Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “La piazza” di Giacomo Ricchitelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

In paese tutte le strade portano in piazza.
La pavimentazione in sampietrini di fine Ottocento, in uno slancio modernista anni Settanta venne sostituita con una di mattonelle color “rosso cesso pubblico”. All’inizio del nuovo millennio si optò per un più sobrio “grigio sovietico”; l’Unione Sovietica era morta da tempo e la soluzione apparve un’operazione nostalgica di un manipolo di vecchi comunisti. Le amministrazioni che seguirono decisero di lasciare la piazza com’era, lasciarono che la cittadina restasse com’era. Il politicante più lucido durante un consiglio comunale disse.


Prima o poi arriverà un terremoto devastante e si dovrà ricostruire tutto da capo. Tanto vale attendere.


Annuirono tutti e spesero il budget per assumere vigili urbani; i cognomi degli assunti erano gli stessi di quelli del consiglio comunale; i cittadini che provarono a far notare la combinazione presero tante di quelle multe che ritirarono le accuse e si flagellarono in piazza.
I vigili protestarono per il super lavoro cui erano stati costretti per multare i ribelli e chiesero l’assunzione di ausiliari del traffico. Presto in giro si trovarono solo vigili e ausiliari. Aprirono nuovi bar, l’economia conobbe un’età dell’oro che finì quando i vigili, stanchi di passare da un bar all’altro, chiesero e ottennero di lavorare in ufficio. Razziarono tutti i mazzi di carte da gioco reperibili in paese e sparirono. Finché la sede del comune rimase nel palazzo ottocentesco che affaccia sulla piazza il giro d’affari dei bar non subì contrazioni. Il dramma si consumò quando il consigliere comunale che aveva bocciato i lavori sulla piazza suggerì di spostare la sede del comune in un moderno edificio antisismico lontano dal centro. Disse:


Qualora il terremoto dovesse arrivare nel bel mezzo di un consiglio comunale vorrei evitare di lasciarci le penne.


Ancora una volta, annuirono tutti.
Dopo la diaspora dei baristi i negozianti rimangono gli unici alfieri della piazza: tirano avanti fino alla pensione; temendo di morire per lo sforzo profuso alzando la serranda si sono dotati quasi tutti di sistemi di apertura automatica; la titolare di un noto negozio di abbigliamento ha detto una volta:
Non voglio morire piegata a novanta gradi con il culo avvizzito per aria, nossignore.
Passano il tempo a chiacchierare davanti a un negozio ogni giorno diverso: questione di par condicio. Talvolta uno di loro si presenta con qualche geniale idea per rinverdire i fasti di un tempo: si pone al centro del gruppo e illustra il suo piano gesticolando come un direttore d’orchestra in crisi di astinenza. Gli altri lo ascoltano, se il progetto è coinvolgente smettono di tenere le braccia incrociate sul petto e si avvicinano. Terminata l’esposizione si fissano per qualche secondo in silenzio, sguardi degni di un mezzogiorno di fuoco; quando tutto sembra pronto per la grande riscossa gli sguardi si spengono a terra, le braccia tornano a incrociarsi sul petto e iniziano i commenti:


Ci vorrebbero parecchi soldi da investire.


Non contate su di me, io non ho una lira.


Da qualche parte dovremo pur provare a ricominciare però.


Ricominciare perché? Mio figlio ha detto che finita l’università farà l’ingegnere o tornerà alla terra; l’ho portato a vedere quanto lavoro c’è da fare in agricoltura, mi ha risposto che con una laurea in tasca non si metterà certo a sporcarsi le mani: coordinerà, organizzerà, insomma farà tutte quelle cose che non richiedono fatica. Mia figlia vuol fare l’astronauta a patto che possa portare nello spazio anche un paio di scarpe con i tacchi alti.


Ve lo avevo detto quindici anni fa che bisognava sfruttare il commercio via internet, avremmo inventato l’equivalente di Amazon.


Finita la discussione ognuno torna al proprio negozio a fare acquisti on-line.
Anni or sono la piazza era il punto di aggregazione degli adolescenti. Oggi gli adolescenti non esistono più, o si ritrovano altrove, o non escono. Con discrezione stanno prendendo il loro posto gli extracomunitari ospitati nella cittadina. Non spendono fortune nei bar e parlano solo tra loro: le ultime volte che hanno rivolto la parola agli indigeni hanno preso insulti e rischiato botte. Agli adolescenti hanno rubato anche l’ambito ruolo di capro espiatorio.


L’altro giorno uno mi ha fissato e quattro ore dopo sono inciampato.


Io ho visto uno di quelli un po’ più scoloriti, sapete mezzi neri e mezzi gialli, girare intorno alla mia macchina un paio di settimane fa. Ieri ho trovato una gomma a terra.


Niente a che vedere con quel che è successo a me: la mattina in cui è morto mio padre uno di loro mi aveva detto buongiorno.


