Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2023 “La frontiera ad un passo” di Marco Antonio Massaro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Quello che rimaneva dopo quel 14 Giugno a Derbent, procedeva spedito giù per l’altopiano, verso Sud. Pomoq poi Guzar e puntare dritto verso Sherobod. Raja telegrafava da Termez,  pronti cavalli freschi, un giaciglio per una sosta breve e poi ripartire.

Ancora tre miglia e sarebbero entrati in Afghanistan. Mazar-j-Sharif poi finalmente Kabul, da Yilmaz. La frontiera era ad un passo. A galoppo lanciato, gli zoccoli dei cavalli picchiavano sul terreno duro di pietra, dal petto sale la zampa poderosa, il ginocchio come uno stantuffo,  poi lo stinco, mai perfettamente dritto, che scarica giù per terra il colpo. 

Tuono e tamburo, per quel migliaio scarso che dovevano essere,  parevano scuotere ogni cosa. Il buio, l’ottone delle scimitarre, le loro ossa, persino le chiome basse del Lyab-I-Hauz. E saliva polvere ovunque che  mangiava il respiro, il silenzio e man a mano che si andava avanti, la nuvola cresceva, polvere faceva altra polvere. Che  inghiottiva altri uomini, che cambiava il colore dei vestiti, che serrava le labbra. Vorticava e soffiava sul profilo dell’unica carrozza rimasta, cigolante come un enorme pallone di vimini vuoto e scossa dai  sobbalzi così violenti, da far rovinare le valigie di pelle giù dal divanetto di velluto, nella pedana ricoperta di polvere e sudicia di resti di cibo sparsi.

“Eccellenza, farò pulire tutto appena arrivati!” ma a Bukhara non si fermarono, se non per riempire le damigiane d’acqua e le ceste di altro pane e fave fresche. Ahmed alzò lo sguardo e notò il lumicino, in cima senza il suo vetro. Disappunto, quasi costernazione,  ma la smorfia in volto svanì quasi subito e il gesto della mano, tradì tanta fretta. L’ultimo telegramma giunto da Mosca non lasciava adito ad altri indugi, tutt’altro che inaspettato. Il dado oramai era tratto e all’invito di Serjey per trovare un accordo, neanche rispose. Yassid, in quel poco che ha potuto scrivere, ha raccontato di un Kakurin ricevuto al Palazzo d’Inverno al pari di un eroe e la sua vittoria, per quanto fortunosa, nonostante le due forze impari, dimostrava che questi bolscevichi erano più compatti di quello che lui stesso credeva e andavano consolidandosi più velocemente di quello che ci si sarebbe aspettati.

Quella sconfitta aprì scenari totalmente diversi. I notabili, cialtroni pezzenti che erano poco più di servi della gleba, fino a qualche decennio fa, sognavano ancora lo Zar. Questi miserabili arrampicatori sociali, si sono salvati da un conflitto mondiale, mica per cadere sotto il giogo comunista. Yilmaz nel suo suggerimento fu risoluto.  I contadini hanno quintali di cotone che non sarà venduto e oltre ad aver avuto figli morti a grappoli, in una guerra dello Zar, ai loro occhi inutile, si ritrovano pure coi campi fermi. I notabili si immaginavano alla guida di una realtà nuova e a lui questo assetto, conveniva.

Non era affatto un’alternativa da buttare. Oggi 3 Agosto, è l’unica sul tavolo. Lenin ebbe la sua rivoluzione. Questi popoli avranno la loro ed era quello che serviva a lui, per accreditarsi. Mangia, mangia pure il frutto acerbo di una vittoria isolata, Nikolai. Mangia e gustalo. Ubriacati delle parole, bugiarde e copiose che tracimano dalle bocche di chi ti riconosce grandi meriti e grande gloria. Orel ha finalmente il suo generale. Kabul presto avrà me. La frontiera ad un passo. In mezzo a quel trambusto, la mano scriveva ma tremava. Annotò “Batumi”. Quella sera, saranno stati in cinquecento, bisognava contarsi se si voleva dare inizio a tutto. Il Mullah Tarat lo guardava fisso e intanto parlava alla sala: “la nostra fratellanza, benedetta da Allah, è il nostro credo. E tu che sei un nostro discepolo, ora sei il primo dei nostri fratelli. Diventa la nostra guida.

E fai rivivere ad Ankara un sogno che oggi, qui davanti a te, non è ancora morto!” la folla scattò in piedi. Qualche soldato, tanti contadini, tutti in delirio. Con una mano cominciarono a scuotere le sedie, con l’altra le loro spade. Urla di vendetta, voglia di rivalsa. Fra quei contadini, ce n’era uno seduto in prima fila, ad occhio e croce il più anziano dell’assemblea che piangeva e baciava il piccolo tomo che aveva in mano. Lo guardava e lo lisciava con quella mano che aveva ancora tutt’e cinque le dita. La ruga profonda che solcava la sua fronte e si allungava da tempia a tempia, induriva il suo sguardo, già di per sé reso cupo dalle folte sopracciglia che marcavano il contorno. Pronunciava parole che nella confusione non si capivano, spalancando la bocca e girando, con scatti violenti, la testa all’indietro, poi come rinsavisse, tornava al suo tomo, con fare mesto. Subito affianco i notabili che lo avevano cercato a Mosca, che lo invitarono a San Pietroburgo per una battuta di caccia che poi si dimostrò finta. 

