Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Aspettando (chi?)” di Anna Licheri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

AMORE MIO. Abbigliamento. Anche taglie comode.

Una piccola vetrina sulla provinciale, davanti alla quale sono sicuramente passata migliaia di volte senza notarla, adesso la conosco a memoria. Il cuoricino sopra la i, gli stencil sul vetro, i vasi ai lati dell’ingresso. Sono una persona abitudinaria, dopo la prima volta che sono entrata in questo parcheggio sono sempre tornata nello stesso posto, dal quale il negozio amore mio è protagonista indiscusso del panorama. Ho avuto modo di osservarlo perché vengo qui per aspettare, a volte 5 minuti, altre un po’ di più.

Mi sono affezionata a questo posto anonimo, a quell’insegna buffa, miei fedeli compagni e testimoni, di attese e ricompense, baci e pianti. Non avremmo nemmeno dovuto incontrarci qui, ho sbagliato il luogo dell’appuntamento la prima volta poi ho arbitrariamente perseverato nell’errore perché già mi sentivo a casa, in un parcheggio, sulla provinciale. Perché seduta su un muretto, con la sua testa sulle gambe e la mia mano nei suoi capelli, mentre mi raccontava la sua cicatrice sul sopracciglio in una sera tiepida di settembre inoltrato, mi sono sentita in pace. Ci siamo dimenticati il motivo del nostro incontro e siamo rimasti lì per ore a condividere storie. Era passato quasi un anno da quando ci eravamo stretti la mano per la prima volta dicendo i nostri nomi ad alta voce, in un altro parcheggio, lontano chilometri, ma è stata quella sera che ci siamo conosciuti. Ci siamo salutati con la promessa di ripetere presto una chiacchierata, me ne sono andata convinta di aver aperto le porte a un’amicizia più profonda, più sentita, non avevo capito nulla.

Un paio di giorni dopo ci davamo appuntamento in quello stesso parcheggio, incapaci di resistere, nonostante tutte le controindicazioni, all’attrazione che ormai avevamo ammesso e dalla quale, proprio per questo, non sapevamo affrancarci, quella che distingue un amico da un amante, o almeno dovrebbe. Sono uscita presto di casa per non destare sospetti, mentendo per la prima volta ai miei genitori, avevo bevuto un caffè per rimanere sveglia e percepivo chiaramente il mio cuore dimenarsi nella cassa toracica. L’ho aspettato per più di un’ora, con l’esaltazione con cui si aspetta che il nostro cantante preferito salga sul palco, fumando una sigaretta dietro l’altra, cosa che non ha particolarmente apprezzato, non avevo mai baciato un non fumatore. Un pick-up ha parcheggiato accanto a noi, ne è uscito un uomo di mezza età che ci ha salutato con un elegantissimo buonasera, a giudicare dall’ora e dal tipo probabilmente un cliente del night club poco distante. Per un attimo ho realizzato di trovarmi in un parcheggio sulla provinciale con un ragazzo che mi aveva detto chiaramente di non essere disposto a prendermi seriamente, ma l’ho dimenticato troppo in fretta per colpa delle sue spalle larghe pronte ad accogliermi e della familiarità dei suoi occhi. Almeno questo l’avevo capito, avevo capito che dei suoi occhi potevo fidarmi più che delle sue parole. Ho perso il conto delle versioni ideate per giustificare l’incoerenza dei suoi comportamenti, ovviamente tutte reciprocamente antitetiche, con le parole era in grado di dirmi “sei importante” e “stare con te non mi da niente” nella stessa frase. Ma i pensieri che traboccavano dagli occhi non sapeva nasconderli, nei momenti di vulnerabilità diventavano acquosi, trasparenti, potevo vederci attraverso, allora l’incrocio dei nostri sguardi diventava un flusso e finalmente mi pareva che le nostre volontà più sincere combaciassero.

L’idillio è durato poco, qualche settimana dopo ci siamo incontrati di nuovo, al solito posto, ma in quel caso ho dovuto stremarlo perché mi concedesse un appuntamento, ha deciso che dobbiamo smettere di vederci, queste cose non fanno per lui, crede che io possa innamorarmi, e non è il caso. Non sono abbastanza presuntuosa da credere che si sia spaventato perché è lui a provare dei sentimenti che non vuole assecondare, eppure dopo la sentenza non è riuscito a non baciarmi ma la colpa, anche in questo caso, è mia: “con quello sguardo me lo stavi chiedendo”.

Mi sono abituata ad aspettarlo da quando l’ho conosciuto, non è mai pronto quando lo passo a prendere, anche se per lui prepararsi implica un solo passaggio: cospargersi di Acqua di Gio, devo aspettare che tutti dormano per poter andare da lui e con il tempo ho imparato ad aspettare che sia lui a cercarmi quando gli torna il buon umore, evitando di rimbalzare ossessivamente contro un muro di mattoni.

