Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2010 “Cimitero Virtuale” di Luigi Tuveri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Ettore, svoltato l’angolo dove anni fa c’era un chiosco che vendeva fiori, se lo trovò di fronte, immenso, posato nella terra come una cosa naturale, rilucente di cristalli e sbalzi, immobile. Alzò la testa e con gli occhi lo seguì fin dentro al cielo. Il resto, attorno, scompariva confondendosi nell’orizzonte pastoso, stuprato dalle ciminiere di sbocco dei nuovi termovalorizzatori. Era abituato a vederlo dalla finestra di casa, da una prospettiva che gli permetteva di scorgerne la sola sezione centrale, avviluppata come la vite senza fine di un cavatappi. Non era mai stato utilizzato, era vuoto e gonfio d’aria condizionata, vigilato giorno e notte da guardie armate. Ettore, sotto il cuscino della carrozzella, teneva il piccone: «E sono pronto a usarlo!», aveva confidato a Serafina.

«Se ogni sopruso l’avessi risolto così…», aveva risposto lei.

«Sono stufo di perdere tempo con le parole».

«Non è quello che mi hai insegnato».

«Non è quello che ti sto insegnando. È roba che faccio io».

«Stasera ti preparo il kebab?»

«Ricorda, Serafina», lei si era voltata, Ettore aveva pigiato il tasto rosso e con due dita spinto sul joystick, «tu non sei coinvolta», la sedia a rotelle si era mossa, «non sai niente», lei aveva annuito e non aveva più parlato, lui si era voltato e incrociando il passo incerto dei pochi pedoni aveva proseguito.

Da quando l’ultimo separé, alla fine del 2015, era stato portato via dichiarando chiuso l’Expo di Milano, nessuna azienda aveva mai portato i propri dipendenti nel Banana. Un amministratore delegato virtuoso ci aveva provato con l’altro palazzo, l’Ananas, quello costruito sopra il Monumentale, ma aveva desistito. Pareva infatti che uno strano morbo colpisse gli impiegati costretti in quel posto e c’era chi preferiva perdere il lavoro ma nel palazzo non metterci piede. Il deficit di produttività e il calo di fatturato sancirono in un anno il tempo d’affitto dell’Ananas, dove, così come nel Banana costruito sopra il Cimitero Maggiore, non rimasero che spettri.

Ettore lasciò scivolare le dita sotto l’imbottitura e toccò la punta del piccone. Era convinto che nessuno avrebbe osato impedirgli di sprofondare nelle sabbie mobili delle fondamenta del palazzo. Agata, l’ultimo abbraccio, lo aveva ricevuto da quella terra. Non dalle dialisi, non dalle macchine idratanti, non dalla panna acida degli elettrodi che per vent’anni l’avevano costretta a vegetare. Il 14 febbraio 2009 sua figlia era una massa di pelle e sale ridotta a yogurt. La luce degli occhi, quella di cui solo Ettore avrebbe potuto dire, era via, smarrita nella pece dell’universo assieme a inutili grumi di parole.

Si ricordava che il Papa, affacciato alla finestra, aveva tuonato: «Non si può uccidere una vita ancora viva», e tutta la piazza aveva sventolato bandierine bianche.

«Potrebbe generare un figlio», gli aveva fatto eco il Capo di Governo.

«Vuole mettere in crisi le istituzioni», aveva ribattuto il leader dell’opposizione.

«Il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato», aveva scritto il Presidente della Repubblica, «non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente».

Che ne sapevano infine quei pazzi del Movimento per la Vita riuniti a banchettare davanti alla clinica? Cosa? Di una creatura che lui aveva visto uscire dall’utero della donna fecondata e poi succhiarle il seno; che aveva visto imparare a camminare. A cagare nel pannolino, nel vasino e poi nel water. Con gli occhi lucidi girò attorno al Banana: 10 settembre 2039. Aveva studiato il piano nei dettagli e avrebbe sfruttato i tempi morti del cambio della guardia. Sul retro del palazzo c’era lo scivolo che portava ai parcheggi sotterranei. Lo imboccò. Quando la carrozzella prendeva troppa velocità pigiava il tasto blu. Scendendo in quegl’inferi gli sovvennero le ultime parole di Agata: «Amnesty ha detto che sono più di mille, non poche centinaia, ma anche fosse uno solo». Erano i primi giorni di giugno del 1989. Agata passava le notti sveglia davanti alla tivù per capire cosa accadesse in Piazza Tienanmen. Avrebbe voluto partire e affiancarsi agli studenti cinesi. Non le bastavano i collettivi e la notte in cui la polizia diede via al massacro, Agata pianse: «Non è questo il comunismo che conosco io», ricordava d’averle detto Ettore. Lei teneva le gambe raccolte in un abbraccio impotente, la finestra era aperta ed entrava l’aria della notte. L’incidente accadde il giorno dopo. Per accettare la tragedia Ettore inventò che Agata, raggiungendo i coetanei cinesi lungo l’impervia strada della seta, era rimasta impigliata alla bici, distesa sull’asfalto come un ragno sgangherato, con la maglietta celeste indossata la mattina.

