Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2010 “True-life adventures” di Paolo Donati

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Domenica diciannove maggio. Sono le undici.

Mi trovo all’interno del Teatro e sto attendendo l’apertura della biglietteria per acquistare i biglietti per un matinée  di musica jazz.

Fuori il cielo è coperto di nuvole grigie, ma c’è caldo. Si avverte che l’estate è in arrivo.

All’interno del teatro l’aria è densa di umidità. In pochi si aggirano silenziosamente tra i grandi divani dell’atrio.

Attraverso i battenti spalancati si può scorgere la platea ancora vuota e buia. Al centro del palcoscenico, sotto il fascio luminoso di un occhio di bue, un pianoforte nero lacca emana bagliori da sirena.

Mi allontano per controllare se è arrivato l’addetto della biglietteria.

Improvvisamente qualche nota ruzzola fuori dalla sala. Mi avvicino di nuovo e mi affaccio.

Enrico Pierannunzi ha cominciato a provare.

Da così lontano, l’artista e il suo strumento sembrano piccoli, eppure copiosi rivoli di musica cominciano a riversarsi nell’enorme spazio buio.

Poi si arrestano. Dopo intervalli irregolari di silenzio riprendono. Ora più impetuosi, ora più placidi. È la qualità cristallina dei timbri a indurmi queste suggestioni acquatiche.

Dopo alcuni minuti, il maestro solleva le mani dalla tastiera, si alza, attraversa la sala a passo spedito, mi passa accanto e scompare da qualche parte.

Il vuoto di prima non è più tale. Ora c’è un’attesa.

È questa attesa che mi porto dentro mentre torno a casa con i biglietti in tasca. La stessa che mi accompagna anche più tardi, all’ora fissata per l’inizio del concerto, quando mi ripresento a teatro insieme a Louise.

Scendiamo con passi ovattati lungo la moquette del corridoio centrale e prendiamo posto. In pochi minuti si riempiono silenziosamente le prime dieci file. Poi le luci si abbassano. Rosseggiano le scritte luminose delle uscite d’emergenza e dei servizi.

Pierannunzi, magro, alto e occhialuto, si siede al pianoforte e comincia a ricavare note dal suo strumento.

Il pianista accarezza la tastiera con gli occhi chiusi, chino sui tasti.

Come un rabdomante raccoglie sulla punta delle dita suoni misteriosi e reconditi.

Gocce di sudore gli imperlano la fronte mentre è impegnato a governare la potenza espressiva dello strumento;  la tensione è fonte di sonorità drammatiche che ora parlano al cervello ed ora al cuore.

Al termine di ogni brano, resta immobile per qualche secondo, poi solleva il capo e si limita ad annunciare il brano successivo.

Non sono gli applausi a testimoniare la partecipazione emotiva delle poche decine di persone presenti, ma il silenzio concentrato e assorto durante l’esecuzione. È un miracolo raro a teatro e quando accade si è colti da un’indefinibile euforia, fragile e caduca quanto l’ebbrezza amorosa.

Al settimo o ottavo brano succede qualcosa di imprevisto.

Il maestro porta a termine una improvvisazione, poi resta piegato sulla tastiera più del solito. Si riscuote con evidente fatica, si rivolge al pubblico e dichiara che non si sente bene. Si alza barcollando e, prima di sparire dietro le quinte, chiede se c’è un medico in sala.

Qualcuno del pubblico va in suo soccorso.

Il concerto è finito.

Dopo si apprende che si è trattato di un lieve malore. Il caldo, la pressione bassa. Non si sa. Niente di grave, comunque.

Ma un impulso comune costringe gli spettatori a restare: ci riuniamo all’uscita e commentiamo le fasi del concerto fino al suo imprevisto esito finale. Ci bastano poche battute per intenderci. Qualcosa è cambiato sotto i nostri occhi: il pifferaio ha smesso bruscamente i suoi panni variopinti ed è rovinato nel fiume come un manichino sgraziato.

Avremmo voluto finirci noi; eravamo lì apposta; ben contenti del nostro destino di ratti.

Pronti a tutto, ma non a che la sua vita privata interferisse.

L’assembramento dura ancora poco. Il tempo di un paio di sigarette e si scioglie spontaneamente come si era formato.

Camminiamo silenziosamente verso casa. Rammento a me stesso quanto scriveva Jorge Luis Borges sul tango: che sarebbe un modo di camminare, un modo di sentire la vita che colora anche le vicende dei suoi protagonisti.

A volte non sai davvero da quale parte della ribalta soffi la vita vera. Nel dubbio, stringo la mano a mia moglie: è viva e reale.

 

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