Lo aspetto anche stasera, nel solito parcheggio, ma non verrà, non l’ho nemmeno chiamato perché non avrei sopportato un rifiuto, lo aspetto lo stesso. Non so cosa ci faccio qui, stavo rientrando e senza neanche rifletterci ho deviato, forse volevo sentirmi a casa come quella sera di fine settembre, ma mancano tutti i presupposti. Parto da lì e ripercorro tutti i momenti della nostra storia, che non è nemmeno una storia ma fornirebbe materiale sufficiente alla stesura di un romanzo. Mi concentro sui più felici per convincermi di non essermi ingannata: tiene il braccio incastrato fra il sedile e lo sportello pur di tenermi la mano per tutti i 40 km che separano la discoteca da cui stiamo uscendo dalle nostre case, al mare teniamo gli occhi chiusi e si passa i miei riccioli tra le dita, mi vede piangere in disparte allora si offre di rimanere con me finché non mi addormento (si addormenterà per primo).

Il faretto che illumina l’insegna mi pare aggressivo e impietoso, sottolinea la freddezza del sedile vuoto accanto a me, ascolto canzoni struggenti e singhiozzo disperatamente, un signore di mezza età scende da un pick-up poco distante, i nostri sguardi si incrociano, non mi vergogno nemmeno, lui lo sa che questo sedile è stato occupato, che c’era qualcosa di vero. È la mia generazione che non ha capito nulla, ci nascondiamo dietro situazioni assurde per paura di definire quello che sentiamo e vogliamo, così assurde che per identificarle dobbiamo prendere in prestito termini inglesi come situationship. Ci interroghiamo tanto sull’amore e le relazioni, senza praticarli, non abbiamo il coraggio di costruire un legame solido perché convinti che ci privi della libertà, così rimaniamo liberi di non amarci, a nessun costo, neanche quando si fa l’amore, che pure è l’inequivocabile espressione del desiderio di sentirsi uno insieme all’altro. Eppure è vero anche che Annie Ernaux, di un paio di generazioni precedenti alla mia, sentiva quello che sento io, lo so perché in questi giorni c’è perdersi sul mio comodino, interrompo continuamente la lettura per appuntare frasi che esprimono in modo elegante e impeccabile la disperazione, il desiderio morboso, l’ “assenza assoluta di futuro” quando non posso segnare il nostro prossimo incontro sul calendario. Ma non dovrei sorprendermi, d’altra parte è noto che tutte le storie d’amore si somigliano, che tutto quello che c’è stato fra noi merita al massimo di essere classificato come normale, lo dice anche Guccini.

Ho capito che possiamo stare bene insieme se lo assecondo nelle sue manie di controllo, rispettando le regole non scritte della situationship: niente pretese, fingere spontaneità, mantenere le distanze in pubblico e soprattutto niente appellativi affettuosi. Sono in gioco da tanto per cui sono diventata abbastanza brava, ho sempre evitato nomignoli ambigui, fino a qualche giorno fa. Aveva appena perso suo papà e quando, mentre ci abbracciavamo strettissimi, ha nascosto il viso nell’incavo del mio collo mi è scappato: amore mio.

Non l’avevo incontrato molte volte suo papà non avendo il privilegio di essere una fidanzata, e quindi presentabile, costretta a introdurmi in casa a sua insaputa, ma una sera, alla cena di compleanno del figlio siamo capitati accanto. Dovevo guidare ma ha insistito perché bevessi un bicchiere di vino, mi sono sbrigata a finirlo per togliermi il pensiero e mi sono ritrovata di nuovo il bicchiere pieno, per tutta la sera si è assicurato che non rimanesse mai vuoto, infatti ho dovuto farmi accompagnare a casa. Capivo che mi studiava con curiosità finché mi si è avvicinato per dirmi “sei troppo zitta, fatti sentire che qualcosa si muove”, credo di aver risposto solo con un sorriso imbarazzato, mi sentivo completamente colta in fallo. Al vertice opposto del tavolo suo figlio ci guardava perplesso tentando invano di isolare le nostre battute nell’allegro chiacchiericcio generale. Non ho mai capito se sapesse cosa c’era fra noi o se volesse solo spronare il mio carattere silenzioso, mi sono interrogata per giorni sul significato di quella frase come fosse un oracolo.

Mi torna in mente adesso, sola al buio in questo parcheggio quella frase mi appare come una condanna: non sono in grado di farmi sentire. I mesi continuano a passare e io resto impantanata in una situazione che non ho scelto né mai desiderato, che nemmeno mi si addice. Sarebbe facile ritenermi vittima di un narcisista, così l’ha definito la mia psicologa, ma non sarebbe giusto, devo prendermi le mie responsabilità. Dopotutto non sono meglio dei miei coetanei, incapaci di rinunciare, tendenti a giustificare la sofferenza di non essere compresi con pochi attimi di felicità. Tutto è rimasto immobile, le stesse dinamiche si ripetono da così tanto tempo che mi sento in un loop, questa volta è davvero colpa mia, sono io che non mi muovo.

Mentre aspetto mi rendo conto che non sto aspettando lui, sto aspettando me.

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1 commento »

  1. Un racconto profondo che racconta un dolore silenzioso non spesso analizzato alla luce dei tempi contemporanei. Complimenti per lo stile scorrevole e personale

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