Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Un punto d’appoggio” di Paolo Puliti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Ore 9.00: saluto ai partecipanti. Ore 9.15: inizio dei lavori. Ore 11.00: coffee break. Ore 11.20: ripresa dei lavori. Ore 13.00: pausa pranzo…Coffee break e pausa pranzo mi sembrano le parti più interessanti del convegno; il resto non è altro che il solito vecchio film, visto e rivisto mille volte: parole vuote, pacche sulle spalle, tacchi a spillo, insomma nient’altro che quel triste universo lontano anni luce dai miei pensieri e dal mio modo di essere. Non sarò mai una stella nel firmamento dei venditori, brillerò sempre di luce riflessa, mi spengerò come una vecchia stella nana e buonanotte; redditività, profitto, vendite, clienti possono pure andarsene al diavolo, il mio programma per oggi è un altro. Alla pausa pranzo, prenderò un paio di tartine al volo, giusto per bloccare la fame e poi via, lascerò tutti alla grande abbuffata, tanto so già che nessuno sentirà la mia mancanza; sarò solo un rapido pensiero volato via insieme alle prime bollicine del solito prosecco da due lire.

Un punto d’appoggio, datemi solo un punto d’appoggio e forse non solleverò il mondo come Archimede ma sarò un uomo felice. Nel parco giochi che ho visto arrivando qui, ci sarà sicuramente una panchina che può fare al caso mio e allora con un piccolo ma significativo punto dove poter appoggiare la testa, riuscirò a farmi una micro dormita di cinque-massimo-dieci minuti che forse riuscirà a liberarmi da tutti i neri pensieri che questi congressi di venditori mi imprimono nell’anima. Il sonno innocente del bambino dal cuore puro che faccia la magia di rendermi persino più tollerante nei confronti dei miei colleghi, che poi tanto colleghi non sono mai.

La mattina se ne va via senza intoppi, mi dileguo di soppiatto, come un assassino improvvisato, consapevole di aver lasciato troppe tracce sul luogo del delitto e in un attimo sono fuori; mi allento il nodo alla cravatta e finalmente posso respirare, libero da ogni costrizione. Entro nel parco: eccolo, l’ho visto, è un miracolo! Proprio dietro la panchina, quella di fronte agli scivoli, c’è un palo di legno, residuo di chissà cosa. Dovrebbe essere un punto d’appoggio perfetto, devo solo provare se la distanza tra la panchina e il palo…sì, va benissimo, la testa si adatta perfettamente. Ora mi metterò gli occhiali da sole per nascondermi un po’, spero solo di non mettermi a russare come mi è capitato altre volte.

In attesa che arrivi il sonno, osservo i bambini sullo scivolo e non posso fare a meno di pensare a mia figlia piccolissima, quando andavamo insieme al parco giochi. Lo scivolo era il suo gioco preferito e io la seguivo salire sulla scaletta, piano piano, un gradino alla volta, con quelle sue gambette dritte e perfette. Arrivava in cima e, prima di buttarsi, faceva passare avanti gli altri bambini e poi, quando era sicura di essere sola, si lanciava. Arrivava a terra sempre sorridendo, felice della sua nuova conquista e così per decine di volte, una di seguito all’altra. Sarei stato ore a osservarla, non mi stancavo mai e non avevo altro desiderio se non quello di essere lì con lei a guardarla quando atterrava sulla sabbia perché ogni volta che toccava terra, subito i suoi occhi cercavano i miei. Con un piccolo gesto approvavo i suoi salti, sempre uguali o forse sempre diversi, non lo so. Era come se crescesse sotto i miei occhi, ogni volta che scendeva stava facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che l’aiutava a cambiare, ad allontanarsi da me e forse proprio per questo aveva sempre bisogno della mia approvazione.

Assorto dai miei pensieri, non mi sono accorto del signore anziano seduto all’altra estremità della panchina; di sicuro non c’era quando sono arrivato, comunque adesso è lì, ha il giornale aperto sulle ginocchia e tiene in mano un foglio pieno di numeri e, cosa che mi terrorizza di più, adesso mi sta fissando. Spero solo non abbia voglia di attaccare bottone, l’ultima cosa che mi ci vorrebbe adesso è mettermi a parlare del tempo, del governo o di malattie con un pensionato. Ti prego, fa che non mi rivolga la parola, che rimanga in silenzio a leggere il suo bel giornale e a segnare i suoi maledetti numeri. Di sicuro non sarò io il primo a parlare e comunque non capisco perché continui a guardarmi così, forse il suo passatempo preferito è rompere le scatole ai visitatori del parco e adesso ha trovato in me la sua nuova vittima.

«I numeri…», ecco fatto, ha parlato. Farò finta di non capire, forse potrei dirgli che sono straniero, io-no-parlare-italiano, così magari mi lascerebbe in pace e invece niente, maledizione, continua: «Dicevo che i numeri sono strani, non fanno altro che prenderci in giro».

