Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2010 “Driù” di Paola Meardi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Si affaccia sulla stradina, aperto su tutto un lato come un garage o un magazzino, il soffitto basso, un’ampia volta a botte imbiancata di nuovo e non interrotta nemmeno dal tramezzo che separa il bagno, sul fondo. Quel locale mi piace subito quando passiamo, nel pomeriggio, a prendere un gelato.

«Non ne abbiamo molti» si scusa il proprietario, «il frigo è piccolo».

In effetti è tutto piccolo, ma questo lo rende particolare. Ci capitiamo di nuovo la sera, passeggiando per il paese mentre ancora discutiamo il programma della gita al ghiacciaio.

«Prendiamo qualcosa?» chiedo.

«Sì, così faccio la pipì» risponde Cecilia, senza quasi alzare gli occhi.

Guardiamo cauti dall’ingresso, che poi è la parete su strada: non c’è nessuno e temo stia chiudendo. No, è deserto ma non sta chiudendo, il barista pulisce il bancone; non è lo stesso del pomeriggio ma più giovane, ci avviciniamo. L’arredo è tutto di legno massiccio, anche i tavoli, non lavorati, grezzi. La musica invece è latinoamericana, pare una combinazione strana in un paese di montagna.

«Mi ricorda il Portogallo» dico, contento.

«Il Portogallo? Cos’è che ha del Portogallo?» domanda lei.

«L’atmosfera».

Forse perché a Lisbona ho visto caffé così, semplici, ricavati in un solo locale. O forse è la musica, la calma, i quadri dai colori forti in prevalente tonalità di blu, la malinconia.

Il barista sorride; ci osserva installarci sugli sgabelli alti senza smettere di asciugare bicchieri.

«Un Braulio?» chiedo a Cecilia quando torna dal bagno.

Annuisce.

«Due Braulio,» dico allora al barista.

Lui appoggia lo strofinaccio e si volta. Sopra al lavello ci sono due mensole, piccole, piene di bottiglie, altre stanno sul bancone, sotto il ripiano al quale siamo appoggiati, ma sono solo fondi di grappa, e la spina per la birra. Guarda bene sulle mensole, poi sul bancone. Poi ancora sulle mensole, e prova ad aprire un’anta in basso. Non ci sono altri posti in cui guardare.

«Mi dispiace,» dice infine con un marcato accento anglosassone, o forse tedesco, «l’abbiamo finito».

Sembra un paradosso, un bar senza Braulio a Bormio.

«Non importa, hai qualcos’altro di qui?»

Lui si volta ancora. Mi accorgo troppo tardi di averlo messo in difficoltà, quando alza le spalle: allora mi faccio avanti io, passando al di là del bancone mi avvicino alle mensole. C’è una bottiglia di Taneda, un altro liquore della Valtellina:

«Ti piace il Taneda?»

«Non so…» risponde Cecilia, «è forte?»

Ne chiedo un bicchiere per me, lei lo assaggia.

«Buono!»

Ne chiediamo un altro per lei.

Con fare premuroso, il barista cerca un secondo bicchierino. Sotto al bancone non c’è. Guarda allora nel lavandino, ma non lo trova nemmeno lì. Noi aspettiamo. Poi ne scova uno, non è uguale al mio ma più piccolo, di vetro lavorato, come quelli che si usano in casa per la grappa. Lo riempie fino al bordo, sorridendo, ripone la bottiglia e torna ad asciugare le stoviglie.

Quando usciamo, lei non riesce più a trattenersi dal ridere:

«Ma questo è completamente fuori!»

«Dev’essere straniero», commento io, poi metto le mani in tasca e non aggiungo altro.

«Ma non trovava niente! No, dico, in due metri quadrati!»

«Magari è nuovo, non sa dove stanno le cose».

«Anche oggi pomeriggio, quasi non avevano i gelati! Che posto è?»

«Avranno aperto da poco».

«Sì, ma mi ha fatto morire, non aveva i bicchierini! Ti pare? Il locale era vuoto, e non c’erano due bicchierini?»

«E’ alternativo». E mi piace parecchio, penso tra me. Forse perché mi ricorda il Portogallo e non so nemmeno da cosa. O proprio perché non ha due bicchierini uguali.

