Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2015 “Giornata Piena” di Paolo Boni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

La sveglia suona alle otto.
Prima del terzo squillo, ho già premuto il pulsante dello spegnimento e sono sceso dal letto. Non sono uno di quei tipi che di mattina ha bisogno di vegetare venti minuti nel letto, sospirando e producendo quel particolare suono strozzato così simile ad un coitus interruptus. Grazie a questa mia caratteristica posso permettermi di alzarmi alle otto, uscire di casa alle otto e mezza ed essere al lavoro tra le otto e quaranta e le nove meno dieci, a seconda del traffico.
Seguo la mia routine mattutina con precisione meccanica: appena esco dalla mia camera, metto su il caffè che poi bevo insieme a del latte freddo; poi mi ficco sotto la doccia dove non resto mai più di cinque-sette minuti. Porto appositamente i capelli corti per evitare la perdita di tempo di asciugarli. In seguito mi vesto senza far troppo caso a quello che metto, anche perché i miei vestiti sono praticamente tutti uguali. Potrei prendere ad occhi chiusi un qualsiasi paio di pantaloni ed un maglione a caso e nel complesso sarei sempre vestito nella stessa rassicurante e piatta sobrietà.
Salgo in macchina ed esco dal cancello.
Il negozio dove lavoro è situato in una zona leggermente più periferica di quella in cui abito, quindi ho la fortuna di andare nel senso opposto all’enorme flusso mattutino della città, tranne che per un breve tratto. Ed è questo breve tratto che determina la mia oscillazione dell’orario d’arrivo al lavoro. Questa mattina il traffico è più intenso del solito e mi ritrovo imbottigliato. La cosa mi rende nervoso.
Sono in ritardo.
Impreco sotto voce, inizio a muovere ritmicamente le gambe.
Finalmente giro a destra ad un semaforo mentre tutti proseguono dritti, incolonnati. Ho oltrepassato il tratto di traffico comune, ora devo solo muovere le chiappe.
Divoro l’asfalto. Qualche testa di vecchietta si gira a guardare il giovane che sfreccia in quel modo insensato. Finalmente arrivo al lavoro, benedicendo nel frattempo il parcheggio privato del negozio (un passo carrabile con un vialetto) che mi evita la ricerca infinita del parcheggio mattutino. L’orologio della macchina segna le 08.48.
Non sono in ritardo, ma non sono neanche in orario. È una situazione ricorrente per me.
Al momento ho altro a cui pensare.
La serranda della libreria è mezza abbassata.
Si apre alle nove.

