Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Luna piena e calma piatta” di Laura Lucugnano

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

L’unica cosa che provavo in quel momento era la meraviglia per non provare assolutamente niente. Non avvertivo nessuna emozione fra quelle che abitualmente sono riconducibili alla fine di una storia. Quando lui mi aveva detto che era finita io l’avevo guardato assente e avevo detto ‘va bene’. Avevo preso la giacca, aperto la porta ed ero andata via. Per le scale mi era parso di sentire la sua voce. – Aspetta, ti do un passaggio. A quest’ora dove vai da sola… – ma io avevo continuato a scendere.

 

Era tardi, non tardissimo, e comunque era un sabato di fine estate in città, di gente per strada ce ne sarebbe stata fin troppa. A piazza S. Luigi c’era uno stazionamento di taxi ma tirai dritta: avevo bisogno di muovermi e mi avviai a passo svelto giù per via Posillipo. Le auto andavano e venivano, alcune sfrecciavano veloci spezzando il silenzio della notte con della musica lanciata a palla dai finestrini abbassati. Quando tornava il silenzio portavo lo sguardo sul mare: la luna piena era bassa, sembrava galleggiare sul pelo dell’acqua e illuminava quasi a giorno tutta la scogliera al di sotto della strada.

 

Continuavo a chiedermi perché non provavo dolore, nemmeno mi sentivo sollevata, pensavo solo che ancora una volta avevo detto ‘va bene’. Lo avevo detto quando i miei genitori avevano deciso che dovessi iscrivermi a ragioneria, che dovessi laurearmi in economia e commercio per poi entrare in banca. Odiavo la partita doppia ma proprio non mi interessava contrariarli, semplicemente trovavo molto più comodo accondiscendere: nessuna parola pronunciata con tono autoritario, nessuno screzio o musi lunghi, solo silenzi e calma piatta.

 

La strada in leggera discesa assecondava il mio passo svelto. In lontananza vidi emergere dall’acqua l’imponente sagoma del palazzo Donn’Anna. Ricordai quanto da ragazzina desiderassi vivere in quel palazzo, una delle poche fantasie che ricordavo di aver concepito nella mia mente di bambina. Non pensavo mica alla sua antica storia, alle leggende che vi aleggiavano intorno o men che meno ai costi stratosferici della sua manutenzione: pensavo solo che avrei vissuto come una principessa in un castello incantato che sorgeva dal mare circondato da scogli dove avrei potuto prendere il sole.

 

Per la prima volta mi chiesi come mai le mie fantasie pre-adolescenziali si fossero trasformate nell’attuale atteggiamento anaffettivo da adulta. Avevo detto ‘va bene’ anche quando lui aveva deciso di avere di una storia con me. Non è che mi importasse tanto che fosse sposato, ma lo vedevo talmente coinvolto e preso da me che proprio non mi riuscì di oppormi, o di sopportare la delusione che avrei visto sul suo volto.

 

Rivolsi lo sguardo al mare il cui movimento costante e armonioso trasmetteva serenità. Sorrisi. Strano, ero riuscita a coglierla.

 

Il traffico delle auto si era diradato, solo ogni tanto ne passava una i cui occupanti nello scorgermi a camminare da sola a quell’ora rallentavano per curiosità o per rivolgermi qualche battuta becera.

 

Considerai che forse era davvero tardi e che trovarsi sola per strada in piena notte non era una buona idea. Accelerai il passo. Presi il cellulare sperando di trovare un taxi disponibile. Come temevo: tutti i gestori mi invitavano a richiamare più tardi.

 

Nel frattempo ero arrivata in prossimità del palazzo Donn’Anna. Non lo ricordavo così grandioso: la luce lunare conferiva ai mattoni in tufo un aspetto surreale, da location cinematografica per deliri onirici di qualche regista fumato.

 

Il marciapiede in un certo tratto si allargava sulla scogliera sottostante creando, da quel poco che si vedeva, un piccolo belvedere con la ringhiera al posto del muretto. Lo spazio ristretto era quasi del tutto occupato dalle ramificazioni ancora piene di foglie che partivano dalla base di due alberi che si allargavano incontrollate dal ciglio della strada fin dentro la piccola terrazza.

 

Stavo pensando di scendere dal marciapiede per aggirare l’ostacolo quando un pensiero improvviso mi bloccò a ridosso degli alberi. Non mi andava di tornare a casa e il mare illuminato a giorno dalla luna piena era un richiamo irresistibile. Considerai che se mi fossi affacciata alla ringhiera del belvedere i rami ancora folti mi avrebbero completamente nascosta alla vista di chiunque fosse passato sia a piedi che in macchina.

 

Detti un rapido sguardo in giro e mi addentrai a testa china nel viluppo di rami: sembrava una foresta malese in miniatura. I rami sporgevano ben oltre la ringhiera e non fu facile trovare uno spazio libero dove collocarmi. Alla fine spostando di qui e di là i rami riuscii a crearmi un incavo anche se rimanevo completamente racchiusa in un bozzolo di rami e foglie. Mi appoggiai con circospezione alla ringhiera.

 

Chiusi gli occhi e istintivamente dilatai le narici. L’odore che saliva dal basso non era quello solito rancido dei porticcioli e di reti lasciate asciugare al sole. Saliva invece un profumo, una fragranza salina e insieme floreale che prendeva prepotentemente il sopravvento sugli olezzi della strada.

 

Ad un tratto nel ritmo tranquillo delle piccole onde che si frangevano sugli scogli si inserì lo schiocco come di un remo battuto sul pelo dell’acqua. Riaprii gli occhi.

 

Sotto il mio improvvisato balconcino in una insenatura della scogliera sottostante c’era un minuscolo golfo. Quella notte se avessi allungato il braccio ero certa che avrei potuto toccare la luna. Ce l’avevo proprio di fronte e la sua luce ricopriva di scaglie d’argento la superficie danzante del mare.