 

Torniamo pochi giorni dopo. C’è lo stesso barista, ci avviciniamo al bancone per ordinare e lui sorridendo ci riempie due bicchierini di Braulio. Lo osservo meglio: stavolta ce l’ho, pare che dica, ma non lo dice. La stanza è affollata, per quanto basti poco ad affollare un locale così; alcuni bevono fuori, in strada. Troviamo posto a un tavolo. Un gruppo di giovani chiacchiera lì accanto, uno è seduto sul tavolo e ci guarda infilarci sulla panca, dalla parte del muro. Gli dico di non preoccuparsi, che ci stiamo; infatti non si sposta affatto.

La sera dopo, di nuovo il locale è vuoto.

«Che posto strano!» fa Cecilia.

Ci sediamo ancora al bancone e ordiniamo due birre piccole.

«“Stasera è più calmo», dico al barista, tanto per iniziare la conversazione.

«Sì, tranquillo», dice lui. Ma i suoi occhi si muovono vispi, vorrebbe dire molto di più.

Cecilia, al mio fianco, si guarda attorno e si muove sullo sgabello. Non è troppo a suo agio, al bancone, lo so; ma non c’è nessuno, in fondo sarebbe come stare al tavolo tra noi, se le dessi attenzione. Invece mi rivolgo a lui:

«Oggi niente amaro, cambiamo».

Lui sorride, mentre rigoverna il piano del bar.

«Da dove vieni?» chiedo alla fine.

«Australia».

«Australia?», fa eco lei, come se solo la geografia gli desse importanza. Non le do retta. E lui continua, finalmente senza timidezza:

«Sono qui da tre mesi», e mostrando fiero la mano sinistra continua, raggiante: «per sposarmi!»

«Hai sposato una donna di Bormio?»

«Sì».

«E ti piace?»

«Sì, certo».

«Bormio, o tua moglie?»

Ridiamo.

«C’è il mare da te?», chiedo. E’ una domanda ingenua, ma nella mia immaginazione l’Australia è una grande isola con solo il mare attorno, come l’Elba. Mi stupisce che abbia potuto lasciare spiagge immense verso i monti della Valtellina. Ci spiega che sua moglie ha un fratello che lavorava a Melbourne, ed era andata più volte a trovarlo: così si erano conosciuti. E’ venuto via lui perché col suo lavoro poteva farlo. Non so quale fosse il suo il lavoro, forse proprio il barista, non faccio in tempo a domandarglielo perché è lui a chiedere del mio, e poi di quello di Cecilia. Rispondiamo brevemente, invece lui vuole saperne di più. Insegnante dove, e com’è la scuola qui. Fisioterapista, interessante, e come si fa e che studi hai fatto. Parliamo in fretta ma lui ci segue bene, se sono troppo tecnico mi interrompe; iniziamo a spiegare nel nostro inglese stentato ma la situazione non migliora, anche se lui annuisce attento, rispettoso.

Restiamo lì per un’altra birra, e poi una terza. Entrano solo un’altra coppia e due amici che si siedono ai tavoli, senza interferire.

«Allora ci rivediamo,» dico infine alzandomi, «è bello qui». E prima di prendere il portafogli per pagare gli allungo la mano:

«Io sono Claudio».

«Driù», risponde lui.

«Come?»

«Driù…» ripete, e subito aggiunge: «beh, Andrea. Va bene Andrea».

«Come, va bene Andrea? Qual è il tuo nome?»

«Andrew, mi chiamo Andrew… drew: detto Drew.»

«Drù?», ripeto con la mia pronuncia incerta.

«Drew».

«Driù».

«Sì», e sorride.

 

 Ci salutiamo già fuori, sulla stradina silenziosa che sta lì, all’imbocco del locale che continua, in un certo senso, su quella strada, senz’altra insegna che un cartello-lavagna sul selciato. Driù ci segue con lo sguardo. Anche il nome voleva cambiare per noi, nell’impeto di curiosità verso il mondo che lo circonda, il mondo di sua moglie per la quale ha capovolto il suo.

«Claudio!»

Cecilia mi chiama, è rimasta indietro a leggere un cartello sulla bacheca della piazza.

«Claudio! Aspettami!» grida, ma io vado avanti, lentamente, al ritmo del fado portoghese che sta solo nella mia testa.

«Claudio!» insiste lei. E mi chiedo come si abbrevierebbe il mio nome, in inglese. Non lo so, nessuno l’ha mai abbreviato nemmeno in italiano.

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