Il negozio ha due piani di cui solo uno affaccia sulla strada. Una volta entrati, si scende una scala e si accede al piano inferiore dove trovo il Capo, chiuso in un piccolo ufficio. Sta scrivendo cifre su dei grossi quaderni. Come sempre. Si chiama contabilità. Non capirò mai come funziona. Mi affaccio e sporgendomi dalla ringhiera dico buongiorno.
Dall’ufficio proviene un grugnito che può essere una risposta al mio saluto, la rimozione di un grumo di catarro o l’imitazione del verso che emette il falco pellegrino durante la stagione degli accoppiamenti.
Penso di essere arrivato in ritardo e che gli abbia fatto girare le palle.
Per la precisione al Capo sembra sempre che girino le palle e questo, lungi dall’avermi abituato, mi tiene in uno stato di tensione continua con picchi di paranoia come quello di stamattina. Per difendermi erigo un muro di rancore a cui non credo io per primo.
Cristo santo, penso, ma perché non può salutare come le persone normali? Si, sono arrivato un po’ in ritardo e allora? E poi, chi ha deciso l’orario? Io non ho orari fissi, non ho un cartellino da timbrare, lavoro in nero da tre anni. Che cazzo pretendi? Dimmi qualcosa, se c’hai le palle.
Rimuginando cattiverie varie, mi accingo alle varie operazioni che precedono l’apertura della libreria. Sono efficiente e veloce e in cinque minuti ho acceso il computer e il registratore di cassa, ho alzato la serranda e messo fuori i cartelloni delle ultime novità. Alcuni di questi sono di forma cilindrica ma con le basi ellittiche. In questo modo possono reggersi in piedi senza dover essere appoggiati da qualche parte. Si chiamano “totem”.
Non so quanto ironicamente.
Mentre attendo che il Capo salga, do un occhiata in giro per sistemare eventuali libri fuori posto. Non ce ne sono.
Finalmente il mio capo arriva. Mi sposto dal bancone con la cassa per farlo passare. Non mi dice nulla, non sembra arrabbiato. Non più del solito.
Scendo le scale.
Al piano di sotto, sono solo in mezzo ai libri e mi rassereno un minimo. Tra poco devo di nuovo salire in macchina per andare dal grossista e, una volta fuori di qui, mi lascerò alle spalle la prima paranoia della giornata. Alcuni libri ce li mandano, altri li devo andare a prendere. Non mi è molto chiaro il meccanismo che c’è dietro ma non mi sono mai posto il problema. Se avrò fortuna non dovrò neanche parlare con nessun cliente prima di ripartire. Dopo si. Dopo non c’è scampo, ma le mattine in cui devo “fare i giri”, come vengono chiamati i chilometri dal negozio al grossista, praticamente vengo per aprire il negozio, cazzeggio per una mezz’oretta scarsa e poi mi rimetto in macchina.
Dal piano di sopra sento la porta automatica aprirsi. Un cliente. Sbuffando mi siedo dietro al bancone col computer (ce n’è uno anche al piano inferiore) per dare una parvenza di professionalità. Non è detto che il/la cliente debba scendere ma un breve dialogo tra il Capo e il/la tizio/a in cui distinguo le parole “piano di sotto” mi smentisce.
È una donna.
Il suono dei tacchi di mattina mi infastidisce profondamente. Ogni passo di quella camminata pesante e insieme frettolosa mi rimbomba nel cervello. Ogni scalino che scende, mi strappa una smorfia di fastidio. La scala è alle mie spalle. Potrei girare la testa per vedere che aspetto abbia e magari dire buongiorno ma non lo faccio. Di mattina sono molto lento a far carburare la mia educazione.
Fisso lo schermo senza guardare realmente nulla su di esso.
Giunta al termine della scala, la signora muove la testa in molte direzioni tranne la mia e, sempre senza guardarmi, dice:
– Scusi, guide turistiche?
Ciancica una gomma, la sua pelle è marrone da quanto fondotinta ha in faccia e, d’improvviso, mi assalgono zaffate di almeno tre diversi prodotti di bellezza che insieme producono un afrore chimico che, eufemisticamente, il mio naso registra come “sgradevole”.
– In fondo alla scaffalatura sulla destra, signora. – Rispondo puntando col mio dito indice il settore.
Scaffalatura . . . che strabiliante termine tecnico! Sono sicuro che la signora è intimidita dalla mia professionalità. Segue con la testa la direzione indicata dal mio professionale dito e si avvia con passo rimbombante e deciso.
Spero con tutto me stesso che riesca a capire che le guide sono in ordine alfabetico.
– Scusi . . .
Cazzo.
– Ah no, eccola!
Ci sei arrivata, i miei complimenti.
Ora levati dalle palle.
– Per pagare di sopra, vero?
– Si, signora.
La cliente risale. Le conseguenze acustiche delle risalita mi sembrano meno fastidiose della discesa, in parte perché mi sono abituato, ma soprattutto perché i suoi tacchi si allontanano invece di avvicinarsi.
Guardo l’ora sul computer. È un po’ presto ma voglio uscire dal negozio. Pensare che ci sono dentro da neanche mezz’ora.
Tendo l’orecchio e appena sento che la signora GuideTuristiche è uscita, salgo le scale.
Il Capo fissa lo schermo con aria estremamente concentrata. È probabile che stia giocando al solitario sul computer.
Dico:
– Io vado, che stamattina c’è traffico.
– Va bene. – Mi risponde senza alzare gli occhi dallo schermo.
Non mi sono neanche levato la giacca quando sono arrivato, quindi esco immediatamente.

Salgo in macchina e metto in moto. Ora del traffico non me ne frega molto. Anzi, più ne incontro più tardi rientrerò in negozio.
Basta cambiare prospettiva e perfino la marea di lamiere che si abbatte ogni giorno sull’asfalto ha i suoi aspetti positivi.
Mi attendono svariati chilometri di puro automatismo. Le prime volte che facevo “i giri” riempivo le mie lunghe permanenze in macchina ascoltando musica. Addirittura sceglievo appositamente una selezione di dischi da ascoltare, uno per ogni viaggio. Pensavo che avrei potuto sfruttare il fatto di dovermi chiudere in macchina per allargare le mie conoscenze musicali. Ora mi limito a spegnere il cervello e gli unici suoni che disturbano il mio stato di stand by cerebrale sono i rumori del traffico e qualche mio occasionale peto.
Stando in macchina, divento una macchina.
Ma non durerà, purtroppo. Capita sempre qualcosa che mi fa ricominciare a pensare.
Questa mattina sono fortunato e arrivo dal grossista senza che nulla turbi il mio stato di torpore meccanico, che mi accompagna fedelmente anche mentre ritiro i miei libri, li metto in una scatola di cartone, firmo la fattura e risalgo in macchina.
Sulla via del ritorno non trovo molto traffico ma non mi lamento. Sono già abbastanza soddisfatto perché metà mattinata è andata e, una volta rientrato, dovrò caricare i libri, il che mi terrà occupato un altro po’ e, se tutto va bene, arriverò indenne al miraggio chiamato “pausa pranzo”.

