Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Spencer” di Isabella Santarelli

Categoria: In Concorso

Scesero dal furgone in due. Uno era alto e ossuto, con la pelle tirata sugli zigomi e gli occhi acquosi. L’altro era basso e tondo, con un’enorme pancia che sobbalzava sotto i baffi ispidi. Indossavano entrambi magliette a righe bianche e nere, come carcerati da fumetto: insieme, sembravano il numero dieci.

— Buongiorno signò. È questo il palazzo?

Feci cenno di sì.

— Ah ma io ‘sto portone lo conosco! Ho scaricato roba qui altre volte. Strettissimo. È un casino signò!

Si guardarono sbuffando.

— Lo sapevo — fece il primo abbassando la pedana del furgone.

Non m’importava. L’avevo trovato. L’avevo comprato. Lo volevo a casa.

Era un bestione ingombrante, più largo della soglia, più pesante di loro. Lo girarono su un fianco, poi sull’altro. Niente. Il portone resistette. Aprirono entrambi i battenti, il legno cigolò e partirono imprecazioni. Alla fine passò.

Poi le scale.

— ‘Sto palazzo è una maledizione — disse il più alto ansimando.

Io non sentivo niente. Niente tranne il mio cuore che batteva.

Dal rigattiere, in mezzo a vecchie lampade e a mobili sgangherati, l’avevo riconosciuto subito. Spencer, verticale, mogano, tasti d’avorio. Avevo sollevato il coperchio con una cautela nuova, quella che da bambina non avevo avuto, quando, sotto la tastiera, avevo inciso quattro lettere storte col mio coltellino: Lisa. Il mio nome era ancora lì.

— Signò, tutto a posto?

Sollevai lo sguardo. Il pianoforte era in cima alle scale ma non avrei saputo dire come ci fosse arrivato.

Dissi loro di sistemarlo in soggiorno. Lo volevo di nuovo al suo posto, vicino alla finestra, dov’era stato quarant’anni prima.

— Fatto! — esclamarono in coro, con l’aria soddisfatta di due bambini su facce da ergastolani.
Mi scappò da ridere.

Quando se ne andarono, la casa mi parve più viva. Spencer non aveva più il suo sgabello, così avvicinai una sedia del tavolo da pranzo.

Sollevai il coperchio. Ribaltai il leggio. Dal ripiano della libreria presi il Cesi-Marciano, Antologia pianistica per la gioventù.

Era il libro su cui, da ragazza, avevo faticato di più e, forse per questo, quello a cui ero più affezionata. Ne avevamo tempestato le pagine di segni rossi: correzioni, suggerimenti, punti esclamativi, cerchi nervosi intorno alle battute più ostiche.

Quei segni rossi erano il suo marchio.

Il maestro Mario Fiorani incideva ogni spartito con quella sua calligrafia inclinata, piena di svolazzi, alla maniera del corsivo antico.

Sfiorai le pagine con le dita. Il tempo aveva ingiallito la carta, ma non la memoria.

Mario Fiorani, il pianista, il compositore. Aveva scritto per cantanti, diretto orchestre e teatri, poi si era ritirato nel nostro quartiere.

Ogni tanto si presentava in tait, con sopra una giacca da camera rosso bordeaux bordata d’oro. Altre volte arrivava in una lunga vestaglia di raso marrone, con in testa un berretto a nappe grigie, attraversando la strada con la disinvoltura di un giovinsignore. Era magrissimo, tutto nervi e spigoli, con le labbra risucchiate in un severo contegno.

Quando suonavo, camminava avanti e indietro con le mani intrecciate dietro la schiena, inciampando nel bordo della vestaglia. Le sue dita, secche e ossute, si allungavano sugli spartiti come artigli, indicando ogni errore con la precisione di un chirurgo.

Spencer era arrivato a casa una sera d’autunno.

Sapevo che era un pianoforte usato e che la cassa armonica era stata interamente sostituita, ma non avevo idea a chi fosse appartenuto. Né, in quel momento, mi importava.

Avevo finalmente un pianoforte e il mio insegnante era stato trovato in fretta.

Paganini. Così chiamavo in segreto il maestro Fiorani. Non perché non ripetesse, ma perché, come il vero Niccolò Paganini, il suo virtuosismo era così inarrivabile da far sospettare un patto col diavolo.

— È così che si studia in Conservatorio! — gridava, sollevando le mani al cielo.

