Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Il pranzo della domenica” di Federico Pacciani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

La domenica mattina mi svegliavo ancora presto a quei tempi. Era un po’ come la mattina di Natale, quando non vedevo l’ora di alzarmi per scartare i regali. Da bambino ogni domenica era Natale per me. La casa era silenziosa e io andavo in cucina a prendere una scatola di biscotti per poi occupare il divano. Accendevo la televisione e mi gustavo Domenica Disney in santa pace. Più tardi andavamo a Messa con le mie cugine più grandi e infine il momento clou della giornata, l’atteso e immancabile pranzo domenicale a casa dei nonni di città. Da non confondere con il pranzo a casa dei nonni di campagna della domenica dopo, scandito da altri riti e altre consuetudini. Dopotutto, tutti i pranzi felici si somigliano ma ogni pranzo è infelice a modo suo.

Usciti dalla chiesa si attraversava la piazza assolata – inverno o estate che fosse nei miei ricordi è sempre così – per poi prendere il vicolo sempre in ombra e arrivare alla via delle botteghe che portava alla casa dei nonni. La strada iniziava proprio lì a scendere ma il portone sembrava non accorgersi della discesa e rimaneva come sospeso. È quello che succede in tutte le case in discesa ma per me era un fenomeno misterioso. La grande porta di legno, con tutte le vene in rilievo, era un passaggio in un altro mondo, ma sempre a portata di mano. Mi divertivo a contare i gradini di tutte quelle rampe di scale con la ringhiera in ferro battuto, fino a raggiungere l’ultimo piano di quel palazzo antico e sentire il profumo della cucina della nonna ancor prima di entrare in casa.

Spesso e volentieri Nonna ci accoglieva con le mani infarinate e il grembiule variopinto di macchie d’uovo e di sugo, ogni abbraccio un pericolo ma noi ragazzi non ci facevamo caso. Poi tutti quanti si sparpagliavano in giro per la casa, che non era certo una reggia, comunque sparivano tutti, tranne me che rimanevo in cucina con lei e la osservavo mentre finiva di preparare il pranzo. A forza di guardarla cucinare a dieci anni possedevo una cultura culinaria invidiabile, anche perché questa consuetudine non era riservata solo alla domenica. Certo quella era sempre una giornata campale, da artiglieria pesante, ma io sono sempre stato per le cose semplici, pasta al pomodoro, fettina all’olio, patate stufate, al limite mi potevo permettere una pallina di gelato – rigorosamente alla vaniglia – niente di più. Devo però ammettere che la giornata del fritto scuoteva le mie certezze, le crocchette di patate e le polpette di carne mi toccano ancora nel profondo al solo pensiero. Sarà stata la temperatura dell’olio, saranno state le materie prime, la maestria appresa negli anni, quei dettagli apparentemente insignificanti come il parmigiano grattugiato nel macinato o il pizzico di bicarbonato nei piselli – altra sua specialità, nessuno li sa fare come li faceva lei – ma il suo segreto non è mai stato scoperto. Ai miei occhi era una strega buona alle prese con il suo calderone magico intenta a produrre deliziose pozioni.