Rientro e trovo il Capo che parla con un cliente, un signore molto distinto. Stanno maneggiando un libro fotografico. Bei soldoni.
I modi del Capo sono un mix perfetto di gentilezza ed affabilità. Sorride, gesticola e mostra la sua competenza con quella sicurezza sottilmente ostentata che crea nel cliente la sensazione temporanea di potersi fidare.
Tiro dritto senza parlare per non interromperli.
So essere talmente discreto da sfiorare l’invisibilità.
Carico i libri. Al piano di sotto, il mio piano, si sente solo il rumore del lettore del codice a barre che, azionato da me, emette il suo caratteristico bip. Ho quasi finito di mettere gli arrivi di oggi negli scaffali, quando si materializza ciò che temo di più.
All’inizio sento il rumore di un passo su uno scalino.
Attendo che arrivi il secondo e il tempo che passa prima che ciò avvenga mi fa voltare la testa. Ed è allora che la vedo.
È una vecchietta.
Forse l’archetipo di ogni vecchietta. Capelli bianchi, un cappotto scuro, una borsa in cui neanche un archeologo oserebbe guardare. Scende le scale con una lentezza esasperante. Posa entrambi i piedi su uno scalino prima di passare al successivo.
A metà scala inizio a sentire il suo respiro rantolante ed affaticato.
L’attesa prima che si rivolga a me (perché mi parlerà sicuramente) è colma di nervosismo.
É come essere condannati e vedere il proprio carnefice che si avvicina piano piano, senza poter fare niente.
Si, sono un po’ esagerato.
Bofonchiando qualcosa riguardo ad un ascensore, giunge davanti al bancone, dietro a cui guardo lo screensaver del computer con aria concentrata. Si guarda intorno e poi si rivolge a me, formulando un’anatema che mi getta nello sconforto.
Dice:
– Scusa, ti do del tu perché potresti essere mio figlio, io ho un nipote di quattro anni e vorrei regalargli un libro, un bel libro. Magari qualcosa con degli animali oppure una storia, che ci si diverte però impara pure qualcosa, non troppo grande perché con quelle manine . . . hai capito, no? Un libro che sia pure un gioco che però impara pure qualcosa, da spenderci una diecina di euro.
Rimango un attimo in silenzio.
Diecina di euro. Che fastidio, cazzo.
Lei alza gli occhi su di me. Spero non mi si legga in faccia ciò che penso, mentre guardo la ragnatela di rughe che solca il suo volto.
Se mi avesse chiesto un farmaco miracoloso che donasse la vita eterna e contemporaneamente curasse la calvizie, sarei rimasto meno atterrito. Vorrei precisare che non sono uno di quei commessi che considera ogni cliente una interruzione al proprio cazzeggio su internet; sono così interdetto solo perché so cosa sta per accadere.
Ed infatti accade.
– Si signora, – rispondo facendomi forza, – Le faccio vedere.
Prima ancora che tiri fuori un qualsiasi libro da uno scaffale mi interrompe chiedendomene il prezzo. Quando il prezzo sembra andare bene, mi interrompe nuovamente quando sto per mostrarle il libro.
La cosa ironica è che mi interrompe proprio per chiedermi di mostrarle il libro in questione.
Sono svariati minuti che non riesco a terminare una frase di senso compiuto, interrotto continuamente dai suoi “quanto costa?” e sto diventando seriamente nervoso.
Nell’uomo, il centro del linguaggio è situato nella terza circonvoluzione del cervello. evidentemente le poche sillabe che escono dalla mia bocca non riescono a raggiungere quello della cliente; immagino si perderanno da qualche parte nelle prime due circonvoluzioni.
Penso.
Penso che sarebbe proprio bello comunicare alla vecchietta la mia opinione in merito al libro per suo nipote. ”Signora, suo nipote presto diventerà un adolescente, si inizierà a drogare, penserà al sesso e del suo libro se ne sbatterà allegramente. Anzi, se ne sbatterà anche di lei, signora. E se mi interrompe un’altra volta, quantèveroiddio, la mando a fanculo con quanto fiato ho in corpo, così le darò una ragione vera per lamentarsi dei giovani d’oggi.”
Penso che urlare alla vecchia di andare a fare in culo, sarebbe proprio bello.
Mi sto scaldando troppo.
Mi accorgo che sto respirando rumorosamente e stringendo il libro in maniera eccessiva. Che cazzo ho oggi?
Mi calmo, inspiro ed espiro sempre più lentamente e continuo la mia pantomima colla vecchietta, sforzandomi di pensare che prima o poi troverà un libro che le vada bene, oppure se ne andrà, oppure avrà un ictus e si accascerà al suolo.
Tutte e tre le opzioni mi soddisferebbero allo stesso modo.
Infine, la vecchia signora sembra optare per un libro cartonato, di quelli con i pulsanti che fanno i versi degli animali. Non va bene per un bambino di quattro anni, ovviamente. È superato per quell’età.
– Questo va bene, vero? Mi sembra carino. – Mi dice la vecchia.
– Si signora, è adattissimo.
Chissà perché i clienti hanno bisogno di essere rassicurati. Non ti ascoltano quando parli ma quando scelgono qualcosa hanno sempre bisogno della spintarella finale.
Cazzo, è ovvio che ti dirò che va bene. Basta che ti levi dalle palle.
– Mi fai un pacchetto regalo?
– Al piano di sopra, signora.
Mi risponde con un verso affermativo e si accinge alla sua dolorosa risalita.
Guardo l’ora. 12.53.
Mando un sospiro di sollievo. Ce l’ho quasi fatta.
Dopo pochi minuti, puntuale come sempre, il Capo si affaccia e dice:
– Sali, che vado.
Nella sua lingua fatta di monosillabi catarrosi vuol dire “ stai tu in cassa mentre vado a mangiarmi qualcosa”.
– Subito. – Rispondo.
Ovviamente il negozio fa orario continuato ma nelle ore postprandiali ho il permesso di andare a casa per mangiare e rilassarmi un po’. Il Capo può rimanere da solo nelle ore morte della giornata.
Salgo le scale, mi metto dietro il bancone e guardo fuori. Fisso il traffico ed i passanti.
Ho talmente tanta voglia di andarmene da qui che ogni fibra del mio corpo vibra, protesa a montare in macchina.
Il Capo pranza in una tavola calda vicino al negozio dove è cliente abituale. Non ci mette molto a tornare.
Per me è comunque troppo.
Non appena rientra, mi metto il cappotto e dico:
– Vado. Ci vediamo fra un po’.
Aspetto il grugnito di risposta e mi fiondo in macchina.

