Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2017 “Il colloquio” di Milena Privitera

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

L’umiliazione la paralizzò. Il cuore le batteva lento, molto lento, la mente si era bloccata su quelle parole che lei ripeteva, ripeteva, tra sé,  le lacrime erano state ingoiate con grande sforzo. No, non poteva, non doveva dimostrare, alcuna emozione. Intorno una stanza che si ingigantiva sempre più nell’ufficialità dell’incontro. Tavolo ovale, poltrone girevoli, quadri d’autore, finestre che si affacciavano su una strada percorsa dalla vita. E lei rinchiusa lì, dentro un colloquio che non le apparteneva. Ma poi quale colloquio, a parlare era solo e soltanto lui, sfrontatamente sicuro, giuridicamente preparato. Un lui appena conosciuto e sin da subito non piaciuto. Un lui che le stava raccontando la sua vita ma lei sapeva, ne era certa, non era andata come lui diceva. Eppure a quel colloquio si era presentata nel miglior modo possibile: un filo di trucco, scarpe con mezzo tacco, tailleur dai giusti colori, capelli in perfetto ordine. E dunque dove aveva sbagliato perchè non riusciva a contenere quell’uomo. Il suo modo beffardo di guardarla, le smorfie rapide che gli attraversavano il volto quando lei cortesemente invano tentava di interromperlo, i gesti veloci delle mani che dirigevano, come un direttore d’orchestra puntiglioso, ogni suo impercettibile movimento. Lei, ormai le gambe serrate, il viso contratto, gli occhi sbarrati davanti a un televisore al plasma, acceso ma con l’audio al minimo, trovava la sua salvezza, la sua unica fuga, guardando le immagini dei giovani ballerini dai movimenti leggiadri trasmesse in quel preciso momento. Non era chiusa lì dentro ma ballava con loro, leggera, libera, eterea, bianca. Un colpo di tosse. Il colloquio era finito, una stretta di mano, fredda, rigida, formale e finalmente via, via da quella stanza asettica di un Palazzo Comunale, denominato Minotauro, sempre più simile al castello kafkiano, via da lui, calcolatore elettronico vivente, via da quell’imbarazzante situazione, che come una museruola le aveva impedito di parlare, di esprimersi. Lei non aveva potuto dire la sua, chi lo avrebbe mai creduto? Una volta fuori, una brezza primaverile le aveva ridato il colorito e le forze. Era tornata sé stessa. Un sorriso sarcastico le attraversò il viso alla fine comunque aveva fatto la scelta migliore, sorridendo ed incassando, aveva concluso quel colloquio nel migliore modo possibile. Se mai lo avesse incontrata avrebbe fatto finta di non vederlo, non era il suo stile, ma il rispetto dell’altro è il fondamento del vivere civile e lui le aveva dimostrato di non mostrarne affatto. Lui, il tanto sicuro di se, aveva esordito il colloquio presentandosi con la sua laurea -poverino, di lauree lei ne aveva ben due- eppure non si sarebbe mai sognata di precedere il suo nome e cognome con un titolo. Nel momento che lui lo aveva pronunciato le era venuto in mente il divertente Ragioniere Fantozzi Ugo. Come dire prima l’apparire, il ruolo, il titolo di studio poi l’essere persona, l’essere umano. Ancor peggio il seguito del colloquio lui aveva iniziato a paragonare la sua vita all’insegna dello studio, della fatica, dei sacrifici dando per scontato che per lei la vita era stata tutta rosa e fiori. Non la conosceva, non sapeva nulla di lei, ma era comunque il più bravo, il più onesto, il più intelligente … Beh, lei aveva iniziato a lavorare l’estate del suo primo anno di liceo, grazie ai lavoretti che trovava proprio in estate, babysitter, dog-sitter, commessa, cameriera, barista, cassiera, vigile urbano, si era mantenuta sino alla prima laurea. Aveva poi continuato a barcamenarsi in due o tre lavori, studiando e crescendo due figli. L’incomunicabilità tra di loro infine raggiunse un non ritorno quando lui a dispetto di ogni regola di bon ton tra esseri umani l’aveva accusata di inseguire utopie. Ma chi era lui per dire a lei cosa doveva fare o non fare nella e della sua vita e segnare le sue scelte con la parola chimera. Ancora una volta lui esprimeva sentenze affrettate e approssimative su di lei senza alcun riguardo della sua storia, di tutte le prove che la vita le aveva presentate nel suo cammino e che lei a modo suo aveva superato. Una volta fuori più rimuginava sull’accaduto più era arrabbiata ma era certa che nulla di simile sarebbe mai più successo nella sua vita e che di fatto con il suo comportamento distaccato e composto era stata brava, molto brava, proprio brava, addirittura diabolica. Lei gli aveva dimostrato tutta la sua indifferenza e finanché il suo disprezzo. Erano trascorsi tanti anni ormai quel colloquio era solo un brutto ricordo che a volte le tornava in mente ma che lei riusciva subito a rimuovere. Quel pomeriggio alla Feltrinelli però, pur circondata da tanto affetto e ammirazione, con il suo romanzo in mano, non riusciva proprio a non pensare a quel lontano giorno, a quell’imbarazzante situazione che l’aveva spinta a scrivere, a raccontare. Aveva iniziato così a incontrare donne che avevano subito non solo violenza fisica, ma soprattutto psicologica, e avevano reagito, combattendo per la propria dignità. Racconti, romanzi brevi, testimonianze vere, a volte enfatizzate, che avevano in parte fatto giustizia a un’intera squadra di donne, eroine nella vita quotidiana. Il passaggio narrativo dalla terza alla prima persona era stato tanto automatico che il suo editore l’aveva chiamata in piena notte pregandola di rivedere quel suo ultimo romanzo, secondo lui molto interessante ma pieno di contraddizioni. Il suo vissuto prorompeva emotivamente e prendeva forma, una forma che andava a vuotarsi, o meglio, liberarsi in maniera catartica, eliminando i sensi di colpa, curando i problemi fisici e psicologici collegati allo stress, esfoliando il suo io dalla paura e dalla rabbia. Il successo era arrivato subito dopo la pubblicazione, a leggere quel suo romanzo in vetta alle classifiche molte donne ma anche tanti uomini. Forse tra di loro anche quel lui, chissà se si sarebbe riconosciuto?
“Dedicarsi alla scrittura significa, in ultima analisi, occuparsi della propria esistenza nella sua interezza” (N. Golberg)

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