 

Mentre contemplavo rapita lo spettacolo sentii delle risatine: sembravano quelle argentee e squillanti delle bambinette quando bisbigliano tutte concentrate fra di loro. Ma visto che a quell’ora bambini in giro di sicuro non ce ne erano pensai a un effetto sonoro delle onde sui frangiflutti.

 

Ancora schiocchi e risatine, adesso molto divertite. No no, erano proprio risate. La cosa un po’ mi spaventò. Arretrai per quanto mi fu possibile nel mio bozzolo di rami e foglie. Evitando di graffiarmi mi voltai verso la strada ma non c’era nessuno. Feci caso che non avvertivo nemmeno i rumori in lontananza di una città che non dorme mai. Niente, solo la risacca, schiocchi e risatine.

 

Abbassai lo sguardo sul mare. La superficie del piccolo golfo sotto di me adesso era mossa, quasi agitata. Vedevo muoversi delle sagome. Ebbi paura. Non sapevo a cosa pensare se non ai vecchi contrabbandieri di sigarette che scaricavano la loro merce dai grossi motoscafi blu sugli approdi agibili della zona di Posillipo. Ma ormai anche loro erano passati nella leggenda. Allora, cosa poteva…

 

Ad un tratto una di quelle sagome emerse dall’acqua con un piccolo balzo, come quello dei delfini di Riccione. Con un movimento sinuoso ed elegante la figura si appoggiò in seduta su uno degli scogli.

 

Una ragazza. Che ci fa una ragazza nel mare a quest’ora? È caduta da qualche barca, sarà fuggita da qualche malintenzionato… Stavo per sporgermi e richiamare la sua attenzione per offrirle aiuto quando la vidi portarsi i lunghi capelli scuri sul davanti e cominciare a lisciarseli con movenze lente e sensuali. Il profilo perfetto della ragazza era illuminato in controluce dal bagliore lunare che conferiva alla sua pelle un aspetto ancora più luminescente. Ma quale matto si fa il bagno di notte nel golfo di Napoli? Mi ritrovai ad invidiare la ragazza e i suoi amici che vedevo ancora muoversi sotto l’acqua.

 

Decisi di affacciarmi per osservarla meglio ma anche per chiederle cosa l’avesse spinta ad una pazzia del genere. Con il piede feci cadere del pietrisco che rotolò sugli scogli. La ragazza alzò il volto nella mia direzione. Un volto bellissimo, di morbido alabastro, che il terrore aveva segnato di piccole increspature.

 

“Scusa, non volevo spaven…”

 

Vidi la ragazza alzare le braccia e rituffarsi in mare. Nella curva elegante che il suo corpo descrisse nel tuffo non vidi gambe: pensai stupidamente ad una persona amputata ma era troppo insensato. Lucide code dalle squame argentee e pinne leggere produssero il medesimo schiocco di pocanzi formando una schiuma agitata come in una tonnara prima di scomparire in acqua.

 

Fissavo con occhi sbarrati la superficie del mare tornata piatta. No no no no no, è un sogno, forse sono più sconvolta di quanto ammetta dalla fine della storia.

 

Ma sapevo che non era un sogno, il cuore pompava a mille e avevo il respiro corto. L’ho vista, l’ho vista!! Non era possibile ma l’avevo vista! Ma chi mi avrebbe creduto? Sirene, sirene nel golfo di Napoli in pieno terzo millennio. No, non sto bene.

 

Mi lasciai andare nel mio bozzolo di rami e foglie che mi sostennero come premurose braccia. Sorrisi e scossi la testa.

 

Tutto sommato, sirene e Napoli ci stavano tutte. Solo che quella della leggenda di Partenope era arrivata morta sullo scoglio di Megaride perché non era riuscita a blandire con il suo canto Ulisse e la sua ciurma. E queste da dove saltavano fuori? Se erano così belle e vispe significava forse che riuscivano ancora ad ammaliare con le loro melodie equipaggi di pescatori e gitanti scostumati della domenica? Ma erano queste persone in grado di cogliere il canto di una sirena?

 

Mi sciolsi dall’abbraccio dei rami e mi portai ancora alla ringhiera. Strizzai gli occhi per provare a scorgere ancora quella strana creatura o almeno uno svolazzo di code argentee. No, niente. La luna si era spostata dietro il palazzo e il piccolo golfo sotto di me era tornato buio mandando solo la melodia delle piccole onde che si frangevano sugli scogli.

 

Con la coda dell’occhio vidi in lontananza il rettangolino illuminato sul tettuccio di un taxi. Mi ripromisi di aspettare che si avvicinasse prima di uscire in strada e fermarlo. Quando vidi l’auto arrivare uscii dal mio riparo di rami e foglie e feci cenno di fermarsi. Il taxi inchiodò con uno stridio incredibile di freni qualche metro più avanti. Lo raggiunsi, aprii la portiera posteriore e feci per sedermi.

 

– Madonna mia, signurì, e che spavento! – il tassista quasi balbettava. Si posò una mano sul cuore – siete uscita all’improvviso dalle piante, tutta vestita bianca, pariviv’ ‘nu fantasma!! –

 

– Scusate, non volevo. Vi ho visto all’ultimo momento… –

 

– Non per sapere i fatti vostri ma che ci facevate dietro a quelle fronne a quest’ora? –

 

Come al solito. Nonostante la premessa di rispetto della privacy il tassista chiedeva comunque chiarimenti.

 

Cominciai a ridere, ridere ridere. Oddio, da quanto tempo non mi succedeva!

 

Io avevo visto una sirena e il tassista aveva preso me per un fantasma…

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