Mentre parcheggio e scendo dalla macchina, tento di non pensare che ho quasi trent’anni e vivo ancora coi miei. Ho molte attenuanti ma se le analizzo in maniera obbiettiva non mi convincono molto.
C’è la crisi.
Va bene.
Non c’è lavoro.
Va bene.
Avere cazzeggiato fino a ventisei anni.
Non va bene.
Non avere capito cosa devi fare nella tua vita quando sei ormai giunto a metà della tua esistenza.
Non va decisamente bene.
I sex pistols dicevano: “non so cosa voglio ma so come ottenerlo”.
Beati loro, io non so cosa voglio e tantomeno so come ottenerlo. In realtà neanche mi sforzo, vado avanti per inerzia aspettando qualcosa, non so cosa.
Sono tanto lucido nell’individuare il problema quanto incapace di risolverlo.
Apro la porta.
Mia madre sta parlando al cellulare, per lavoro probabilmente. Il suo tono è deciso e sicuro. Lei sa molto bene cosa vuole e sa come ottenerlo ma i sex pistols non sa neanche chi sono.
Non gliene faccio una colpa, mica è obbligatorio.
Mi fa un cenno con la mano a cui rispondo con un sorriso teso.
In cucina trovo mio padre davanti ai fornelli.
– Quasi pronto. – Dice.
Mio padre ha i capelli bianchi e la pelle delle sue mani sembra cuoio. Quando parla, guarda fisso davanti a sé, sembra non rivolgersi mai a nessuno in particolare.
D’un tratto, realizzo che non so di che colore sono gli occhi di mio padre. O meglio, sono sicuro di saperlo ma non me lo ricordo e, non so perché, non mi è mai sembrato importante fino ad oggi, fino ad ora. La cosa per qualche motivo mi colpisce profondamente. Mi ritrovo a fissarlo con uno sguardo che suppongo essere triste finché lui non se ne accorge e mi fa un cenno interrogativo con la testa.
Scuoto la testa, come a dire “non è niente”.
Ci sediamo a tavola e mi avvento sul cibo col mio consueto appetito compulsivo. Per un po’ si sente solo il lavorio delle mascelle (le mie soprattutto) ed è bellissimo.
Poi mia madre dice:
– Come è andata al lavoro oggi?
E quel magnifico silenzio si interrompe.
Quando mia madre pronuncia la parola “lavoro” riferita a me, c’è sempre una sfumatura strana nella sua voce, quasi ironica. Non è un segreto che mia madre si aspettava qualcosa di meglio per me.
È la solita storia. Fino a un certo punto ti dicono “puoi fare quello che vuoi” oppure “basta che trovi qualcosa che ti piace e per me va bene”.
Passata questa fase, si inizia con “quando ti trovi un lavoro?”, “perché non pensi al tuo futuro?” o la mia preferita “vuoi rimanere a casa con noi fino a quarant’anni?!”.
Capisco che per i miei genitori, partiti dal nulla della provincia rurale e arrivati con fatica ad una classe medio-borghese, vedere il proprio figlio che per inerzia compie il percorso inverso, possa essere avvilente. In rari momenti di lucidità non gliene faccio neanche una colpa; è ovvio che chi ha lavorato tutta la vita per la fame, non può concepire che un individuo si realizzi se non col lavoro, col guadagno, con dei contributi versati da qualcuno, col diventare membro attivo della società.
Il problema è che quando dicono “membro attivo”, la mia prima associazione d’idee è il pene. Un pene attivo.
Dunque non riesco proprio a prendere sul serio questa faccenda.
C’è chi dice “Non farò mai parte del sistema” oppure “non mi avrete mai come volete voi”. Io non sono uno di quelli.
“Non mi avrete mai come volete voi”? Ma voi chi? Ma chi ti vuole?
Io ho almeno il buon gusto di non mascherare la mia immobilità cerebrale dietro la facciata di una scelta politica.
Ci tengo a precisare che io non faccio parte del sistema, non per un mia scelta personale ma per inettitudine. La buona, vecchia, cara inettitudine, moglie premurosa del fancazzismo, compagna silenziosa ma sempre più ingombrante delle mia vita.
Ehi, ma mica è colpa mia se sono un inetto! O forse si?
Non mi sembra neanche di essere stato un bambino prodigio per alimentare tutte queste aspettative.
Non si può mai stare tranquilli. Neanche mentre si mangia.
– Ehi, mi hai sentito?
Mia madre mi riscuote dal turbine di pensieri.
Sto perdendo colpi. Di solito riesco ad arginare i miei deliri in tempo utile per rispondere a chi mi parla. Devo concentrarmi di più. Che cazzo ho oggi?
– Si mamma, scusami. Tutto bene, niente di che.
– Hai trovato traffico?
– Il solito, niente di che.
– Bene.
E pretendono che vada via di casa! Ma come potrei fare a meno del piacere di conversazioni come queste!

