Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Quindici anni dopo” di Giulia Baruzzo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Tra le novità all’orizzonte e ciò che mi lascio alle spalle, mi sembra di essere ad un bivio.

In questo esatto momento, ho l’impressione di essere vicino alla me quindicenne.

“Stai tranquilla, va tutto bene.”

“È così che vanno queste cose?”

“Cazzo ne so!? Sono te, solo più vecchia, non so niente, esattamente come te, sono solo più consapevole di questa cosa.”

“Ma noi non ci perdiamo di vista vero?”

Eh.

Questa è la domanda che mi spaventa più di tutte, so che devo lasciarla andare, ma mi fa così paura. 

Pensare che un domani potrei non sentire ciò che sente lei, come lo sente lei. 

Nel suo stupido modo infantile, esagerato e teatrale che però fa parte profondamente di ciò che sono.

“No, spero di no e se dovesse succedere, ti terrò nei miei ricordi sempre. Questo te lo prometto.”

Lei mi guarda, incredula, come se la stessi abbandonando, è sempre stata melodrammatica, eppure sento le lacrime che mi rigano le guance, questa volta, sento un po’ la tragedia anche io, soffro come lei. Solo, lo dimostro in modo molto diverso. Lo dimostro alzandomi dal letto e accendendo una sigaretta nella mia casa nuova, seduta su una sedia perché il divano non è ancora arrivato. La mia prima casa, la casa di una convivenza, la prima seria. Lei piange e urla che non è giusto, che si può trovare un modo, che se non si fa qualcosa è perché non la si vuole fare, per lei non esiste il non poter fare qualcosa. La stimo così tanto per questo. Lei ci crede sul serio e non voglio minimizzare il suo sentimento, è puro e forte. Ecco perché la stimo così tanto.

Ho paura, mi rendo conto di non provare più sentimenti tanto puri, è sempre tutto così filtrato dalla ragione da sembrare finto. Lei mi cita l’Iliade sulla volontà dell’eroe e io penso che sto fumando una sigaretta alle due di notte senza motivo, senza aver dormito, dopo otto ore di lavoro e domani il mio corpo me la farà pagare.

Ora parla di amore.

“Stiamo vivendo la storia d’amore che abbiamo sempre sognato? Piena di incomprensioni, ma ardente di profonda passione?”

E anche questa, come gliela spiego?!

“C’era la passione e le incomprensioni, ci sono state le battaglie e sentimenti profondi, dopo tanti anni, sono mutati in qualcosa di diverso, di più stabile, un mare calmo.”

“Si vabbè, ma in mezzo alla vita di tutti i giorni ci sono ancora le follie, il romanticismo e l’avventura nella nostra vita sentimentale vero?!”

Lei non può capire, sa cosa sia l’amore, lo sa molto bene, anche senza aver conosciuto l’altra persona a fondo, lo sa perché l’ho imparato grazie a lei cosa voglia dire amare e ricordo perfettamente la sensazione. Come faccio a dirle che succede solo a quell’età? Che quell’amore non torna più perché è il primo ed è egoista, è nuovo, ti sconvolge, scuote il tuo mondo e ti scatta nel cuore come un piccolo infarto? Come faccio a spiegarle che, se ora succedesse a me di perdere un battito, come prima cosa, andrei in ospedale?

“No quello non succede più, anche l’amore cambia, non puoi vivere nei romanzi per sempre.”

Lei tace, mi guarda e tace, il suo sguardo deciso e tradito continua ad urlare -non è giusto! –

Mi ricordo la sensazione di vivere in un romanzo, in cui l’amore era dettato da una sensazione continua di perdere il momento, di perdere l’altra persona, la sensazione di conquistare un’esperienza unica da vivere. Ora l’amore sa di fiducia, di conoscenza e accettazione reciproca, è più simile ad una coperta calda che al mare in tempesta. Non dico che non mi manchi, anzi, ma è giusto che non sia più così. L’amore a 15 anni è un pugnale che lacera il cuore, nel bene e nel male, l’amore a 30 anni è consapevolezza di sé e dell’altra persona, è scegliersi ogni giorno per rimanere a galla in questo mondo infame.

La razionalità si insinua anche nell’amore e ne smussa i lati, lo rende più innocuo, più accettabile e vivibile sul lungo termine.  

“Cosa ne fai del mio amore?”

“Lo ricordo quando sono triste, ne scrivo storie, ne traggo insegnamento quando i miei alunni vengono a piangere tra le mie braccia.”

Anche questo mi aiuta a non lasciarla andare, la guardo e vedo i miei studenti, loro lo sentono che gli sono vicina, che non voglio dimenticare cosa volesse dire esser come loro, irrequieta in un mondo di limiti, proiettata solo sulle sconfinate possibilità che avevo davanti.

“E il lavoro? I nostri sogni? L’Africa?”

Mi accendo un’altra sigaretta, l’africa, salvare vite, viaggiare e scrivere delle storie del mondo, tutti sogni rimasti nel fondo più nascosto del cassetto, seppelliti dalle scuse, seppelliti da altri sogni più conservativi, più razionali.

“Abbiamo una grande responsabilità, insegniamo agli altri come usare le nozioni di questo mondo, ad usare la propria testa, al massimo delle loro possibilità, siamo diventate delle professoresse.”

