andare a comprare provviste con mascherina, cappello, guanti di lattice e occhiali, nei momenti più bui mettevo anche una tuta di carta da imbianchino che buttavo appena tornata a casa, mi denudavo completamente fuori dalla porta, stavo diventando pazza e peggioravo ogni giorno, anche quando nell’estate la situazione sembrò alleggerirsi io sono rimasta chiusa in casa, mi lavavo continuamente le mani con un disinfettante, ero certa che sarei morta a causa del covid e che essendo sola avrei sofferto pene terribili. I momenti peggiori erano quando calava il buio, mi sembrava di non respirare, mi assopivo qualche minuto e mi svegliavo con un senso di oppressione al petto, ogni volta mi dicevo che quella sarebbe stata la volta “buona”. Alla fine quella era la speranza che arrivasse finalmente la volta buona”. Non smette di piangere, camminiamo avanti e indietro sotto la luce dei quattro lampioni, ma questo è un posto che la terrorizza, 10 volte mi chiede se so quanto ci mette un’ambulanza ad arrivare. La domanda che mi gira in testa è perché abbia deciso di venire qui e lei sembra capirlo. “Ho toccato abissi inimmaginabili, ho perso il lavoro, tutte le amicizie e poi, grazie all’aiuto di una persona incontrata per caso ho capito che se non avevo il coraggio di morire dovevo avere almeno il coraggio di vivere e ho cominciato a uscire un po’, sono stati mesi difficilissimi, facevo una passeggiata di 10 minuti e poi stavo rinchiusa in macchina due ore tentando di respirare con regolarità e di riprendere il controllo.
Ora una volta al mese vado due giorni via, prenoto l’hotel in un luogo non troppo frequentato e cerco di arrivare al giorno dopo. Qui è davvero troppo isolato, non sono ancora pronta”. Le propongo di cercarle un posto dove dormire a Pontremoli, oppure di accompagnarla da mia suocera e farla dormire lì. Scartiamo subito queste possibilità: “Non posso farcela ad attraversare i boschi, al buio, per scendere sulla strada principale, nemmeno se mi accompagni”.
“Voi dormite in Locanda?” mi chiede improvvisamente. “Se dormite qui e mi dici in che camera se non sto bene vengo a chiamarti e mi fai compagnia, Se invece va tutto bene, domani mattina prestissimo parto”. Mi sembra una buona soluzione, forse l’unica tenuto conto che quando si ritira in camera è già passata da un po’ la mezzanotte.
Alle prime luci dell’alba la sento scendere le scale, la raggiungo nel parcheggio e la abbraccio, è da ieri che avrei voluto farlo ora mi sembra il momento giusto. “Se ti venisse voglia di tornare…”. Sorrido, lei mi stringe una mano: “Sarebbe bello, vorrebbe dire che sono guarita…speriamo”.