Risalgo in macchina. Si torna al lavoro. Evviva.
Mentre guido un ricordo emerge all’improvviso: mesi fa, in una pausa pranzo sono in un parco. Mangio un panino seduto su quelle panchine di legno coi tavoli che fanno molto picnic. C’è il sole, si sta bene. I bambini giocano.
D’un tratto sento qualcosa che tocca la mia gamba. La testa di un serpente sbuca da sotto il tavolo.
È un serpente di plastica; una bambina è sgattaiolata sotto al tavolo e mi ha voluto fare uno scherzo.
Non dimostra più di quattro anni. Ha i capelli biondo cenere e gli occhi azzurri, due guance paffutelle ed un sorriso innocente e birichino allo stesso tempo.
I suoi occhi mi sorridono. La guardo sorridendo a mia volta.
Mi sembra che tutto ciò che di bello e puro c’è nel mondo sia concentrato in quel momento ed in quella bambina che mi sorride. E io vorrei dirle qualcosa, farle una carezza, strapparle una risata. Partecipare alla bellezza di quel momento.
Ma non faccio niente, la fisso e basta col mio sorriso ebete.
Dopo un po’ un grido distoglie la sua attenzione da me. La madre la chiama. Se ne va.
La seguo con lo sguardo. Lancio un sorriso incerto alla madre, come a dire “non si preoccupi, non mi disturbava affatto” ma la donna sembra non riuscire a mettermi a fuoco.
Poco male ci sono abituato.
Penso che quando sei felice non te ne accorgi; ti accorgi di essere sereno, quello si, ma non felice. Non felice di quella felicità che appaga. Sereno, certo, ma pensi che devi tornare al lavoro, che sei stanco, che hai il mal di testa, che non vuoi fare questo ma lo devi fare, che vuoi fare quello e non lo puoi fare. E allora capisci che i momenti felici diventano felici solo quando li ricordi e mentre li vivi sei troppo preso da altro per accorgertene. Oppure sei oppresso dalla consapevolezza che ciò che comunemente si chiama felicità solitamente non dura. È il mio caso.
E allora come si fa?
Cosa si fa?
Non lo so; ma soprattutto che cazzo mi è preso oggi?
Mi squilla il cellulare. Un messaggio. È Giada.
Il messaggio è telegrafico ed enigmatico insieme. Dice: “Che fai stasera? Io sto a casa”
Giada non è la mia ragazza. A volte usciamo. A volte scopiamo. A volte lei si scopa qualcun altro. Dovrei terminare dicendo che anche io a volte mi scopo qualcun’altra ma, ahimè, così non è.
Un’ultima cosa.
Giada è la figlia del Capo.
Il Capo non sa di me e Giada, ovviamente.
Già. Bel casino.
Tesoro, lo sai che stasera ho le prove. Perché me lo chiedi? Vuoi farmi scegliere? Non hai nessun altro da chiamare? Che risposta devo darti?
Stasera ho le prove, scrivo, se finisco presto ti chiamo.
Premo invio.
Tempo dieci secondi e mi risponde. Dita veloci.
Se riesci a passare, mi farebbe molto piacere . . .
I tre puntini di sospensione mi mandando in orbita.
Penso: forse il piacere sarà reciproco.
Penso: forse potrei andarmene via prima dalle prove con una scusa.
Penso proprio che lo farò.

Rientro in negozio. Le prime ore pomeridiane sono le più belle. Non viene nessuno e posso concentrarmi sulla mia attività preferita: rimuginare nefandezze contro il mio prossimo.
Non lo faccio apposta. Sono solo una persona rancorosa.
Si avvicina l’ora delle uscite dalle scuole.
Quindi bambini urlanti; quindi madri che starnazzano beate; quindi gelati sbavati i cui residui rimarranno ad abbellire parecchi libri in eterno senza che io possa farci niente.
Già, perché non puoi dire a nessuna signora: scusi, sottospecie di porno attrice mancata potrebbe far caso a suo figlio che sta smanacciando/sbavando/sporcando/danneggiando i libri?
Non si può; perché i clienti portano i soldi.
I soldi.
Rimani aperto dodici ore al giorno per i soldi. Sopporta ogni genere di becera maleducazione per i soldi. Apri la domenica per i soldi. Ingoia ettolitri di merda per i soldi.
Sorridi sempre per i soldi. Travasa tutti i tuoi attacchi di bile, per i soldi.
Scatta, corri, suda.
Per i soldi.
I soldi.
I soldi . . .
Forse il mio problema è che a me piacciono i libri. Non vendere i libri.

