Premio Racconti nella Rete 2025 “Fierro” di Isabella Santarelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Alle otto sento squillare il telefono ma in reception non c’è più nessuno.
– Buonasera, cerco la dottoressa Lusia Fierro… ah è lei? Scusi, non l’avevo riconosciuta. La chiamo per informarla che mio marito è deceduto stasera. Può venire a prenderlo.
Chiude. Resto lì per un attimo, poi riattacco.
Devo finire il giro, preparare le terapie per domattina e chiudere alcune note per una pubblicazione. E comunque non posso uscire finché il collega non arriva. Inoltre, Erri e sua moglie abitano a due isolati da qui, quindi non c’è alcun bisogno che corra.
La frase mi rimane in testa. Deceduto. Mio marito è deceduto stasera. Un estraneo decede. Un marito no. Un marito si spegne, ci lascia, vola in cielo. Ma non decede.
Arriva il collega. Gli passo le cartelle cliniche, lo aggiorno. Me ne posso andare.
Fuori le strisce pedonali brillano di pioggerellina. Come sempre, niente ombrello. Li odio, ti occupano le mani e non puoi usarle per nient’altro.
Erri è morto.
Non mi va di guidare. Vado a piedi. Sono solo due gocce. Ho bisogno d’aria.
Erri non sentirà più la pioggia sulla pelle.
Cos’è questo sapore acido?
Il corpo lo sa prima di me. Mi piego. La bocca si riempie di saliva, una bava densa, che mi serra la gola. Cerco di deglutire ma non ci riesco.
Poi arriva.
Una contrazione profonda, che mi spezza il diaframma.
Un primo conato. Poi un secondo.
Il sapore aspro mi invade la bocca. Gli occhi lacrimano. I brividi sono quelli della nausea.
Mi tengo alla siepe con una mano, l’altra me la affondo nell’addome, come se potessi calmarlo da fuori.
Voglio solo sparire. Sotto le coperte. Dormire. Non esserci.
Ma devo andare a prenderlo.
Quando arrivo nel cortile del palazzo, mi faccio largo tra persone che non conosco. Devono essere parenti o amici di famiglia, accorsi qui dopo avere ricevuto la notizia.
Uno spilungone con baffi folti e una coppola in testa si scansa per lasciarmi passare, mentre un’anziana donna, irrobustita da un grosso paltò color carbone, tiene in braccio un bel gatto tigrato che, per non cadere, affonda le unghie sulla sua spalla. Passandole accanto, per un istante, sento le fusa.
Lì dentro, da qualche parte nella casa in cui sto per entrare, c’è lui. Sto per vederlo. Prefiguro il suo volto nella mia testa ma la sua immagine mi sfugge. La vedo sfocata, con i contorni mobili, come si vedono le cose quando apri gli occhi sott’acqua.
Mentre avanzo, ogni dettaglio di queste scale mi si imprime in testa con una nitidezza spietata.
Il primo gradino è spezzato in diagonale, verso il bordo. Chi sale si stringe a sinistra, sfiorando la parete, per evitare la crepa. A forza di passi, vedo un solco scavarsi lungo la scala: sempre lo stesso punto evitato, sempre lo stesso gesto.
Una cicca, schiacciata di traverso, esala l’ultimo fiato. Un tizio calvo, con vistosi occhiali dalla montatura in oro, mi urta la spalla scendendo e si scusa senza guardarmi. Colgo il suo riflesso nel vetro dell’estintore. E poi ci vedo me. Deforme. Grigia. Un cranio con la mia pelle cucita male sopra.
Le scale mi si oppongono con ferocia. A ogni gradino, le caviglie affondano in una sabbia vischiosa e il corpo lotta contro qualcosa di perverso e invisibile. Le ginocchia dolgono, cedono, si svitano in silenzio, fragili come quelle di una bambola, lasciandomi disarticolata e ansimante. Mi piego in avanti, arranco respirando avidamente, mentre le narici si riempiono di polvere e cera. Striscio. Raschio i muri con la faccia, la graniglia dell’intonaco mi scortica la pelle e il dolore mi scuote, ricordandomi perché sono qui.
La porta è aperta. L’ingresso e il pianerottolo si confondono in un solo spazio attraversato da passi, pianti sommessi e strofinii di fiammiferi. Entrando, mi avvolge un’aria tiepida e viziata, con note confuse di fiori e tè caldo.
