Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Indistruttibile” di Thomas Del Duca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

È pazzesco che sia cominciato tutto alle Hawaii. 

Una serata in spiaggia, qualche birra, tre amici e una scommessa. Tra le risate era nata la prova di resistenza più folle mai concepita. Tremila e ottocento metri di nuoto in acque libere, lontani dallo spazio rassicurante della piscina, centottanta chilometri in bici, frustati dal vento bollente, e una Maratona, quarantadue chilometri sull’asfalto rovente, con le gambe esauste e incrostate dal sale.

Tutte le discipline nello stesso giorno, una dopo l’altra, senza respiro.

Certe imprese, al momento di iniziarle, sembrano avere così poca possibilità di successo da scoraggiare anche i più motivati. 

La sera che misi un lucchetto al frigorifero, e uno al pacchetto di sigarette, per un attimo mi sembrò di restare senz’aria. Ogni giornata, da quel momento, era destinata a ridursi a un elenco di divieti. Affrontai il cammino a denti stretti e vidi il mio corpo sgonfiarsi e il l’obiettivo ormai a pochi metri.

La paura di perdere il tesoro era, però, cresciuta al punto da sovrastare la soddisfazione di averlo conquistato. Una mattina molto presto, senza pensarci troppo, mi infilai un disastrato paio di scarpe da ginnastica, una felpa scolorita e un paio di pantaloni del pigiama invernali. La corsa sembrò la soluzione più rapida ed economica per tenersi stretto il tesoro, al sicuro nelle tasche. Venti minuti lenti e affannosi sembrarono sufficienti come prima uscita. Ne seguirono altre, centinaia di altre. La corsa diventò la mia nuova ossessione. Pioggia, gelo e caldo infuocato si alternarono nel tentare di scoraggiarmi. Ma io tenni duro. La prima ora della mia giornata era impastata di fatica e sudore. Non avevo una meta ma correvo, il più forte che potessi.

La forma fisica, ormai perfetta, era ormai inscalfibile. Tutto, dalla dieta al riposo, era puntato a far aumentare i chilometri e far scendere il cronometro. 

Arrivò il momento di confrontarsi con altri corridori. Mi preparai a fondo in un’estate rovente e a Settembre, in una notte romana ancora caldissima, mi presentai sulla linea di partenza affilato come un rasoio. Fu un trionfo. Divorai avidamente i ventuno chilometri del percorso e strappai un piazzamento impensabile. 

Da quella notte cambiò tutto. Raddoppiai sforzi e sudore e divenni uno specialista della Maratona. Ottenni risultati notevoli e cominciai a essere conosciuto nella piccola comunità dei corridori romani. Lo specchio, ormai, mi restituiva l’immagine di un corpo che sembrava scolpito nel legno.

Una domenica mattina correvo senza sforzo, leggero nel corpo e nei pensieri. Era l’ultima sgambata prima dell’ennesima gara. Una scossa elettrica partì violenta dalla mia gamba destra. Il mio ginocchio aveva deciso di cambiare il destino. Finii piegato dal dolore, in lacrime sul ciglio della strada.

Il dolore mi sconfisse. Non provai a curarmi. Tornai a casa zoppicando e svuotai il frigorifero. Nei giorni successivi, in più di un’occasione, mi sorpresi a riempiere la bocca di cibo, fino quasi a non respirare. Ci volle più di mese per guarire. Quando tornai in strada la bilancia segnava otto chili di sovrappeso. Riuscii a correre solo venti minuti, la fatica era quasi insostenibile. Tutti i chilometri, tutte le medaglie e i complimenti erano spariti. L’atleta era sparito. Tornai al punto di partenza.

La corsa si dimostrò un’amante ferita impossibile da riconquistare. I risultati non tornavano, la fatica non diminuiva e la mia determinazione sembrava diventata cedevole come burro sciolto. Abbandonavo le sessioni di allenamento dopo pochi muniti. Faticavo a respirare e a dimagrire. 

Provai, allora, a mischiare le carte e iniziare una nuova mano. Come i tre ragazzi hawaiani, tanti anni prima, concepii un’idea folle e incredibilmente difficile da realizzare. La gara che in quella spiaggia, forse per scherzo, avevano immaginato e che da lì aveva lanciato la sfida a tutto il mondo sarebbe stata la mia gara. Sarei diventato un Ironman.

I mesi che seguirono furono una corsa a ostacoli contro il tempo. La Sveglia suonava all’alba e subito correvo in piscina. L’acqua mi accolse come peggio non poteva. Le spalle e le braccia, mai stimolate durante i mesi di corsa, erano tormentate da dolori continui mentre cercavo uno stile che mi permettesse di sopravvivere alla distanza della prova. L’estate precedente alla gara la mia spiaggia fu l’asfalto della via Aurelia. Un tratto, di poco più di trenta chilometri, che percorrevo avanti e indietro anche per sei ore consecutive. Il sole picchiava sulla mia schiena e contro l’arsura e la fatica nulla potevano le borracce di acqua al sapore di plastica, già calde e imbevibili dopo pochi minuti. Il momento peggiore, però, era iniziare la corsa dopo aver pedalato. Correvo nelle ore centrali della giornata, con le strade infuocate. Le gambe, dopo le ore di pedalata si rifiutavano di continuare a faticare. Correre quindici minuti era una tortura. In gara avrei dovuto farlo per quattro ore. 