Si fanno le sei. Da adesso in poi odierò incondizionatamente ogni persona che si presenterà davanti a me, perché vuol dire che i suoi orari di lavoro sono migliori dei miei.
Anche se è un vecchio in pensione.
Anche se è un bambino che va a scuola.
Anche se è un disabile sulla sedia a rotelle.
Proprio così.
Per arginare la mia ostilità, eseguo mentalmente un esercizio che mi aiuta a mantenere la mia professionale apparenza.
Ad ogni cliente che mi rivolge la parola associo un’arma bianca. Ne conosco tantissime.
Ma non c’è nulla di violento dietro.
Assolutamente no . . .
È una giornata piena; in pochissimo tempo esaurisco tutte le armi convenzionali e devo darmi ai virtuosismi:
– Scusa, checcellhai er bignami de filosofia dell’ultimo anno?
Ascia bipenne.
– Salve, volevo un libro per un bambino che fa la prima comunione. Mi raccomando economico che non lo conosco bene.
Daga.
– Senti giovane, mi servirebbe un fascicolo, un opuscolo, un qualcosa con l’ultima legge del condominio. Aggiornato però.
Tomahawk.
– Ah, che c’ha dizionalio lingua inglese?
Naginata. ( Arma tradizionale giapponese, simile ad una lancia; non ditemi che non lo sapevate).
– Ammazza quanto costa sto dizionario di latino! Ma poi che ce devono fa’ cor latino, è sempre lo stesso da dumila anni! Mamma mia, ma io lavoro tuttorgiorno pe’ davve’ li sordi così! Lasciamo sta’, va’. Tanto te che ne sai . . .
Per quest’ultimo esemplare scruto nel mio archivio. Serve qualcosa di sottile, di raffinato.
Ed ecco giungere una reminiscenza salgariana perfetta.
Il kriss. (Corto pugnale dalla lama ondulata).
Impugnando mentalmente il mio kriss, rispondo:
– Mi dispiace, signore. Purtroppo i prezzi dei dizionari sono questi.

Arranco faticosamente verso l’orario di chiusura. Ci siamo quasi.
19.52.
Tra un minuto inizierò le operazioni di chiusura.
Ma sento la porta automatica aprirsi al piano di sopra. Un rumore di tacchi rispetto al quale quello di stamattina sembra una melodia di flauto traverso.
La signora ha fretta. In fin dei conti è tardi per tutti.
Sento tintinnare tutti i ninnoli che porta sparsi sulla sua persona.
L’ultima (spero) scassapalle della giornata è tinta di biondo, molto truccata e con un sorriso ebete mi lancia un foglietto di carta sul banco poi inizia a smanettare sul suo smart phone. Non ha pronunciato una parola.
Io guardo il foglietto, poi guardo lei.
Lei guarda il suo cellulare poi guarda me.
Squittisce:
– Guarda, sta scritto lì il libro. Io manco so che c’è scritto. Ah ah.
E subito il suo sguardo si aggancia nuovamente al suo touch screen da 4.7 pollici, 1334 x 750 pixel di risoluzione.
Cristo.
Con le mie ultime energie mentali afferro il pezzo di carta e leggo.
Ci sono scritte quattro parole.
Il fu Mattia Pascal.
Schiaccio il foglio.
Penso: brutta cagna, non c’è scritta una parola tedesca impronunciabile, un rebus in latino o la formula di un polimero.
È solo il titolo del romanzo più sputtanato della storia della letteratura italiana. Anche frequentando cinque anni di un qualsiasi liceo con dei tappi nelle orecchie si viene a conoscenza quantomeno dell’esistenza di un libro chiamato “Il fu Mattia Pascal”.
Penso: questa è la volta buona. Manda a fare in culo questa stronza e lascia questo negozio, questa vita, tutto quanto.
La tentazione è forte. La mancanza di coraggio altrettanto forte.
Espiro. Butto fuori tutta l’aria.
Dico:
– Lo trova al piano di sopra. Tra i classici.
– Ah ok. – Squittisce nuovamente stridula.
Risale di corsa le scale.
Non appena esce dal negozio mi accingo a chiudere mentre il Capo fa i conti.
Spengo le luci ed il computer; rimetto i cartelloni ed i totem all’interno del negozio.
Perfino i simboli sacri devono riposare la sera.
La saracinesca si abbassa. Un’ultimo monosillabo catarroso mi congeda dal Capo.
Via libera verso la saletta.