“Quindi guardiamo gli altri vivere una vera vita? Li guardiamo fare ciò che non siamo state in grado di fare noi.”

Sapevo lo avrebbe detto. Vorrei tirarle uno schiaffo per la sua mancanza di rispetto, verso noi stesse e verso il nostro lavoro, ma sono le nostre paure a parlare, la paura del fallimento, anzi, peggio: la paura della mediocrità.

Non può capire quanto abbiamo sofferto, quanto il mondo sia cattivo nei confronti di chi vuole provare a cambiarlo, non può capire quanto il nostro carattere verrà minuziosamente e dolorosamente rimodellato nel tempo, fino ad essere realisticamente ridimensionato.

Eppure, lo ha scritto sullo zaino e pensa che un giorno sarà il suo primo tatuaggio –volevamo iscriverci ad un partito per cambiare il mondo e alla fine è stato lui a cambiare noi-.

Invece, niente tatuaggi, ma la frase era la più azzeccata che potesse entrarci dentro, solo che per ora, per lei, questa frase rappresenta una sfida e non una profonda verità.

Vorrei abbracciarla, spiegarle che è tutto necessario, il cambiamento è sempre necessario, l’alternativa è la morte, ma chi sono io per dissuaderla?

Vorrei raccontarle di quanto sia stata difficile l’università, di quante volte abbiamo dovuto cambiare strada contro la nostra volontà, degli attacchi di panico, della solitudine. Vorrei dirle che è stata forte ad arrivare fin qui, che siamo state brave a superare tutto questo e che dobbiamo imparare a volerci bene, ma lei non capirebbe, rimane sempre la critica più feroce della nostra vita.

“Quindi, non siamo diventate un cardiochirurgo che opera nei grandi centri di ricerca europei?”

Come le spiego che, per un periodo della nostra vita, non siamo nemmeno riuscite a salire su un autobus senza che ci venissero gli attacchi di panico?! Forse è stato meglio non diventare un cardiochirurgo. Ci allenavamo a cucire acini d’uva e facevamo gli esercizi per migliorare la fermezza delle mani, ora, se dobbiamo fare un colloquio, a malapena riusciamo a stare sedute sulla sedia.

La sigaretta è finita, lei nemmeno fuma, mi guarda spegnerla con disprezzo. “Non siamo mai entrate a medicina, abbiamo sempre raccontato a tutti di essere state ripescate ma non è mai successo, un’altra delle nostre bugie che ci aiutavano a non confrontarci con la realtà dei fatti. Siamo diventate delle chimiche. Ci piaceva, anche tanto, abbiamo fatto ricerca in ambito neurologico per un anno intero ma ci stava uccidendo, abbiamo dovuto cambiare strada.”

“Almeno ci siamo laureate con il massimo dei voti?”

Vorrei spiegarle che il suo bisogno di primeggiare è tossico e le farà del male se non lo usa in modo intelligente. Vorrei dirle che il voto è solo un numero che non rappresenta nulla nella vita, non le darà mai un’idea di quante notti insonni abbiamo fatto prima di un esame, di quante volte abbiamo studiato per giorni senza mangiare fino a farci diventare anemiche. Abbiamo anche avuto delle soddisfazioni, le pubblicazioni ci sono state, ma a nessuno è importato, le abbiamo lette solo noi. Tutti coloro che abbiamo contattato per un lavoro dopo la laurea erano più interessati al nostro possibile bisogno di maternità o al lavoro del nostro compagno.

Devo dirle che ora è il momento, che è necessario salutarci, che è ora di dormire per entrambe. So che lei non lo farà, lei continuerà a cercare un modo per cambiare tutto questo e io, io andrò a dormire irrequieta svegliandomi domani con le cervicali e i polmoni incazzati.

Mi guarda come un animale ferito ma ancora pronto ad attaccare, sulla difensiva, molto lontana dall’arrendersi alle mie parole. Nonostante le abbia pronunciate proprio io, lei comunque non ci crede e sono felice così. Vorrei sentire quell’ardore un’ultima volta, mi avvicino, ma lei indietreggia. È suo quel sentimento, le appartiene, in un ultimo momento di egoismo ho provato a rubarlo e lei mi ha ricordato che non posso, sono stata io stessa a dirglielo. 

“Buonanotte, fai sogni d’oro, cerca di non sentirti mai sbagliata. Ricorda che andrà tutto bene, anche se non sarà come lo vuoi tu.”

Non mi concede nemmeno un saluto, se ne va arrabbiata, anzi incazzata nera, ma non disperata, non disillusa e questo mi fa stare bene.

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8 commenti »

  1. Molto bello e profondo, bravissima!

  2. Grazie molte Marco.

  3. Davvero una gran bella idea il dialogo/monologo! Credo che faccia venire voglia al lettore di andare a cercare il proprio doppio del passato e farci quattro chiacchiere!

  4. Bello!

  5. Grazie mille Simona per il tuo commento, sono onorata.

  6. Grazie molte Romina.

  7. Davvero molto bello, complimenti, profondo, emozionante, non è per nulla difficile empatizzare e immedesimarsi con il doppio personaggio. Semplice ma ben scritto, molto brava!

  8. Grazie mille Aurora. Apprezzo molto le tue parole.

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