Qualcuno esce, intruppando maldestramente nell’attaccapanni, che vacilla pieno di soprabiti scuri. Due donne anziane bisbigliano in un angolo del soggiorno tormentandosi le collane. Una teiera gorgoglia. Un telefono squilla da qualche parte e una mano lo zittisce in fretta.
– Povero Erri, così giovane, – dice qualcuno in corridoio. – Guarda, sembra che dorma, è affascinante anche da morto.
Frasi fatte. Serro i denti. Trattengo a stento lo sdegno nei confronti di tutti quelli che mi sono intorno e cerco la stanza.
Mi faccio largo tra i corpi vivi di questi sconosciuti nuotando. Mi piego, mi fletto, sinuosa. Attraverso la folla cercando di non toccare nessuno. E di non essere toccata.
Quando mi affaccio alla camera ardente, alcune donne dai capelli bianchi stanno ancora organizzando la veglia. Si scambiano occhiate segrete e si accordano su cosa fare con gesti d’intesa, pur di non rompere il silenzio. Sul comò ci sono tazzine sporche e posaceneri colmi di cicche. Una mosca risale il bordo di un bicchiere sporco di rossetto, abbandonato vicino alla specchiera. Chi viene a una veglia col rossetto?
Eccola là. La schifosa. Dev’essere lei, la bionda truccata che si apre il passaggio con le spalle, come se fosse a un vernissage.
Le donne, intanto, continuano a muoversi intorno al corpo immobile, benedetto, sacro di lui.
L’hanno già vestito. Abito blu, elegante. Una sistema il cuscino. Un’altra gli allaccia le scarpe. La postura è composta, le mani giunte sull’addome, nella santità insopportabile della morte.
Resto appoggiata allo stipite. Non entro. Non oso violare lo spazio sacro della sua camera da letto. Non riesco a immergermi nell’oceano sterminato di questa stanza, muta, plumbea, interamente sua, dalla quale emerge uno Stige nero e fangoso che mi trattiene alla sua periferia.
Osservo le sue dita. Affusolate, belle. Dita seducenti che, sfiorandomi per caso, mi stordirono. Un turbamento atroce e delizioso insieme. Una febbre improvvisa. Un trasalimento che mi lasciò muta, svuotata di ogni altro pensiero.
Il mio sguardo sale con cautela. Non voglio vedere il suo viso. Sto esplorando tutt’intorno l’intera estensione della sua testa, senza che i miei occhi precipitino negli ultimi, sedicenti angoli di quel volto senza più anima.
La morte ha cancellato la vena sul collo che quella notte pulsava furiosa. Quando piombò in clinica, quando il respiro affannoso che lo scosse lo immaginai su di me, quando i suoi occhi bruni, carichi di franca arditezza, mi raggiunsero fissandosi nei miei e vi versarono una gratificazione esilarante. Un desiderio dissennato di baciare ed essere vinta, un anelito cieco di perdermi in lui, di partecipare a forme eterne, di pietrificarmi in venerazione.
Ora giace. E il letto è un altare nero che mi sovrasta. Il suo corpo, offerto.
Tutt’intorno a lui, le sue sentinelle si danno un gran daffare e mi scrutano furtivamente con disprezzo. Accostarmi non oso.
– Dottoressa, grazie di essere venuta subito – sua moglie è ora accanto a me e mi stringe la mano. La presa è forte, risoluta. Mi guarda negli occhi mentre mi parla. Io, invece, cerco di evitarli.
– So cosa pensa. È appena morto e io già me ne disfo. Non è così. Vuole un tè? Ne ho fatto una caraffa per gli ospiti.
Non colgo neanche una crepa nella sua voce. Sembra stia dando indicazioni per un catering.
– Lusia, vero? Non le spiace se le do del tu? So che mio marito ti era molto affezionato. Raccontava a tutti di come lo avevi salvato.
– È il mio lavoro. Ci mancherebbe signora – rispondo algida, mentre fingo di adattarmi a un mondo in cui Erri non esiste più. Un mondo che stento a riconoscere, dove la terra è stata inghiottita dagli oceani, dove le costellazioni si sono capovolte tutte, dove ogni bussola è impazzita perché non esiste più orizzonte, e persino il colore della luce non è più lo stesso.