La domenica però Nonna dava il meglio di sé. Il piano d’attacco era ben rodato, aperto sì a proposte e apporti esterni ma l’ultima parola spettava a lei. Il menù poteva variare a seconda della stagione, sempre benvenuto era il nobile fungo porcino o il valoroso carciofo, così come il fagiano cacciato da Nonno o l’olio nuovo di Borgo Reale. Ma c’erano dei must intoccabili, al primo posto, almeno cronologico, i toscanissimi crostini neri, metà fegato metà milza con un goccio di vin santo, come da libro degli incantesimi. Subito dopo veniva la pasta al forno, alias lasagna, ragù e besciamella fatti in casa, la sfoglia no – un po’ di pietà! Il secondo lasciava più margine all’invenzione, infatti si poteva passare dalle cotolette fritte alla cacciagione, dal polpettone al rollè di tacchino, ma il mio cuore batteva per il pollo arrosto con patate della rosticceria. Non è solo il fatto che generalmente piaccia tanto ai bambini, quello che più mi entusiasmava era l’asta per il pezzo desiderato che subito partiva e coinvolgeva tutto il tavolo. Sembrava di giocare al Mercante in fiera, chi voleva il petto e chi il coscio, chi era un amante della pelle e chi non sopportava gli ossicini, per non parlare dei duelli infiniti per accaparrarsi le alette. Ma la vera sfida all’OK Corral nasceva per il sovracoscio e soprattutto per il boccone del prete, che apprendo solo adesso chiamarsi sottocoda, tradizionalmente la parte più prelibata. Però c’era un trucco, per lungo tempo infatti quest’ultimo veniva concesso per convenzione al più piccolo, e si dà il caso che per lungo tempo il più piccolo sia stato io. Forse è per questo che amavo tanto il pollo arrosto della domenica.

Eccoci arrivati al dessert. Il dolce era il culmine della scalata, l’ultima fatica prima del caffè, il premio a cui non si può dire di no anche se stai per scoppiare. Le alternative in genere erano due: le celebri paste del Nannini contro l’impareggiabile budino di semolino di Nonna, la cui ricetta segreta viene tramandata di generazione in generazione. Per la pasticceria le mie preferenze ricadevano sul dito alla crema, noto anche come cannolo di pastasfoglia, e in secondo luogo sul diplomatico, ma non disdegnavo neppure la meringa con la panna. Ma come tutti i bambini anche io mangiavo più con gli occhi che con la bocca e non riuscivo quasi mai a gustare per intero uno di quei bestioni glicemici. Discorso diverso per il budino di Nonna, che letteralmente faceva solo lei, ancora oggi non ho conosciuto nessuno che sia solito cucinarlo – all’interno dell’esiguo sottoinsieme di coloro che sanno della sua esistenza. Il legame affettivo è indubbio ma c’è da dire che il risultato di una ricetta così semplice era e rimane stupefacente. Dopotutto, chi va matto per il semolino? D’accordo, con il parmigiano o magari con il tuorlo d’uovo, la minestrina di semola non è poi così male, solo che in casa nostra ce la propinavano sempre da malati.

Non sono autorizzato a divulgare la formula segreta del dolce di Nonna, la ricetta è conservata in cassaforte a Fort Knox, tipo quella della Coca Cola. Però un’idea sull’ingrediente nascosto me la sono fatta e posso condividerla con voi. La verità è che Nonna era una persona allegra e empatica, che mi ha insegnato a non abbattermi mai e a superare le avversità con il sorriso. C’è un aneddoto divertente che aiuta un po’ a capire che tipo era. Quando si metteva in testa di raccontare una barzelletta, magari nel relax del dopopranzo, non c’era verso che arrivasse alla conclusione perché le veniva da ridere. Certe volte succedeva proprio all’inizio e non c’era niente da fare, anche se si sapeva già tutti dove andava a parare o forse proprio per quel motivo, ad ogni modo la sua risata incontenibile finiva per contagiarci tutti senza appello. Quindi sì, credo che la sua allegria e il suo amore per la vita rendessero ancora più buono il famoso budino di semolino di Nonna. Per il resto, acqua in bocca.

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3 commenti »

  1. Bello, mi ha trasmesso la pienezza delle domeniche in famiglia, quelle domeniche altalenanti dove, delle volte, si parte con riserva ma si conclude, solitamente, con un ampio sorriso.
    Team diplomatico! Ahah

  2. Grazie Nicola!

  3. Un bel tuffo nei ricordi. Sembra quasi che alcune sensazioni, alcune esperienze (e anche alcune ricette) siano comuni a molti. Quasi fossimo nipoti degli stessi nonni. Più che un racconto direi un quadro ben dipinto e molto bello da vedere.

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