Erano in piedi, guardavano la folla e si lanciavano occhiate d’intesa, pacati sorrisi e applausi coi guanti di pelle sotto le ascelle e filamenti bianchi di cotone, ancora attaccati alle maniche delle giacche. Quando scese dal palco venne assalito, le sue mani vennero inondate di baci e tanti si inginocchiarono facendosi toccare la testa, a mò di benedizione. Se Naciye avesse visto, ne avrebbe provato imbarazzo. Per qualche minuto fu impossibile andare avanti e il trasporto pareva fosse vicino a degenerare. Ahmed urlò e in quattro si predisposero a semicerchio a spinte e calci. La spada del Mullah, in piedi su una sedia, fece da cima, tutte le altre seguirono e la folla si ricompose come d’incanto. Dal delirio iniziale, seguì un corridoio di uomini e la delegazione poté lentamente procedere.

Il contadino rimase seduto, il bastone nella mano sinistra rimasta con soli tre dita e la destra che portava il libro alla bocca, per baci bagnati di lacrime, quel piccolo libro che pareva avesse un immagine stampata su la copertina. Un gomito, un anca, una selva di braccia e non riuscì a intravedere che immagine fosse. Si voltò, cercò ma arrivò lo strattone violento di Rashid e dovette proseguire oltre. Uscire da quella porta, fu come entrare in un atro mondo. Venivano esplosi colpi di pistola, i fuochi delle torce oramai erano quasi spenti. Quando entrò ad assemblea già riunita, il tramonto porpora cominciava a venarsi di un viola scuro, adesso il buio era così denso che parve farsi materia, qualcosa che si poteva respirare.

Mangiare. Che dava un sapore diverso alla saliva stessa. Indossò il pastrano blu dell’alta uniforme e portò alla bocca la sua pipa ancora spenta, Ahmed mise le sue 300 libbre su lo scalino che portava al posto di guida, la carrozza tutta si inclinò sul lato destro, l’animella luccicante del prospero acceso, si avvicinava alla bocca del fornello. La prima boccata di fumo gli andò negli occhi poi lo sguardo distratto, esausto, si fermò su di un mulinello di polvere e cotone. E si accorse che c’erano fiori bianchi un pò ovunque, che tracimavano da un carro agganciato ad un cavallo con un orecchio che pareva tagliato. Da Berlino mai un telegramma in due mesi. Si alzò il bavero e si lasciò cadere su lo schienale. All’incitazione fece seguito il colpo di frusta e cominciarono a muoversi.  Batumi fu un illusione, Derbent una disfatta. Agosto è appena agli inizi, voleva radersi, luglio trascorso solo a fuggire. Cosa direbbero gli attaché di Atene, di Parigi, di Varsavia, di Belgrado se lo vedessero in quello stato. Sciatto, sporco. Atene ne avrebbe motivo di scherno e forse l’unico che ne avrebbe rammarico, sarebbe mr. Morgenthau che quella volta, nella sua residenza, non potè fare altro che prendere atto di una situazione affrontata e chiusa dalla Turchia, sicuramente non in maniera ortodossa.

Non rintracciò furore nel suo sguardo, nessun rimprovero taciuto, nessuna ira repressa. Un diplomatico davanti ad un generale della sua esperienza, ha pochi posti dove nascondersi e quella mattina, davanti a quella tavola imbandita, a quella testa di cervo impagliata, in mezzo a tutti quei libri che solo un borghese può avere il tempo e la voglia di leggere, non c’erano nascondigli. “Monsieur se le cose stanno così, gli Stati Uniti non possono più fare nulla. Avete deciso di fare tutto voi e avrà avuto le sue buone ragioni.” Disse sereno. “Le ho avute eccome. Rifarei tutto cento volte per far capire che il mio Paese, vuole rispetto.

Appoggiateci per stabilizzare queste terre rimaste senza scheletro, sosteneteci. Ma vi prego Morgenthau, non moralizzate. La sua è una professione che anche un militare come me, ammira. Parliamoci con franchezza. Dopotutto, cosa diranno di voi i contadini messicani? Non le pare?” mantenne lo sguardo alto per vedere la reazione.  “Monsieur, noi puniamo chi ci aggredisce. Quello che avete fatto nel Ponto, invece è genocidio. Sono franco, Ismail. Sono franco. Lei non immagina quanto.” Quando sentì chiamarsi per nome, una spada gelata scese su la sua schiena e sembrò squarciarlo in due. Guardò altrove, abbozzò un sorriso ma stringeva la forchetta in un pugno serrato che avrebbe strangolato un toro. E lo yankee se ne accorse. Ma non aggiunse una parola. Due occhi verdi come una foresta, grandi come biglie, dietro una montatura tonda che li ingrandiva ancora di più, puntati addosso. La salivazione oramai era ferma e sentiva sudare i piedi dentro quegli stivali che sembravano essere di piombo e arrivargli fino al bacino. Doveva bere o altrimenti avrebbe avuto un collasso.

Aveva appena subito un affronto e non sarebbe rimasto un miuto di più. “Mister Morgenthau, grazie del tuo tempo, non credo abbiamo più nulla da dirci. La prego di far chiamare l’automobile.” “Certamente Eccellenza.” Le sopracciglia arcuate rimasero distese, non un segno anche minimo di corrucciamento. Sembrava passato un secolo e quegli occhi ancora se li sentiva puntati in volto. Un affronto simile e non poter reagire. Ma una volta a Kabul, il primo telegramma sarebbe stato per Washington. La frontiera è ad un passo. E intanto da Berlino, mai un telegramma in due mesi. Viso di Luna.

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