Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2015 “Ada e gli integrali” di Danilo Grasso

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

ovvero come puoi trovare la forza di separarti da tuo marito

L’unica cosa che mi restituiva un senso di adeguatezza era il nuovo tavolo dei signori E., lo sentivo al mio fianco, ecco.

Così diverso da loro e così simile alla mia anima, non mi avrebbe mai potuto tradire.

Irregolare e normale, come me.

L’invito a cena a casa dei signori Euclidei era calzato a pennello, tutto sommato.

Talvolta una donna accetta un invito faticoso da sostenere solo per la gioia di non mettersi ai fornelli e non c’è nulla di male, care mie.

Il nostro frigo era vuoto e mio marito, Carlo, che a malapena conosceva le procedure per lo strapazzamento dell’uovo, aveva accolto entusiasticamente la proposta.

Preparai nostro figlio Ettore infilandogli un completino bianco-blu e, con un’ottima bottiglia di Chianti tra le mani, ci dirigemmo a casa della famiglia E.

Entrammo nel loro appartamento liberty e, dopo aver percorso un lunghissimo corridoio, ci sistemammo al tavolo.

Il disagio di una donna che si sente di appartenere a nessuna categoria di donna, è cosa inspiegabile, soprattutto a un uomo, seppure sensibile e con spiccato femminino.

Certamente sono una madre e un’umile segretaria di un colorificio, ho qualche amica, ma non ho mai avuto un vero gruppo di appartenenza, leggo sia libri importanti che giornali stupidi. Non ho una vera posizione in politica, ma detesto chi distrugge invece di costruire. I comici sono troppi, di questi tempi, e a me i comici fanno tristezza. Mi fanno ridere i cartoni della Walt Disney e mio figlio Ettore quando parliamo in lingua cacchesca. La lingua cacchesca è una cosa del genere: “Ettore, metti i pantaloni cacconi ché è tardi!” “Mamma, andiamo a fare un giretto cacchetto”. Capito, no?

Potrei non lavorare vista la posizione di Carlo, ma sarebbe un fardello insostenibile per le mie combattive spalle.

I commensali erano almeno una dozzina: amici e amici di amici dei signori E.

Ermanno Euclidei è il migliore amico di mio marito. Insieme assistono alle partite di basket ogni domenica pomeriggio e lavorano nella stessa prestigiosa azienda: la Euclidei, per l’appunto. Carlo ed Ermanno giocano anche a tennis una volta per settimana e… chissà che non scappi anche qualche altra tipologia di svago in condivisione.

Carlo ed Ermanno, Ermanno e Carlo e bla bli e blà blà.

Da anni ho smesso di soffrire per le innumerevoli cose che non so e mi faccio sapientemente i fatti miei.

Le donne del clan Euclidei sono tutte super sgargianti, visitano criptiche mostre d’arte e presenziano ai vernissage (che non ho mai capito bene che cosa sono: forse dimostrazioni alla moda di espertissimi imbianchini). Olga, la moglie di Ermanno, è presidentessa di una fondazione dedicata a un famoso e defunto architetto, la sorella minore si occupa di moda. Sono mondi di cui non voglio nemmeno vedere una fotografia o sentire i puzzosi profumi. A priori e con fierezza, rivendico la mia appartenenza ad una categoria molto normale di donna, posto che questo termine possa essere calzante.

La sala da pranzo degli E. mette a disagio, almeno, a me fa questo effetto. I mobili e i quadri appesi rendono l’ambiente austero e poco fresco: eccesso di oggetti, drappi pesanti e il sapore di arroganza che aleggia dappertutto.

Mi chiedo cosa sono venuta a fare qui.

L’accondiscendenza nei confronti di Carlo è dovuta dal fatto di dipendere dalla sua ottima posizione sociale.

Per quanto andrò ancora avanti? Riuscirò a sganciarmi da tutto ciò o ne rimarrò imprigionata a vita?

Proprio ora mi mancano le chiacchiere mattutine con la barista, la Michela (con l’articolo davanti al nome). Risate di donne tra donne che non fingono, e, se è il caso, diventano sguaiate anche per inezie, pettegolezzi, confronti alla pari sulla goffaggine della nostra vita.

La signora di servizio ci portò (in quest’ordine) le portate che costituirono il pasto di quella sera: patate fritte, sformato di patate, insalata di patate, gnocchi di patate, purea di patate. Cocacola e Chianti come bevande. Le donne della famiglia E. sostenevano che si trattasse di un ottimo pasto, frutto di ricerche pluriennali di un famoso nutrizionista svizzero. Elvetico era pure il profumo di muschio che doveva necessariamente accompagnarsi alla cena e veniva diffuso attraverso candele multicolore.

“Mentre degustate, inspirate ed espirate le candele al muschio, si tratta di una esperienza multisensoriale”, dicevano le sorelle E.

E pensare che la Michela, questa sera, preparava le cozze e il fritto di pesce.

Il tavolo dei signori E. era alquanto particolare. Non aveva forma quadrata, né rettangolare. Nemmeno rotonda od ovale. Si trattava di un mix bizzarro di forme: per un tratto squadrate, per un altro circolari. Non era neppure in piano, ma con un dislivello tra una metà e l’altra. Una delle poche perversioni da ricco che effettivamente mi attraeva.

La signora E., con cui quella sera non conversai granché, cominciò a fare considerazioni poco felici sui miei abiti acquistati in un bazar cinese e la sorella rincarò la dose sminuendo le mie amate ballerine di gomma.

Vedendomi, in qualche modo, interessata al suo strano tavolo, che talvolta osservavo, talvolta sfioravo per comprenderne l’anima, mi disse: “Cara la mia Ada, se ti piace così tanto, perché non ne calcoli l’area?”.

Data la mia difficoltà a rifiutare le sfide, cominciai a frazionare il tavolo di legno servendomi di un righello e di una matita, per poi procedere, successivamente, con le somme delle singole aree. Rimasi fino all’una della notte a fare inutili tentativi poi scoppiai a piangere ininterrottamente; non ne ero capace. I commensali si prendevano gioco di me. Mi dicevano: “Sei una somara” “Tu guardavi mio marito, ti ho vista, pocodibuono di una!” “Sei un’incapace, una buonannulla”. Carlo non diceva niente per non guastare la sua stupida posizione, non fosse mai di difendere in pubblico la sua sposa. Solo il piccolo Ettore mi dava la forza necessaria a superare quell’insostenibile sensazione.

Mi ritirai a lacrimare in bagno.

Lì, seduta sul water, sfogliando gli opuscoli del Famila con le offerte speciali, accadde un miracolo: mi apparve di fronte la prof. di matematica del liceo: la dottoressa Maria Palma Rosaschino. Quella povera e oramai defunta nonnetta credeva ancora in me, come un tempo.

Mi rispiegò rapidamente le proprietà e il calcolo degli integrali e mi consegnò tra le mani la formula per il calcolo, mi fece qualche carezza sulla testa e si mise a ridere per la stupidità di quelle persone che stavano sedute di là, in quella sala disgustosa.

Uscita dal bagno mostrai agli stronzi riuniti le mie scartoffie col risultato preciso. “Ecco qui!” dissi col tono di chi si è riscattato.

Nel pieno dello sbigottimento generale, ripresi a mangiare ciò che avevo lasciato nel piatto, anche se questa scelta di proporre un menù tutto a base di patate, forse, era stata un pochino sconsiderata.

 

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