Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2014 “Brutta” di Lorenza Carli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Combattevo con me stessa da sempre. Forse da sempre no, c’è un momento nell’infanzia in cui tutti i bambini suscitano tenerezza e gesti affettuosi. Quell’età in cui si è paffuti, in cui le guance rotonde non ispirano repulsione ma sorrisi di compiacimento, quell’età meravigliosa in cui gli adulti si chinano su di te per darti amorevoli buffetti e sussurrarti paroline zuccherose. E’ un’epoca breve, uno squarcio di inconsapevole felicità. Già a sette, otto anni è finita da un pezzo e se non corrispondi ai canoni imposti dalla società, la società ti flagella. Specialmente se sei una donna. Eh sì, anche a otto anni si è donne, donne in miniatura e nel microcosmo crudele che è rappresentato in una scuola elementare, se non hai occhioni dolci, trecce morbide e corpicino aggraziato, che prometta di trasformarsi in quello di una giovane donna slanciata, son dolori. Io avevo acquisito ben presto la consapevolezza di essere out. Tagliata fuori, derisa, nella migliore delle ipotesi compatita. Non mi si poteva proprio, nemmeno con lodevole impegno, definire una bella bambina. Avevo la pelle olivastra, occhi piccoli e lievemente ravvicinati, ricci indomabili di un insignificante castano tendente al grigio topo. Una miopia infantile mi costringeva a indossare occhialetti rotondi, alla Cavour e tutto questo non sarebbe stato nulla, se solo fossi stata magra. Avevo capito che a una femmina si può perdonare tutto. Da grande ci sarebbero stati il trucco, il parrucchiere, abiti maliziosi e accessori glamour ad aiutarmi, ma nessun artificio poteva funzionare se il problema era il sovrappeso. Nulla serviva se avevi cosciotte rotonde e ventre prominente, questi erano peccati mortali, roba per cui non c’era scampo. Forse, molto forse, una vita di rinunce avrebbe potuto aiutarmi… piangevo sulla scatola di biscotti al cioccolato, miei amici e miei unici consolatori, pensando che non ce l’avrei mai fatta. Senza il conforto dei biscotti al cioccolato non sarei sopravvissuta. Gli anni erano passati così, tra una meringa e un bignè divorati di nascosto, nella solitudine della mia cameretta. Il mondo fuori era cattivo, mi faceva paura. C’era stato un momento in cui avevo sperato che il mio carattere docile, la mia sensibilità, la generosità, la mia testolina brillante, potessero supplire e farmi accettare dagli altri, se non proprio amare. Mi ero accorta presto che della sensibilità non gliene fregava un accidente a nessuno. A quindici anni ero un’adolescente impopolare e solitaria, riflessiva e introversa. Troppo matura per la sua età, dicevano gli insegnanti. Ipersensibile! A scuola ero brava, la prima della classe. Per forza, i libri erano la mia unica compagnia, se si escludevano i biscotti al cioccolato. Leggevo pomeriggi interi, vivevo altre mille vite, sognavo amori che mi erano preclusi, viaggiavo nello spazio e nel tempo tra quelle righe. I libri sono stati la mia fuga dalla realtà, i compagni silenziosi e fedeli di tante domeniche solitarie. Mentre le mie amiche erano richiestissime, avevano codazzi di ammiratori e sperimentavano le prime emozioni di donne, io restavo chiusa in casa, a macinare storie. Avevo provato a iscrivermi in palestra. Un po’ di sport ti farà bene, dicevano tutti quelli che passano il tempo a dare buoni consigli. Mi ero infilata goffamente in una maxi tuta e, docile come sempre, mi ero sforzata di correre, fare piegamenti, flessioni e addominali. Ne uscivo fradicia di sudore e frustrata come non mai. Mi pareva di sentirli, i commenti delle ragazze in calzoncini corti che si muovevano agili come gazzelle intorno a me. Ero una balenottera e le estenuanti sedute in palestra non facevano che acuire il mio senso d’inadeguatezza. Avevo rinunciato e mi ero rituffata nell’avvolgente abbraccio di una torta alla panna. La panna mi capiva e non mi deludeva mai. Gli anni della giovinezza, trascorsi nell’eterno, fallimentare tentativo di entrare in un paio di jeans, mi avevano umiliato, ma non abbastanza. Non c’era limite alla cattiveria umana, non c’era limite alle umiliazioni e io ancora non lo sapevo. A trentasei anni ero una zitella schiva. Vivevo da sola in un bell’appartamentino in periferia, comprato con le mie sole forze. Tutto quel leggere e quello studiare avevano portato i loro frutti. Mi ero laureata brillantemente in lettere classiche ed ero diventata direttrice della biblioteca e del polo museale della mia città. La mia vita di relazione era quella che era sempre stata. Io e le meringhe, io e i bignè. Ero una signora rotonda, che vestiva camicioni larghi per nascondere il sedere fuori misura e indossava scarpe comode, senza tacco, priva di qualunque civetteria. E, udite udite, a trentasei anni ero vergine. Non ero mai stata fidanzata, mai