Tra cadute, nausea, crisi di sconforto e un conto banca sempre più striminzito, per il costo dei materiali, arrivò una sera diversa dalle altre. La sera prima della gara.

Sono a Cervia, dove l’Ironman ha trovato la sua residenza italiana, La notte non riesco a dormire. Dentro di me la sensazione di un fallimento imminente. Consumo la colazione che fuori è ancora buio. Fatico a inghiottire. Sulla spiaggia, in attesa del via, sono rigido, in piedi, a fissare il mare. La sabbia è fredda sotto i piedi nudi. Si parte e appena entrato in acqua, per qualche istante, non sento nulla. Gli altri partecipanti e i tifosi sulla spiaggia sono uno sfondo fuori fuoco. Sento solo il rumore delle mie mani, che schiaffeggiano l’acqua, e l’unica cosa che vedo è il mare davanti a me, illuminato dalla luce radente dell’alba, rosso che sembra andare in fiamme. Il nuoto è lungo e durissimo. Tocco la spiaggia dopo più di un’ora. Mi sento già esausto. Comincia a a far caldo e ho davanti tante ore, ancora, da pedalare e correre. In bici parto bene, le gambe sembrano girare a puntino e contraggo l’addome per trasferire tutta la potenza possibile ai pedali. Bevo e trangugio barrette energetiche a intervalli regolari, ma il caldo ha trasformato le mie bibite energetiche in brodaglie dolciastre e il cioccolato delle barrette, sciogliendosi, le ha rese appiccicose e immangiabili. Affronto l’unica salita del percorso cercando di tenere un buon passo. Mi alzo sui pedali per dare maggior forza quando ecco tornare, di nuovo e con violenza, la scossa. Parte dal gluteo e attraversa dolorosamente tutta la coscia. Affondo la pedalata e sento dolore, riesco ad avanzare ma la potenza della mia gamba destra è inesorabilmente calata. Mancano ancora ottanta chilometri da pedalare e poi c’è una Maratona da correre, con il caldo che è già insopportabile. Passo tre ore concentrandomi solo sulla gamba, nel tentativo di preservarla in tutti in modi. Sento gli occhi riempirsi di lacrime e comincio a pregare. Col trascorrere dei minuti mi sembra che la situazione resti stabile, il dolore non aumenta e non diminuisce. Pedalo furiosamente e bevo di continuo, con lo stomaco che sembra scoppiare. I centottanta chilometri finiscono. Appena tocco terra, però, la mia gamba destra resta rigida. Avanzo barcollando. Provo a fermarmi per riprendere fiato ma una fitta dolorosa, al fianco, mi piega in due. Mi rendo conto di aver pedalato in maniera anomala e, adesso, la parte destra del mio corpo è terribilmente dolorante. Mi tiro su e comincio, claudicante e lentissimo, la corsa. Cerco di trovare un passo dignitoso. Sono le due pomeridiane e la strada ormai è in fiamme. Le gambe, passo dopo passo, si sciolgono ma dopo pochi chilometri lo stomaco si ribella. Tutta l’acqua, calda e dolciastra, che ho ingurgitato in bici si fa strada dallo stomaco verso la bocca. Mi infilo in un bagno chimico ai lati del percorso. È di lamiera e all’interno sembra una sauna rovente. L’odore è terribile. Vomito tutto. Esco sentendomi svuotato e a malapena riesco a camminare. Mi ribello al pensiero che la mia sfida possa finire così. 

Cerco di isolarmi. Non ascolto il tifo a bordo strada, non guardo l’orologio, non conto i chilometri. La mia gara diventa una marcia, testa bassa a guardare la strada che scorre lenta, un metro dopo l’altro. Completo un chilometro, poi altri due, arrivo a quaranta. Gli ultimi due chilometri sono all’inferno. Il dolore alle gambe è insostenibile. Mi sembra di avere spilli roventi conficcati nella carne. Con una lentezza esasperante e disperata arrivo a vedere il traguardo. Come tocco il tappeto degli ultimi cento metri, però, il dolore tace e il caldo si spegne. Chiudo gli occhi e riesco a fare, dopo ore, un respiro lungo. L’aria ora è fresca. Tutto quello che ho intorno è di nuovo sfuocato. Il pubblico, il tappeto rosso, lo speaker che chiama il mio nome sono solo uno sfondo colorato. Al centro ci sono io che taglio il traguardo. Indosso la medaglia. È dorata e stupenda, come una piaggia della Hawaii. 

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2 commenti »

  1. Si sente la fatica di chi ci è passato attraverso questo calvario. Se così non fosse, i miei complimenti saranno doppi. Hai descritto perfettamente ogni passaggio ed ogni sensazione al punto che ho fatto anche io un respiro lungo alla fine. Il racconto è equilibrato in ogni passaggio e nulla è lasciato al caso. La frase “la paura di perdere il tesoro era, però, cresciuta al punto da sovrastare la soddisfazione di averlo conquistato” tiene insieme le fila di tutto. Complimenti (forse doppi).

  2. Grazie del bellissimo commento Marco Ruggiero!

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