La saletta è un box auto convertito a sala prove in cui, da anni ormai, suono il basso col mio gruppo.
Un tempo non facevamo altro che suonare, sicuri del fatto che non avremmo fatto altro tutta la vita.
Adesso suoniamo una volta a settimana perché passiamo tutta la vita a fare altro.
Parcheggio davanti all’entrata del garage e mi dirigo verso il mio pizzettaro egizio di fiducia.
Due euro di pizza con le patate, due peroni da sessantasei. Grazie.
Già pregusto la scarica di endorfine.
Come sempre, sono il primo ad arrivare nel box.
Stappo una birra, ne ingoio metà con un sorso. Azzanno la pizza che in due morsi scompare. Finisco la birra di getto.
Sparo un rutto di proporzioni bibliche e sorrido.
Guardatemi, sono il dio dei ribelli. Rutto senza vergogna in un box auto dentro un garage deserto. Sono il rock personificato.
Stappo l’altra birra e mi accendo una sigaretta. Mi siedo sul divano logoro della saletta.
Mi sento bene.
Da solo, con una birra in una mano e una sigaretta nell’altra, la testa ciondolante, mi sento bene finalmente.
Dopo qualche minuto arriva J., il chitarrista.
– Bella zi. Ne faccio una?
L’hashish potrebbe peggiorare il mio umore già paurosamente instabile; d’altronde mi garantirebbe un seducente temporaneo oblio.
Dico: certo.
J. è esperto, la canna è pronta in batter d’occhio. L’odore dolciastro del fumo penetra nelle mie narici provocandomi brividi in tutto il corpo.
Fumiamo in silenzio.
Poi arriva G., il batterista. Si finisce la canna e iniziamo a montare; siamo carichi, vogliamo suonare.
Suoniamo per un’ora e mezza di fila, rapiti, persi nel muro di suono. È la sensazione più bella che abbia mai provato. Indescrivibile a chi non ha mai preso uno strumento in mano.
Facciamo una pausa: quando tre maschi adulti si dimenano per un’ora e mezza in uno spazio angusto, l’aria diventa irrespirabile.
E mentre fumo una sigaretta accasciato sul divano, mi accorgo di un altro effetto collaterale che l’hashish mi provoca: i miei ormoni impazziscono.
Mi basta pensare brevemente al mio ultimo incontro con Giada che subito un’erezione pulsante mi gonfia i pantaloni.
Maledetta pubertà perenne.
Sospiro.
Dico: ragazzi, sto a pezzi. Mi sa che vi abbandono.
Non c’è problema, noi restiamo un altro po’.
Finisco la sigaretta ed esco.
Salgo in macchina. Scrivo a Giada: sto arrivando.
Dopo pochi secondi arriva la risposta: ok.

Arrivo sotto casa di Giada. Le mando un sms e rimango in attesa.
Dopo un considerevole lasso di tempo sento la serratura del portone scattare.
Ed eccola che arriva.
Corpo snello, carnagione scura, capelli castani e due occhi verde scuro, grandi, felini.
Giada . . .
– Ciao! – Esclama.
Ci diamo due insulsi bacetti sulla guancia.
– Ma perché puzzi sempre come un rumeno dopo che vai a suonare?! Mamma mia!
Gli spritz e i rum e coca li lascio a voi signorine, dico.
Sono il re delle frasi a effetto.
– Cretino. Com’è andata in negozio?
La mia sanità mentale vacilla sempre più e sto prendendo seriamente in considerazione l’idea di aggredire i clienti.
– Al solito.
– Devo dirti una cosa bellissima. Hai presente quel master a Madrid per cui avevo fatto richiesta insieme a Chicca?
No, proprio no.
– Si, mi avevi accennato qualcosa . . .
– Mi hanno preso! Parto dopodomani!
Mi hai fatto venire qui sotto solo per dirmi questo? Ti ricordi di me solo quando non hai altri stalloni liberi, tuo padre mi sfrutta da tre anni e oltretutto devo anche stare a gioire dei tuoi traguardi professionali?!
– Beh, complimenti. – Riesco a dire.
– Almeno una volta nella vita potresti mostrare entusiasmo per qualcosa, lo sai?
– Scusami, oggi sono un po’ fuori fase. A tal proposito, se non hai altro da dirmi io andrei a dormire.
– Che c’è? Sei triste? – Dice maliziosa, – Starò via molto tempo. Non vogliamo andarci a fare un giretto insieme per l’ultima volta?
Non sono triste, tesoro. Sono un po’ incazzato. Soprattutto perché non riuscirò a dire no a ciò che mi stai offrendo.
– Se proprio insisti . . .
Mi avvio verso la macchina, lei mi segue.
Ma poi mi fermo.
– Sai, forse è meglio di no. In effetti sto davvero a pezzi. – Dico.
Bravo, ragazzo.
Giada sgrana gli occhi.
– Del resto a Madrid non ti mancherà certo la materia prima. – Concludo sorridendo.
– Sei proprio un coglione!
Ben detto.
– Grazie, altrettanto. Un saluto a papà. – Le rispondo mentre torna sbattendo i piedi verso il suo portone.
Risalgo in macchina.

