Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2016 “Portami con te” di Sonia Farsa

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Lo portavi con te. Sempre. Ti accompagnava fedelmente nell’incedere deciso e fiero, celando il tuo sguardo rivolto in basso e tenendo alla larga il timore che avevi di disturbare con la tua sola ombra.

Ti rasserenava l’umore quando ti incupivi e a me concedevi appena poche frasi lapidarie e velate, quasi che parlare ti costasse dolore fisico: le labbra, che quasi mai sapevano trovar posa, vinte dall’urgenza frenetica dei tuoi pensieri, imparavano invece a essere asciutte e quiete. Ti rivedo ancora incrociare le gambe, sistemare il violino e, la tesa calata a non lasciar nudi il volto e lo sguardo pieno di lacrime, abbandonare le mani a ricamare il loro concerto, mentre tu vai via a legare la tristezza, l’amarezza e la delusione alle note che si librano nell’aria intorno perché si disperdano insieme nel vento. Era questa l’unica medicina capace di liberarti dalla cappa che ti oscurava l’anima. Alla fine del rito eri più leggera e non mi dovevi alcuna spiegazione, perché già sapevo. Che ti fossi confidata o non, mi bastava un’occhiata per intuire con cosa stavi combattendo dentro: in tutto il tempo insieme ho colto ogni minima sfumatura sul tuo viso. Nel frattempo ti eri protetta nel rifugio sicuro, l’amato cappello che neanche per un attimo è stato un semplice copricapo, ma sempre il tuo segno di distinzione, un prolungamento del tuo essere. E come tale l’hai curato, tanto che al ritorno a casa, chiusa la porta, non lo posavi dove volevi perché, dicevi, dovevano essere lui e il soffio del fato a scegliere ogni volta il nuovo nido. Così, chiusi gli occhi, lo lanciavi come a liberarlo e ritornavi a seguirlo solo per vederlo planare.

 

«Ti porterò con me!».

Quante volte te l’ho sentito pronunciare negli ultimi anni, mentre creavi vento e frenesia, sfrecciando per casa alla ricerca del bagaglio a mano da viaggiatrice “mordi e fuggi”!

«Un giorno di questi preparerò un’altra sacca e ti sfiancherò di parole, promesso, eh, tanto che riuscirò nell’epocale impresa di schiodarti da questa città, dal tuo lavoro e dalle tue innumerevoli e variegate corteggiatrici! Loro piangeranno disperate e singhiozzeranno distrutte, ma non moriranno per sette giorni di astinenza dal loro sciupafemmine e tu finalmente respirerai aria pura, la tua mente ti ringrazierà di concederle una momentanea pausa dalla produzione a catena di bugie a marchio D.O.C., Dubbie, ma Originali e Credibili!». E giù via a discettare a fiotti sulle sciocche frequentazioni che costellano la mia poco profonda vita privata. Mi confezionavi un lungo monologo, di cui mi concedevi abbonamento gratuito, senza chiederti, neanche una volta, se mai avessi voluto o gradito consigli del genere. Partivi in quarta e senza alcun freno, eppure, in fondo, a me piaceva ascoltarti: era un piacere infantile, come quando i bambini si tranquillizzano per incanto al suono della voce materna che narra storie e canta motivetti, senza comprenderne però il significato. Allo stesso modo, con finta attenzione, sentivo il tintinnio delle tue parole, senza ascoltare i tuoi discorsi. Mi piaceva la tua voce. Mi calmava. Mi faceva sentire a casa.

 

L’hanno portato qui.

Il cappello ha finalmente dischiuso le sue ali.

È arrivato oggi con quel che mi resta di te: ha l’aria abbattuta e spaurita da uccellino che ha perso lo sprone della mamma e non sa più come alzarsi in volo. Il tuo cappello grigio cenere è atterrato per riposare in quello che fino a ieri ha creduto il suo ultimo volo a smaltire la tua assenza e il suo abbandono: è qui, di fronte a me, accucciato sulla valigia che chissà se mai avresti avuto il coraggio di posare in un angolo. Non volevi proprio gettarla via: ripetevi sempre, a sua difesa, che era la spugna del tuo vagabondare, sporcata dalla terra di luoghi vicini o lontani, ma tutti sconosciuti, affascinanti, indimenticabili. Amavi follemente il tuo lavoro: era la tua passione, il tuo innamorato. Nonostante ti prendesse tempo ed energie, nonostante ti sballottasse intorno al globo, l’emozione di sentire sulla faccia il mare di sabbia sahariana e il poter descrivere il sole di mezzanotte ai lettori lasciando loro intuire la pelle d’oca attraverso la tua penna erano un elisir di fugace, immensa felicità. Il senso del tuo stare al mondo.