E mentre quel corpo sfigurato giace, il profumo di iris comincia a cedere il passo alla puzza di carogna. Sto aspettando che quegli occhi ardenti, ora opachi e annegati sotto le palpebre semichiuse, si svuotino nelle orbite. Aspetto che nel collo, nudo sotto il colletto bianco, si facciano largo i vermi. Putridi. Inviolabili. Che le labbra, calde di baci che non ho mai avuto, diventino blu. Che la dentatura si scopra, devastandole. Che quel volto d’angelo si gonfi di una burrasca sempre più grigia e che un liquido nero gli coli dalla bocca.
– Lusia, io non so come fare con lui. È nascosto sotto il tavolo della cucina e non mangia da ieri. Io non ho dimestichezza. Non posso pensare anche a lui adesso. Ho troppe cose da sbrigare, l’atto notorio, la banca…
Di tutto quello che dice, ascolto solo l’indispensabile: Fierro è in cucina nascosto sotto il tavolo.
Attraverso la casa. Dalla camera da letto al tinello schivo gli sguardi di diverse cariatidi che mi salutano con cenni del capo.
– Buonasera dottoressa, – mi dice una. Alzo lo sguardo, riconosco l’odiosa stola di pelliccia di una mia paziente. O meglio, il suo gatto è un mio paziente.
Trovo Fierro accovacciato sotto il tavolo. Piccolo come uno scricciolo, nonostante i suoi quaranta chili. Lo chiamo piano. Lui si volta verso di me, apre la bocca e muove la coda. Ha riconosciuto la mia voce.
– C’è qualcuno in turno? C’è nessuno! Aiuto!
– Non gridi, per favore, spaventa tutti gli animali ricoverati. Che succede?
– Presto dottoressa! Ho investito un cane! Ce l’ho in macchina! Lo so che non andava mosso, ma che facevo? Lo lasciavo in mezzo alla strada a farsi schiacciare dalle auto?
– Deve aiutarmi a caricarlo su questa coperta, la useremo come barella, se la sente?
Fierro, vieni. Esci da sotto il tavolo. È ancora il guinzaglio che ti ho regalato? Erri non l’ha mai cambiato. Non puntarti. Vieni, da bravo. Va tutto bene. Ti accarezzo la testona. Siamo io e te, adesso.
– Da piccolo avevo un cane simile, sa? Un gigante bianco, era un cane pastore. Non me lo perdonerei se non ce la facesse. È colpa mia. Non ho frenato in tempo. Pensavo di evitarlo, e invece…
– Ha il bacino fratturato e dovremo amputargli una zampa, ma non ha riportato lesioni agli organi interni. Ce la farà.
– Grazie dottoressa. Se lo salva, lo porto a casa con me. Forse era il destino, non crede? Chi l’avrebbe mai detto, ho un cane!
– Dovrà fare riabilitazione. É pesante e dovrà cavarsela su tre zampe. Vuol dire che dovrà stare a dieta per limitare il peso. Se la sente davvero di adottarlo? Ne è certo?
– Si, Lusia Fierro. Ho letto il suo nome sul camice. Lo adotto. Lo porterò al parco qui dietro. Abito a due isolati, è vicino.
– Bene, preparo i documenti di pre-affido allora. Sa già come lo chiamerà?
– Eh?
– Dico che per l’adozione ci vuole un nome
– Giusto, scusi. Vorrei chiamarlo Fierro. Mi è rimasto in testa da quando ho letto il suo nome. Sono sfacciato se le chiedo di venire con noi, una volta? Io sono Erri. E lei… è la dottoressa che ha salvato il mio cane. E anche me.
Fierro si lascia mettere la pettorina senza fare una mossa. Aggancio il guinzaglio, mi segue docile. Voglio guadagnare la porta senza voltarmi, senza salutare nessuno. Ma lui tira verso la camera ardente. Vuole andare da Erri un’ultima volta. Non posso oppormi.
Con dignità solenne, punta il naso verso l’alto. Annusa.
Annusa soltanto. L’odore gli basta. Gli dice tutto.
Io ancora non lo avverto, ma lui sì.
Tutto il borotalco umidiccio che gli gettate sulla pelle, tutte le lozioni, i fiori di cui lo circondate, tutti i rosari che sgranate per trattenere lo scempio al di là di questo talamo, non serviranno ancora a lungo a frenare quell’odore di frutta marcia, di pustole violacee, di sangue rappreso, che Fierro avverte già affacciarsi nell’aria, prima di tutti noi.
Abbaia.
Una voce roca, grave, sporca, piena di recriminazioni.
Erri rideva – Ha voglia di correre!
– Piano! Ricordati che ha solo tre zampe, non lo sforzare!
– Ma non vedi che già corre? Guardalo!