La strada è buia. Guido, la testa attraversata da milioni di pensieri.
D’improvviso, la consapevolezza di non essere indispensabile per nessuno mi colpisce come un proiettile.
Se adesso io scomparissi, svanissi nel nulla, cosa succederebbe?
Qualcuno sarebbe triste, certo. Ma poi?
Ci sarebbe qualcuno che non potrebbe continuare a vivere senza di me?
Ha senso desiderare qualcosa del genere? Perché non riesco e definire me stesso se non in relazione a qualcosa o qualcuno?
Non rispetto una precedenza ad un incrocio.
Una smart inchioda. Io inchiodo.
Per un pelo non ci tocchiamo.
Il tizio nella smart abbassa il finestrino.
– Ah cojone, ma come guidi? – Dice.
Normalmente non risponderei ad una provocazione del genere.
Normalmente.
Abbasso a mia volta il finestrino e dico:
– Non c’è bisogno di fare il coatto, hai capito?
– Se c’hai le palle accosta, allora. – Risponde il tizio.
Poi mi supera e si ferma a lato della strada.
Sono ancora in tempo. Se proseguo per la mia strada di certo non si metterà a seguirmi.
Non ne varrebbe la pena.
Riparto e supero la smart.
Poi freno, metto la freccia ed accosto.
Scendo dalla macchina. Tremo.
Anche il tizio scende. Scuote la testa, incredulo.
Ha i capelli rasati ed indossa una tuta della As Roma.
Si avvicina ondeggiando. Mi soffermo sulle sue sopracciglia sottili, curatissime.
Ma solo a me sembra strano che i coatti siano così fissati con l’estetica? Mah.
Mister SmartAsRoma ha qualcosa in mano, sembra un oggetto metallico.
Un mazzo di chiavi, un coltello, un taglierino, una pistola.
In quel luccichio metallico io vedo finalmente una risposta, la mia via d’uscita.
E cosa fa un uomo quando finalmente scorge una via d’uscita?
Beh, ci corre incontro.

Riprendo conoscenza. Il mondo attorno a me è ovattato, piacevolmente distante.
Sento dei bip in lontananza. Socchiudo gli occhi.
Mi trovo in una stanza d’ospedale.
Una fitta di dolore mi attraversa ma non è una sensazione fisica.
È ciò che vedo: mio padre.
Non si è accorto che ho gli occhi aperti. Seduto, guarda fisso davanti a sé, la faccia tra le mani.
Sembra invecchiato di dieci anni.
Ai margini del mio campo visivo vedo mia madre. Gesticola, parla con qualcuno animatamente.
Brava, mamma. Non darti mai per vinta.
Non ho idea delle mie condizioni. Praticamente non sento nulla. Devono avermi sedato per benino.
Un torpore mi avvolge nuovamente.
È tempo di chiudere gli occhi.
Domani la sveglia suonerà alle otto . . .

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6 commenti »

  1. Ciao Paolo, il tuo racconto ci dà la dimensioni dell’intelligenza umana (infinita) per l’abilità di descrivere le situazioni e i sentimenti. Belle espressioni ne riporto alcune, senza essere accusato di plagio:” Stando in macchina, divento una macchina” ..”torpore meccanico”… quantèveroiddio” …due peroni da sessantasei (sta per due birre Peroni da cl 66). Tocchi tutte le problematiche ed è inutile che io stia qui a riassumerle. Va letto questo racconto per cogliere tutte le immagini. In bocca al lupo Paolo.
    Emanuele

  2. Trasmette nervosismo e ansia. E’ un invito alla riflessione su quanto ciascuno di noi, per motivi differenti, sia frustrato da una vita che non ci appartiene.
    Mi piace!
    in bocca al lupo!

  3. VI ringrazio tantissimo per aver letto e commentato il mio racconto. nessuno di noi immagino scriva per la gloria ma ogni tanto qualche riscontro positivo fa piacere.
    grazie ancora ed in bocca al lupo anche a voi.

  4. Caspita che bel racconto. Stile beat generation adattato ai nostri tempi. Potrei dirti :”sei un vero scrittore, fratello!”Complimenti e auguri sinceri per il concorso.

  5. Paolo scrivo per farti tantissimi complimenti per questo racconto! Pieno, veloce, riflessivo, intenso e nevrotico… tutto insieme!
    Uno sguardo alle giornate di oggi, una presa di coscienza su alcuni momenti della nostra vita. Bellissima poi la parte descrittiva, ancora complimenti!

  6. Caspita Paolo, quanto mi hai agitato.
    Ottimo ritmo, scrittura coinvolgente, senza sbavature, linguaggio giovane e attuale. Mi ha divertito il protagonista che a trent’anni si sente a metà della sua vita…santi numi, cambierà idea quando invecchierà un po’. Bello spaccato moderno, aderente alla realtà di chi lavora tanto per lavorare, invece che aver avuto la fortuna di svolgere il lavoro dei suoi sogni.

    Vorrei che tu leggessi le mie due favole in concorso.
    Arianna

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