Il giorno in cui l’esposizione mondiale fu chiusa, il sindaco e il governatore erano sul palco, allegri, fasciati dalle corone tricolori, le facce impomatate a salutare la folla, alternandosi al microfono in pomposi discorsi. Di tutte le promesse era rimasta solo una eco terribile zittita dalle tivù. Poi cominciò a piovere e la pioggia, che per tutto l’inverno a cavallo tra il ‘15 e il ‘16 cadde copiosa, riempì le strade di Milano di un fango che odorava di morte.

Con il cuore in gola Ettore scese fino al meno sette: l’umidità era potente, pareva che le masse fradice dei terrapieni gemessero per sfondare le pareti e invadere il silos deserto. Agata ci aveva messo una settimana a morire. Le macchine smisero di accudirla e ciò che restava dei suoi quarant’anni, il 20 febbraio del 2009, poté ascendere al cielo e il suo corpo poté essere seppellito. Ma durò poco. Nel 2011 Musocco e Monumentale vennero rimossi per mano del piano regolatore che Regione, Comune e Provincia approvarono d’urgenza e all’unanimità. Servivano ettari edificabili all’interno della città e non c’era tempo per inventare strategie: sopra il Cimitero Maggiore, una volta deportati e classificati i defunti, costruirono la Banana. Sul Monumentale, invece, l’Ananas. Ai familiari degli estinti fu consegnata una carta di credito con la quale avrebbero potuto far visita ai loro cari utilizzando internet. Ettore, nonostante la ritrosia iniziale, ebbe modo d’abituarsi e visitare Agata al Cimitero Virtuale della Regione Lombardia. Il governatore organizzò una conferenza e assicurò che ogni cadavere sarebbe stato deposto con cura in un sito identificato tra i sette idonei e che ai congiunti sarebbe stata comunicata la reale ubicazione, cosa che non avvenne mai. L’intervento papale tranquillizzò i più scettici, fu spiegato che l’anima non ha dimora e già un anno prima dell’Expo, mentre venivano ultimati i palazzi, i milanesi si convinsero che il Cimitero Virtuale era cosa buona e giusta e nei preferiti di internet, di fianco a youtube e facebook, comparve il link: http://www.cimiterovirtualeregionelombardia.it .

Ettore fu catturato mentre con il piccone cercava di sfondare un muro sotterraneo del palazzo Banana per sotterrarsi lui stesso. Un allarme si era messo a suonare e le guardie erano arrivate con i mitra spianati trovando però solo un vecchio paralitico di ottantotto anni, lui. L’età gli evitò la prigione. Lo condussero in questura per gli accertamenti e la sera lo riportarono a casa dalla badante.

Si lavò sbuffando e cenò con il kebab di Serafina.

«Vado a letto tardi», disse ancora burbero, «devo digerire».

«Sono felice che sei qua».

Lui pigiò il pulsante della carrozzella, le ruote elettriche a marcia indietro lo accompagnarono dalla parte opposta della casa. Toccò il joystick, girò su se stesso e s’infilò con le gambe sotto la scrivania. Sfiorò un tasto e il video sbocciò davanti a lui. Andava a trovarla ogni giorno. Gli bastava cliccare sul link e Agata c’era. Sorridente, circondata dalla Piazza che Ettore aveva scelto come ambiente virtuale per la sepoltura.

«Io vado» fece Serafina.

«Dove sarà lei veramente?»

«Me lo chiedi tutte le volte».

«Ti sarebbe stata simpatica, sai? E tu a lei».

Serafina annuì: «Ho lasciato la tisana in cucina», disse poi.

«A volte mi pare che Agata sia ancora in coma, sospesa…»

«Però non devi torturarti così…»

«A volte vorrei poter arrivare davanti alla sua tomba, cambiare l’acqua al vaso, mettere i fiori. Spolverare il marmo e accendere il cero nuovo. Tutto qua».

Serafina abbassò gli occhi imbarazzata: «Chiama subito se hai bisogno, non come l’altra volta».

Ettore, restando girato verso il tremolio del monitor, fece sì con la testa. Poi lo schermo divenne ardesia che lui avrebbe desiderato pasticciare con i gessetti colorati. Socchiuse gli occhi e provò a immaginarla, a sentirla, a toccarla. Ma c’erano i grattacieli, le cartelle cliniche sequestrate, le alte velocità che trasportavano derrate scadute da un posto all’altro del mondo. E nemmeno un po’ di terra per morire.

Cliccò sui crisantemi indaco e con il mouse li trascinò sul sepolcro di Agata.

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