un amorazzo, un filarino, un amante. Niente. Mi ero innamorata, questo sì. A quattordici anni ero stata disperatamente innamorata del bello della compagnia. Banale e patetico, vero? Sì, era stato patetico. Lui di anni ne aveva diciotto, un fisico atletico scolpito dagli allenamenti di calcio, una falda di capelli neri che gli ricadeva negligentemente sugli occhi birichini. Dio, quanto mi piaceva! Avrei dato la vita per essere toccata da lui. I miei ormoni di adolescente erano in subbuglio, sentivo lo stomaco contrarsi, le gambe tremare, il cuore galoppare e tutti quei meravigliosi sintomi che a quell’età significano primo amore. Lui doveva essersi fatto delle grasse risate dietro le mie spalle, certamente non gli erano sfuggiti i miei sguardi adoranti e i miei ridicoli tentativi di incontrarlo per caso. Un sabato sera ero stata miracolosamente invitata a una festicciola a casa di una compagna di scuola, una delle feste tipiche di quegli anni. Luci psichedeliche fai da te, giradischi, vassoi di bibite e salatini fornite da mamma e papà. Erano gli anni in cui ancora si ballavano i lenti. Vedevo le coppie allacciate, accompagnate da note romantiche e rimanevo nascosta sulla mia seggiola, sperando di passare quanto più possibile inosservata. Quel giorno il mondo si era rovesciato: lui, proprio lui, si era staccato dal gruppo di amici con cui stava parlottando e mi si era avvicinato. Ero paralizzata dal terrore e dall’emozione, le mani gelate, il respiro corto. Mi aveva preso per mano e trascinato in mezzo alla pista, poi aveva posato le sue mani sui miei fianchi rotondi e aveva cominciato a dondolare piano, il ciuffo ribelle che mi sfiorava la guancia. Dio, se questo è un sogno non farmi svegliare, fammi morire adesso, su questa mattonella, con queste note in sottofondo. Oggi non saprei dire se quelli erano i sintomi dell’amore o di un attacco cardiaco, di certo ero fuori di me, il mio corpo e la mia mente sbattuti qua e là da una tempesta tropicale. Poi lui aveva alzato la testa e mi aveva sussurrato parole che non avrei dimenticato mai più e che sarebbero state l’imprinting della mia inesistente vita sentimentale.
Vedi, agli uomini non piacciono le donne magre, ma neanche grasse. Cerca di dimagrire un pochino, poi ne riparliamo.
La musica era finita, le coppie si scioglievano, era partito un brano disco e intorno a me i compagni si dimenavano come pazzi. Lui era già sparito e io ero annientata, spazzata via dalla burrasca emotiva che mi aveva travolto. Raccolsi la mia borsa e fuggii a casa, a nascondermi, a confidarmi con le meringhe, a piangere calde lacrime di umiliazione sulla scatola di biscotti al cioccolato. Mai più, mai più avrei mostrato il ben che minimo interesse per un uomo. Non potevo permettermelo. Mantenni fede alla mia promessa. Gli anni successivi li trascorsi a testa bassa, il naso immerso nei libri. Mi laureai presto e brillantemente, del resto nessuno ne aveva mai dubitato. A ventotto anni ero già in grado di acquistare un appartamento e decisi di adottare un cane. La mia vita andava bene così. Non dovevo più giustificarmi con un branco di adolescenti per essere diversa dai loro modelli, potevo entrare in un caffè e ordinare una fetta di torta senza sentirmi troppo in colpa, godevo di stima incondizionata da parte dei colleghi e credevo che questo mi mettesse al riparo da tutto. Forse non ero considerata una donna, ma di sicuro un’ottima professionista. Avevo una solida cultura e potevo sostenere piacevolmente qualunque conversazione. Questo faceva di me una persona interessante e una buona compagnia, così spesso ero invitata a cene o a eventi culturali. Fu in una di queste occasioni che conobbi Edoardo. Lui era bello come il sole, lo sguardo profondo, la conversazione acuta e intelligente, la bocca generosa. Ero seduta vicino a lui, del tutto casualmente, alla presentazione di un libro e percepire il suo profumo fresco e agrumato mi dava lievemente alla testa. Non sognavo da più di vent’anni ormai e m’imposi seccamente di continuare così. Lui però mi rivolse amichevolmente la parola, come per caso. Io rimasi sulle mie per un po’, ma era così spontaneo, così carino e sembrava davvero interessato alle mie opinioni che vinsi l’iniziale riluttanza e mi lasciai andare a qualche commento e perfino a qualche battuta. Quella sera stessa mi offrì un aperitivo. La sera dopo era riuscito, chissà come, ad avere il mio numero e mi chiamò. Non avevo mai ricevuto un invito a cena e accettai il suo, in bilico tra lo scetticismo e la trepidazione. A trentasei anni ebbi così la mia prima cena a lume di candela con un uomo e, per di più, un uomo affascinante. Nel giro di un mese le mie difese erano miseramente crollate. Ero pazza, completamente pazza di lui. Avevo scoperto la passione, la gioia della condivisione, l’avida dolcezza del sesso. Avevo scoperto il piacere dell’attesa