Fottuti negri.
È il coro che chiude la conversazione.
Se la piazza non è ancora del tutto morta è merito dei bambini che la animano con i giochi, le urla e le risate, ultimi baluardi della speranza umana, speranza che uccideranno non appena raggiunta l’età dell’adolescenza. Sfrecciano a bordo delle loro biciclette colorate o sulle gambette traballanti, si scontrano, cadono, si sbucciano le ginocchia.
Mi sono fatto male alla gamba e mi fa male anche la pancia.


Amore mio, è solo un graffio. E la pancia che c’entra?


Voglio un cerotto e un gelato.


Non abbiamo cerotti e se ti fa male la pancia non puoi mangiare il gelato.


Mi fa male la pancia perché il dolore mi ha fatto venire fame di gelato.


Il genitore in preda a una crisi isterica compra i cerotti, rattoppa il bambino e gli compra il gelato. Dopo un paio di leccate il pargolo si guarda intorno e preso dalla frenesia di giocare lo restituisce sorridendo.


Devo andare a giocare, la pancia non mi fa più male ma se mangio altro gelato forse mi farà male.


Il genitore resta immobile a mangiare il gelato.
Mamma, papà, guardate come sono bravo, urlano quelli che cercano di andare sul monopattino ma non fanno altro che trascinarlo. I genitori battono le mani, urlano incoraggiamenti e riprendono a parlar male dei figli degli altri e delle coppie che non procreano.
I più intrepidi tentano di arrampicarsi sui muri convinti di essere Spider-man, lanciano scudi immaginari come Capitan America, sparano ghiaccio come Elsa di Frozen, finché gli ego di tutti questi supereroi scatenano una battaglia campale in confronto alla quale le invasioni barbariche furono il seme delle buone maniere.
I genitori più ansiosi inseguono i bambini per evitare che si facciano male, sottovalutano la possibilità di morire di infarto per lo sforzo e non appena un bambino si avvicina al proprio cercano di evitare il contatto con quello che ai loro occhi è un emissario della morte.
I più grandi giocano a calcio imitando le gesta dei loro idoli: esultano come loro, sputano a terra e bestemmiano come gli eroi della domenica sognando di ripetere le loro imprese sportive di fronte a un pubblico adulante. I pigri fumano sigarette e guardano porno sullo smartphone.
A portare la quiete ci pensa un uomo che spunta dal nulla: vende palloncini a forma dei personaggi dei cartoni animati. Viene assaltato come le diligenze nel vecchio West, nel giro di due minuti esaurisce le scorte e sparisce nel nulla. I genitori più religiosi lo hanno segnalato al parroco, i più concreti provano a inseguirlo per scoprire da dove venga. Mistero irrisolto.
I palloncini volano via in un attimo, oscurano il cielo sopra la piazza. I pargoli non ci fanno caso, impegnati a correre, urlare, ridere, litigare. I genitori piangono per gli ennesimi cinque euro buttati, alcuni ribadiscono che avrebbero comprato una villa se avessero investito la metà della somma che hanno destinato ai palloncini. Qualcuno di loro sostiene che l’uomo misterioso riesca a recuperare tutti i palloncini volati via per venderli la volta successiva: la piazza è foriera di leggende e malelingue.
Se i bambini sono attori importanti, la piazza appartiene di diritto a due personaggi sulla cinquantina: il matto del villaggio e il tossico.
Il matto del villaggio da giovane era loquace, intratteneva i passanti senza chiedere altro che un minuto del loro tempo; quelli gli concedevano un minuto e ne passavano dieci a prenderlo in giro alle spalle. Oggi, sebbene il suo animo gentile gli imponga di continuare a sorridere, non parla più con nessuno.
Il tossico ha cominciato a drogarsi prima che inventassero la droga, dice. L’eroina l’ha inventata lui, afferma. Poi si corregge e spiega che è stato il primo a portarla dalla città e l’ultimo a essere sopravvissuto alle siringhe: i suoi amici sono tutti morti. Lui non si droga più, chiede soldi ai passanti perché è disoccupato. Ma se qualcuno gli offre da mangiare risponde di aver provveduto e di preferire gli spicci. Nessuno lo ha mai visto allontanarsi dalla piazza, se non per rifugiarsi nel vicolo antistante. Torna da lì sempre un po’ stravolto.
A notte fonda i due si incontrano al centro della piazza e fumano una sigaretta. Tra una boccata e l’altra il matto ride e il tossico gli chiede soldi. Sei proprio tutto scemo, dice il tossico portandosi un dito alla tempia; il matto scrolla le spalle, il tossico infila in tasca la moneta ricevuta e si allontanano.

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1 commento »

  1. Descrizioni molto vive. Uno spaccato di vita con l’intero paese come protagonista. Un paese morente, come tanti. Non so se l’ho percepito solo io ma mi è sembrato che dietro ogni azione ci fosse l’ombra della morte e di una fine imminente.

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