Adesso però gli rispondo, gli dico che sono qui per riposarmi e che dovrei proprio chiudere gli occhi per almeno cinque minuti ma niente da fare, il vecchio mi rivolge di nuovo la parola: «Si prendono gioco di noi e noi ci caschiamo sempre. A me comunque piace molto farmi prendere in giro dai numeri e loro lo sanno. Qualche volta mi fanno persino vincere, ma il più delle volte vincono loro».

«Senta signore», mi trattengo, cerco di essere gentile ma allo stesso tempo devo dimostrare fermezza: «Mi deve scusare ma vede, io avrei proprio bisogno di…».

«Ma sai che sei cambiato?», mi dice come se niente fosse e io rimango lì, quasi stordito per quello che mi ha appena detto. Poi mi riprendo, capisco che devo reagire, non posso cedere così di fronte al nemico, devo subito controbattere: «Appunto, penso proprio che lei mi confonda con qualcun altro, io sono qui solo per…».

Il vecchio insiste ancora, come se non avesse nemmeno ascoltato la mia risposta: «All’inizio ho persino fatto fatica a riconoscerti, poi ti ho guardato meglio e allora ho capito che eri tu. D’altronde non mi potevo sbagliare, guarda le mani: vedi? Le nostre mani sono proprio uguali», lo dice mentre accosta la sua mano vicino alla mia, appoggiata sulla panchina. Non posso fare a meno di notare che sta dicendo la verità. Ha ragione, sono le stesse mani; stento a crederci ma è così. Allora lo guardo meglio negli occhi e adesso anch’io lo riconosco:

«Babbo, ma tu…».

«Io cosa? Sei tu che mi hai chiamato, altrimenti non sarei mica venuto qui».

«Ma io non ti ho chiamato e poi anch’io non ti ho riconosciuto, sei cambiato anche tu».

«Certo che sono cambiato, cosa credevi. Insomma, vuoi darmi una mano o no? Vedi, stavolta vorrei provare questo terno secco, mentre tutti questi altri numeri li faccio girare in una serie di ambi, per cui…».

La botta sul naso mi arriva talmente forte che la testa mi sbatte contro il palo e gli occhiali da sole mi volano via. Apro gli occhi e mi ritrovo con un pallone tra le mani. Il bambino davanti a me avrà cinque o sei anni e mi guarda dritto in faccia, non so se per chiedermi scusa o solo perché rivuole il suo pallone e del mio dolore non gliene frega niente. Rimango a guardarlo, indeciso se bucargli il pallone, denunciare i genitori o chiedergli se possiamo fare due tiri insieme. Capisco che nessuna delle tre cose è praticabile e così, senza dirgli niente, gli restituisco la palla e lui scappa via felice. Mi volto e mi accorgo che sono di nuovo solo sulla panchina. Ora ricordo tutto, mi sono addormentato e ho sognato mio padre; era da molto tempo che non mi accadeva e tutti quei discorsi sui numeri da giocare non fanno altro che riportarmi a quando le estrazioni del lotto c’erano solo il sabato, alle cinque esatte del pomeriggio ed esclusivamente alla radio. Era un rituale talmente importante e atteso, che il negozio dei miei genitori si animava di strani personaggi del paese fissati con il gioco del lotto, tutti lì ad aspettare l’estrazione; la radio già sintonizzata sul canale giusto mentre io non ero altro che l’addetto a trascrivere i numeri estratti sul foglio con le ruote delle città. La voce seria e profonda che usciva dalla vecchia radio scandiva quei numeri quasi fosse un bollettino di guerra: “sessantacinque, sei-cinque”, e proprio come in una guerra, qualcuno festeggiava la vittoria e qualcun altro se ne andava via dal negozio piangendo sulle sue macerie. Mio padre vinceva e perdeva come tutti, giocava con i numeri e i numeri giocavano con lui, proprio come mi ha detto nel sogno. Ecco, adesso sono contento: ho dormito, ho fatto un bel sogno e mi sono anche preso una pallonata sul naso che mi fa ancora un male tremendo, ora posso tornarmene al convegno. Sarò lì giusto in tempo per il caffè e poi via, rientrerò in quella terra di mezzo che non è mai stata mia, ma che mi permette di sopravvivere e in fondo c’è di peggio. Mi alzo dalla panchina e mi chino per raccogliere gli occhiali che il bambino mi ha fatto saltare via dal naso e vedo un foglio per terra, proprio sotto la panchina. Lo raccolgo, è pieno di numeri e allora capisco tutto. Sicuramente era già lì quando sono arrivato, forse l’ho intravisto con la coda dell’occhio, quel tanto che è bastato al mio cervello per collegare quei numeri a mio padre e alla sua passione per il lotto, ed è per questo che l’ho sognato. Dunque è vero, sono stato io a chiamarlo. Osservo bene il foglio, alcuni di quei numeri sono cerchiati di rosso, sono sei in totale. Il segnale è perfetto e fin troppo semplice da decifrare: qualcuno che mi vuole bene mi manda una combinazione da giocare, vincere una montagna di soldi e mandare tutti a quel paese.