di un appuntamento, di una telefonata, il senso di completezza che regala toccare il corpo di un uomo che dorme vicino a te. Ogni tanto il mio povero cuore tremava dalla paura, inciampava nell’incertezza. Un uomo così io non me lo merito. Per non sentirmi inadeguata lo circondavo di attenzioni, di premure, lo riempivo di regali. Ero una donna libera e benestante, avevo un cuore traboccante d’amore e glielo elargivo come potevo, a piene mani. Lui andava e veniva da casa mia quando voleva, gli avevo regalato un’auto sportiva e un cellulare ultimo modello, perché potesse correre da me quando aveva un minuto libero o raggiungermi sempre, almeno per un pensiero via etere. Lui accettava la mia generosità con nonchalance disarmante. Avevo capito che non era messo bene finanziariamente e che si dava un gran da fare, anche se non mi parlava mai del suo lavoro, né della sua vita. Quando m’imbarcavo in un tentativo di approfondimento su argomenti personali lui sapeva come distrarmi e io ero debole, con me vinceva facile. Piombava a casa mia un paio di volte la settimana e mi regalava qualche ora di esaltante felicità, poi mi salutava con una carezza e mi lasciava lì, a galleggiare in un sogno. Io continuavo la mia vita irreprensibile, tutta casa e lavoro, ma, finalmente, avevo qualcosa da aspettare, messaggi da leggere, notti da ricordare. Finalmente placavo la mia fame di carezze. Fuori era tutto normale, ero la solita signora placida e gentile, mentre dentro coltivavo un fuocherello impazzito. Un fuoco fatuo. Quell’inverno gli offrii una settimana con me alle terme, gli regalai un abbonamento in uno dei più prestigiosi centri sportivi della città e perfino una moto gran turismo. Mi parlava di moto da mesi, capivo che erano una passione che coltivava da sempre e che non si era potuto mai permettere e io ero felice di dargli una mano nel realizzare i suoi sogni. Era così bello seduto su quel bolide, mi riempiva di orgogliosa felicità. Quello splendido ragazzo, quell’uomo meraviglioso, era mio. Mio? Ebbi paura subito dopo averlo pensato. Un brivido sinistro mi percorse e scacciai con rabbia la sensazione di angoscia che mi aveva assalito. Quel sabato sera preparai una cenetta di pesce, accesi candele profumate e indossai un vestito scollato, che metteva in risalto la mie forme generose con discrezione. Le otto divennero le nove, poi le dieci, poi, inesorabile, arrivò la mezzanotte e lui non c’era. Seduta immobile, di fronte alla tavola apparecchiata per due, lo avevo chiamato al telefono decine di volte, ma il prezioso cellulare che io stessa gli avevo comperato squillava a vuoto. Non riuscii a prendere sonno, combattuta tra il desiderio di chiamare gli ospedali per avere eventuali notizie e la certezza che il motivo della sua assenza non avesse nulla a che fare con un incidente. Rimasi incollata al telefono per tutta la notte e per i giorni e le notti successive, rimasi a casa dal lavoro per concentrarmi sull’attesa, ma il telefono rimase muto. Il silenzio mi divorava. Provai a scrivergli una mail, a mandargli qualche messaggio. Niente di patetico, solo qualche parola affettuosa, ma rimasero tutti senza risposta. Non poteva essere tanto crudele, non ci volevo credere. Dileguato, sparito senza una parola. Le mie notti e i miei giorni erano di nuovo un deserto senza fine, solo che adesso questo vuoto mi era intollerabile. Avevo conosciuto gli abbracci e ne avevo fame. Fame di braccia intorno a me. Una sera superai me stessa e mi umiliai, mi nascosi sotto casa sua, spensi il motore della mia auto e attesi. Riconobbi il rumore della moto dopo la mezzanotte. C’erano due persone a bordo. Lui guidava e, stretta alle sue spalle, una biondina con un giubbotto di pelle. Quando si tolsero i caschi li sentii ridere, li vidi baciarsi a lungo. Lei era giovane, mi parve bellissima e, soprattutto, era snella. Ero lì, vicinissima nel buio, trattenevo il respiro. Lui raccontava di una pazza grassona che lo perseguitava e lo riempiva di regali, lei rideva, una risata cristallina, mentre lui elencava i benefit che la grassona gli aveva fruttato. Lei lo rimproverava affettuosamente.
Povera donna, avrà creduto che tu
E lui:
Impossibile. Cos’ha, gli specchi di legno?
Non ricordo più niente. So che ho messo in moto la macchina di scatto e sono andata loro addosso. Implacabile e devastante come una furia, li ho colpiti, colpiti, colpiti. Poi sono rimasta lì, inebetita e piangente, come mi ha trovato la polizia. Qualche anno è passato. Mi è stata riconosciuta qualche attenuante, in carcere dono una detenuta modello. In fondo non sto male qui. Sono aiutata da una psicologa, leggo tantissimo, scrivo, parlo con le altre detenute che mi hanno preso in simpatia. Mi sento protetta. Sono perfino dimagrita. Qui non è facile mangiare bignè. Magari un giorno, quando uscirò, potrò perfino infilarmi in un paio di jeans.

