Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2023 “Margherite” di Chiara Zucchellini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Stava seduto a giornate sulla panchina: vecchio, quasi calvo, senza rughe. Le guance erano gonfiori in mezzo ai quali la bocca si muoveva appena; parlare gli costava fatica, ogni parola usciva biascicata, come se avesse un difetto in gola. Solo a guardarlo da lontano mi sembrava di sentire l’odore dei suoi vestiti: la canottiera che gli tirava sulla pancia, le braghe da cui uscivano due gambe grosse e rosicchiate – diabete, avevano decretato i sussurri di paese. Nonostante il caldo, portava un paio di calzettoni pesanti rimboccati malamente alla caviglia e teneva i piedi infilati dentro ciabatte di cuoio intrecciato. Anche di quelli mi sembrava di sentire l’odore. 
Pure se non avessi saputo niente di lui, avrei detto che aveva gli occhi duri. Si fermavano sul mondo senza alcuna sfumatura, ma non erano persi o svagati come accade a certi vecchi. Al contrario, erano vigili: lo sguardo che accompagna la mano quando si alza per colpire, nell’istante che separa l’intenzione dall’azione. I suoi occhi erano un innesco. Sotto di loro, attorno alla pappagorgia, gli penzolavano sul petto un intrico di crocifissi d’oro e una medaglietta con l’effigie della Madonna.
Vent’anni prima, aveva ucciso sua moglie con quaranta coltellate.
Non era mai andato in prigione per questo; lo avevano rinchiuso in un istituto perché debole di mente. In paese dicevano che avrebbero buttato via la chiave, o che si sarebbe fatto fuori con le sue mani, come in effetti aveva cercato di fare poco dopo l’accaduto. Era sopravvissuto, ma non sarebbe mai uscito da lì, questo era certo, dicevano.
E invece, l’uxoricida era uscito. Ed era tornato in paese. E ora stava seduto sulla panchina davanti casa sua, la casa dove aveva affondato per quaranta volte il coltello dentro il corpo vivo di sua moglie. La casa davanti alla nostra.

Quando avevano acquistato, i miei genitori non sapevano niente del fatto. Non c’erano stati particolari tali da elevarlo alle cronache nazionali. E poi, al tempo, uno che ammazzava la moglie non creava tutto lo scompiglio di adesso. I miei venivano da fuori, per cui seppero tutto a rogito fatto. Non ne furono entusiasti, ma il placido isolamento del paese, il profumo di lavanda in estate e di legna bruciata in inverno, il frinire dei boschi tutt’intorno ebbero la meglio su qualunque altra cosa. Ci pensarono le voci di paese a rassicurarli: non tornerà, butteranno via la chiave o si farà fuori con le sue mani. 
Dal canto mio, finché era rimasto internato, l’uxoricida era motivo di vanto con i miei compagni di classe, che non abitavano in paese. Io stesso mi rodevo dalla curiosità e raccoglievo avidamente ogni minimo commento sulla vicenda, che ogni tanto ancora filtrava nonostante gli anni trascorsi. Era successo di mattina presto; lui aveva dormito male per il caldo, lei aveva detto qualcosa di storto; lui l’aveva rincorsa per ogni stanza, poi era rimasto lì per ore, accanto al corpo, con le mani tutte impiastrate; il corpo di lei, carne massacrata, da farsi il segno della croce. 
Non visto, a volte mi scoprivo ad attraversare la strada, salire sulla panchina vuota e attaccare la faccia al vetro della casa disabitata, con le dita a coppa attorno agli occhi. Dentro c’era solo buio. Nelle giornate assolate si scorgeva il profilo polveroso di una madia, forse di un tavolo. ? qui che è successo, mi dicevo pur senza saperlo, e mi immaginavo la madia e il tavolo sporchi di sangue – nei racconti che facevo ai miei compagni erano proprio così: ancora sporchi di sangue. 
Quaranta coltellate.
Cosa avevano colpito, di preciso? E come era stato incontrare la carne, affondare la lama, farla incagliare tra le ossa? A pensarci mi venivano i brividi, ma per scacciarli mi bastava scendere dalla panchina, riattraversare la strada e tornare nell’ovatta di casa nostra.