L’ultima volta che ho visto te e il fido cappello eri giusto in partenza per far sognare con la tua penna i lettori inchiodati, come me, alle loro terre, sprovvisti, sì, delle ali da viaggiatori incalliti, ma non di curiosità e voglia di evadere, anche se solo per qualche attimo nelle loro giornate logoranti e frenetiche, fra le bellezze naturali e architettoniche del mondo. Eri sulla porta e mi hai lanciato l’occhiolino dell’arrivederci… non potevamo ancora sapere che sarebbe stato un altro saluto, definitivo, inappellabile. Un addio.

Scusami se non ti ho lasciato andar via, non quando dovevi: avrei potuto urlare allora il tuo addio e non permettere che con il silenzio si espandesse intorno a noi fino al botto che ti ha dissolto. In un istante la casa si è svuotata della tua presenza ed è stato come scoprirmi sordo al risveglio: ho camminato per ore su tutte le piastrelle di ogni stanza, con l’ansia che accelerava i miei passi, cercando a vuoto la raffica di parole delle tue ansie da racconto o il violino che ha suonato i tuoi silenzi.

Ho continuato a sentirti negli ultimi tre mesi e, per tutto il tempo, non ho voluto arrendermi alla realtà. Non sono voluto andare oltre. C’eri ed eri tu, anche se ogni cosa, se tutto di te si era sbiadito. Il silenzio, franato su di te e sul nostro stare insieme, è di colpo rimasto orfano della sua melodia malinconica.

 

Lo porterai con te.

Fra un po’ il cappello spiegherà le ali. Adesso sono con lui sul ponte dove la nonna portava te e me, bambini, a far decollare gli aeroplanini di carta così che raccontassero al cielo quei desideri di cui non si vuol parlare a nessuno. Io ne ho espressi a valanga nei mesi scorsi, però so già che l’ultimo nato non troverà orecchie: non puoi tornare indietro da dove sei. Lascerò, come te, che sia lui, complice il destino, a tracciare il proprio cammino. Qui, ha portato a termine i suoi compiti, fino alla fine, fino al momento della tua morte in un assurdo incidente di un’assurda giornata, tre mesi fa. A oggi non ero affatto pronto ad accettare la tua scomparsa. L’ho fatto in questi ultimi ottantasette giorni, nell’attesa che una parte di te venisse a darmi quell’addio che ci è stato rubato, e ora, mentre guardo anche il tuo cappello volar via da me, gli sussurro: grazie! Grazie di averci fatto restare ancora un po’ insieme! I miei occhi lo seguono cavalcare, assecondandolo, il soffio del vento e so già dove la corrente lo porterà. Lo porterà da te. In qualche posto del mondo in cui hai lasciato una traccia, dove la tua presenza è ancora viva, calda, avvolgente. Dalle mie corde vibra il suono di un desiderio: vorrei che il cappello mi portasse con lui, perché avrei voluto che tu mi portassi con te. Non c’è addio che tenga tra noi, non può esserci.

 

PORTAMI CON TE!

Non so dove puoi essere ora, dove ci si rallegra del tuo essere, non so come sei adesso, non so che fai, so che non sei più carne, ossa e sangue, so che non posso unirmi a te, ma so che ci sei, sento che ci sei. E allora ti ripeto: “portami con te!”. Lasciami essere parte di te, di nuovo. Come quando, minuscoli e buffi, dividevamo il ventre della mamma. Lascia che io non ti perda completamente. Lascia che ti percepisca accanto a me, a lavoro. Lascia che ti riconosca nel buio darmi la buonanotte. Lascia che senta il tuo abbraccio nelle notti faticose, strette tra ansie e delusioni. Lascia che possa dirti sempre ti voglio bene e mai che mi manchi.

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4 commenti »

  1. Non è un racconto, ma uno straziante e bellissimo addio.

  2. Il lutto è uno strano spartiacque: con il tempo, lentamente, ci fa capire che non dobbiamo più rammaricarci per quello che non avremo più, ma ci farà ringraziare per quanto abbiamo avuto… Complimenti per il tuo racconto profondo e toccante.

  3. Il tuo racconto lascia uno strano sapore che si confonde con la voglia di rileggerlo.

  4. “Portami con te” è ciò che sussurra il tuo racconto al lettore, rimane davvero con te.
    Un viaggio nostalgico e ricco di sensazioni, così vicine, soprattutto per chi ha provato cosa vuol dire perdere una persona tanto amata.
    Complimenti.

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