Purtroppo non sono uno che crede a queste cose, ma credo nelle persone e negli affetti. So già che non giocherò quei numeri e non controllerò nemmeno se verranno mai estratti. Piego il biglietto e me lo metto in tasca. Arriverà anche per me il tempo di lasciare tutti, non credo che sarà un’attesa tanto lunga, ma almeno non me ne andrò a mani vuote. Mi porterò il biglietto, cercherò mio padre e allora sì che avremo tutto il tempo che vorremo per continuare ancora a farci prendere in giro dai numeri.

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10 commenti »

  1. Io I numeri li avrei giocati… Anzi… Mi aspettavo di leggerli prima della fine del racconto…magari portavano bene! Grazie del piacevole racconto.

  2. Carissima Anna ti ringrazio del commento. Magari nella realtà li avrei giocati anch’io, anche perché non si sa mai. Nel racconto invece ho voluto dare al protagonista un po’ di superiorità rispetto alle cose terrene ( poi chissà che non li abbia giocati anche lui). Grazie ancora.Ciao.

  3. Un racconto sulla insoddisfazione di un lavoro “purchessia” nel quale unico elemento di valore è il numero, il numero dei clienti a cui riesci a vendere qualcosa.
    Il protagonista del racconto con il suo sguardo critico nei confronti di quel mondo “in vendita” , unico strumento per rendere possibile la sua vita dimostra che il “rampantismo” non è riuscito a cambiare i suoi punti di appoggio, i numeri sono solo uno strumento ma gli affetti…

  4. Grazie mille Anna Rosa per il commento preciso e attento che hai fatto del mio racconto.In effetti è sempre così, almeno per me: gli affetti vengono prima di ogni altra cosa. Ti ringrazio di cuore,

  5. Un racconto che lega attraverso il filo dei sentimenti tre generazioni e lascia il lettore con qualcosa in più di buono e ricco. Bello il contrasto linguistico fra le descrizioni della realtà esterna, materiale, impersonale, brusca e dolorosa (anche fisicamente: vedi pallonata!) e le parole appassionate, tranquille e calde che descrivono il mondo inattaccabile degli affetti.

  6. Carissimo Marco, il tuo commento mi piace proprio tanto e per questo ti ringrazio di cuore. Sei riuscito a cogliere il senso più profondo del racconto e ne hai anche dato una perfetta interpretazione dal punto di visto linguistico. Grazie ancora.

  7. Paolo, numeri e combinazioni che vogliono andare aldilà del loro mero uso calcolatore, che lasciano al protagonista una scelta che non è quella del gioco bensì quella del messaggio più profondo che c’è dietro ai numeri. Ci sono ricordi, le relazioni col padre, la voce di un uomo che ha fatto parte della vita del narratore. Ad un certo punto della lettura, ci si poteva aspettare un finale con una sorpresa eclatante o una vittoria, ma è stato un finale intimo e contenuto come il senso della vita per il protagonista. In bocca al lupo!

  8. Grazie Elena per aver messo a fuoco la parte più vera del racconto che, come hai capito, è in parte autobiografico e i numeri sono solo un appiglio per parlare di qualcuno che non c’è più o meglio sono stati “un punto d’appoggio” per raccontare qualcosa che fa parte di me. Ora e sempre “viva il lupo!”.

  9. La pausa pranzo per “staccare”, ma farlo del tutto, resettando i pensieri grigi del lavoro e lasciarsi cullare dai colori e la spensieratezza di un parco giochi, fino al riuscire a riposare e abbandonarsi ai sogni. Ritrovare il ricordo di una figlia ora cresciuta e di un padre che non c’è più. Brusco il ritorno alla realtà, ma allietato dal ritrovamento di quel foglio, che ha valore non per i numeri da giocare, ma per i momenti di vita a cui viene associato. Lascia un senso di serenità questo racconto, insegna ad apprezzare piccoli momenti di vita per trovare la forza e la voglia di andare avanti nella quotidianità. Mi è piaciuto molto. Complimenti!

  10. Grazie mille dei complimenti cara Silvia. Sapere che questo breve racconto ti ha regalato anche solo un istante di serenità, mi rende molto felice e consapevole che parlare dei propri sentimenti ripaga sempre e arricchisce l’animo non solo di chi scrive ma anche di chi, come te, riesce a trovare qualcosa di buono in queste poche righe. Grazie ancora.

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