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4 commenti »

  1. La storia si snoda scorrevole. Una storia verosimile in cui la rabbia e la frustrazione mista al dolore del rifiuto diventano esplosive come, purtroppo, può accadere. Catartica per tutti gli esclusi del mondo. Complimenti!
    Angela Lonardo

    p.s. fammi sapere cosa pensi del mio racconto “Il ragazzo della frutta”

  2. Ciao Lorenza, descrivi benissimo gli stati d’animo della protagonista, nelle principali fasi della sua vita. Le frustrazioni, le attese e i desideri diventano compagni della sua esistenza. Il racconto ci porta sino al gesto che fa esplodere la sua rabbia. Era impossibile reggere che la sua immagine, già accettata, venisse derisa e compromessa dall’uomo approfittatore. Inevitabile.
    Bel racconto.
    Emanuele.

  3. All’inizio ho pensato “troppo lungo, non ce la faccio ad arrivare in fondo”.
    Poi ho letto l’aggettivo “impopolare”, che mi ricorda tanto, troppo, quegli orrendi telefilm di adolescenti e quei volgari reality americani e anglosassoni in genere e ho pensato “andiamo bene! “.
    Ma ormai la mangiatrice di bignè mi aveva adescato. Empatia per una bruttina impopolare da una ex bruttina, magra, simpatica e corteggiata, ma sempre bruttina.
    E quando all’orizzonte si è profilato il bellone ho trepidato con lei e dopo la scoperta dell’amara realtà sono rimasta delusa: il solito gigolò!!!
    Non posso condividere la scelta della nostra eroina anche perché di fatto è una sconfitta mentre lei meritava una rivincita.
    è stata una faticaccia ma mi è piaciuto.
    Ciao.

  4. In generale mi pare un buon lavoro!!!!!

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