Poi, l’uxoricida era tornato. 
La casa sbarrata, di nuovo aperta. Il buio della cucina, rischiarato da una lampadina penzoloni dal soffitto. Dei volontari lo avevano aiutato a scendere dalla macchina, a sistemarsi di nuovo tra le stanze dove vent’anni prima aveva rincorso sua moglie con il coltello in mano. Due volte a settimana veniva l’auto medica a fare chissà che e, quando fu in grado, l’uxoricida prese a passare le sue giornate seduto sulla panchina.
Credevo che tutto, in paese, si sarebbe risolto in una muta condanna verso l’uomo disfatto che ogni giorno usciva e si piazzava a scrutare la strada con i suoi occhi di pietra; invece no. Solo poche donne, passando, serravano la bocca e lo escludevano dalla propria vista. Molti altri, invece, sedevano con lui, uomini della sua generazione. Parlavano, scherzavano come se niente fosse accaduto, come se il corpo della moglie, vivo o morto, non fosse mai esistito. Altri ancora si erano schierati diversamente: mandavano nella sua direzione un saluto di cortesia, sbirciando di sottecchi le gambacce e i crocifissi che gli baluginavano in petto. Anche i miei genitori, che non l’avevano mai conosciuto prima, avevano deciso di fare così. Chinavano il capo, mormoravano qualcosa, passavano oltre: pochi gesti sufficienti a confermare la sua presenza malandata sulla soglia di casa.
Io non volevo uscire, se lui era sulla panchina. 
Sbirciavo dalla finestra e aspettavo che rientrasse. 
Io, da sempre così smanioso di sapere, non volevo incontrare il suo sguardo – non volevo schierarmi – ma un giorno successe. Mi inchiodò con quelle monete di terra che aveva al posto degli occhi. Mi fece paura, e mi fece pena, così mi comportai come i miei genitori: lo salutai, addirittura mi percepii sorridere, e lui in cambio diede un’alzata di capo, lasciando presto colare altrove l’attenzione. 
Mi sentii sporco, ma seppi subito che doveva andare così. In fondo, è sempre con chi rimane che bisogna fare i conti; chi è andato, ormai, è andato. A scuola, avrei raccontato che l’uxoricida mi salutava persino: sai che invidia i miei compagni!

A ogni modo durò poco, perché morì dopo neanche un anno. Quando lo seppellirono al cimitero del paese – ma più precisamente, quando finì l’imbarazzo del funerale e la casa fu di nuovo sprangata – andai nel prato ai bordi del bosco e raccolsi quaranta margherite. Come un sotterfugio, le nascosi sotto la maglia e poi andai al cimitero, da solo. 
Cercai la lapide, la trovai in fretta. 
Sulla lastra liscia e pulita, cementata di fresco, la fotografia lo ritraeva già vecchio e gonfio, mangiato dal diabete. Grandi lettere in corsivo dorato scandivano il nome e le date entro cui si era concentrata la sua vita: una lapide uguale a molte altre. 
Spostai l’attenzione su quella di fianco, meno liscia, meno pulita. 
L’ovale restituiva il viso di un donnino scialbo, con gli occhi strizzati dal sole, i capelli raccolti dietro la nuca. Sotto, le lettere in ferro battuto avevano qualcosa di precario; la seconda data, congelata a vent’anni prima. La pulii la manica, per renderla più lucida. Riempii d’acqua il vasetto vuoto, incrostato di polvere e ragnatele, e vi sistemai le quaranta margherite. Alcune, nel tragitto, si erano sgualcite, ma dietro le loro corolle la donna appariva meno spenta, meno morta. 
Il cielo era azzurro come una ceramica. Il fruscio degli alberi era come una danza. 
Non lo dissi mai a nessuno.

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