— Il genio non esiste! Il genio è studio, studio, studio e ancora studio! Questo passaggio lo ripeteremo fino alla consumazione dei secoli!

Pomeriggi interi sul Preludio in mi minore di Chopin e su Clair de Lune di Debussy. Le dita incespicavano, prendevano slancio, si tendevano alla perfezione.

Paganini era sempre accanto a me, col viso piegato in un’espressione di sdegno e col respiro lieve, mescolato a un odore penetrante di verbena. Tagliava il silenzio solo per correggere, con quella voce secca e con le sue convinzioni assurde sul rock, colpevole di imbarbarirmi l’orecchio. A volte, dietro la copertina dei miei spartiti, trovavo frasi scritte a margine, parole brevi, pensieri senza firma. Ma non serviva firmare: quella scrittura inclinata e svolazzante era la sua.

Una volta, tornando in soggiorno dopo una breve pausa, lo sorpresi mentre passava la mano sulla cassa di Spencer.

— Vecchio mio — disse piano, accarezzando la tastiera.

— Non pensavo ti avrei rivisto. Hai fatto un lungo viaggio, ma sei ancora tu. Anche se…

Quando si accorse di me, non terminò la frase. Si alzò di scatto e schiarì la voce.

Non disse niente. E anch’io rimasi in silenzio. Avrei voluto chiedere, ma scelsi di tacere.

Spencer gli era appartenuto? Non lo seppi mai. La luce dei lampioni attraversava le persiane della finestra ed esplodeva nei cristalli aguzzi del lampadario.

Non toccavo quei tasti da quarant’anni. Aprii il Cesi-Marciano a caso e provai a leggere una riga, giusto per vedere se ricordavo ancora. Non riconoscevo più nulla e leggere il turco sarebbe stato più facile.

Posai le mani sulla tastiera, irritata dalla mia incapacità. Non premetti i tasti, ma le dita si disposero da sole. Un accordo. Solo uno. Il più semplice: un DO maggiore.

Lo lasciai affiorare senza aspettative.

Il suono emerse dalla cassa armonica, riverberò sulle pareti, fece fremere il vetro della credenza, scivolò in cucina.

— Mamma! — mia figlia spuntò dal corridoio con la musica alta nelle cuffie.

— Potevi avvisarmi che era arrivato il piano, sarei venuta a darti una mano… Quant’è bello! Davvero era il tuo di quand’eri bambina? È incredibile che tu l’abbia ritrovato. Mamma, suona qualcosa, dai.

— Non ricordo niente. Ho provato un accordo, ma è come se non avessi mai studiato.

Suonai un accordo. Ne seguì un altro. Poi lasciai correre un arpeggio. Qualcosa dentro di me si mosse. E vennero il respiro musicale, la sospensione tra una nota e l’altra, il pedale di risonanza a modellare il suono, il fiato trattenuto fino all’accordo di tonica.

Suonavo.

Non bene, certo. I passaggi erano sporchi, i tempi incerti e il pianoforte andava accordato. Ma le note scivolavano fuori lo stesso.

Il giorno dopo accompagnai mia figlia a scuola di musica. Lezioni due volte a settimana, un’ora di rullate e colpi di cassa. Restai ad attenderla in sala come sempre, mentre lei, bacchette roteanti in mano, spariva dietro la porta imbottita.

In sala c’era un pianoforte a coda nero. Mi avvicinai e mi sedetti. Il coperchio era aperto.

Provai un accordo di DO maggiore, come la sera prima: Do Mi Sol. Ma le dita non riuscirono a scendere insieme e il suono uscì scomposto.

Tentai un arpeggio. La mano si inceppò. Riprovai. Una fatica enorme.

Un’insegnante sollevò lo sguardo dai suoi appunti. Aspettava. Premetti un altro tasto, poi un altro ancora. Ma il suono non si legava.

Chiusi il coperchio con un gesto secco e mi alzai.

Mia figlia uscì dalla sala con le bacchette ancora strette in mano e le guance accese.

— Mamma, hai suonato?

Non risposi.

Quella notte non trovavo pace.

La casa era un guscio vuoto, l’aria s’era fatta irrespirabile e il soffitto era un sudario che gravava su di me. Mi girai, chiusi gli occhi, li riaprii. Niente. Un dormiveglia fragile, interrotto di continuo. Poi, nel buio, un Do percorse il corridoio.

Mi sollevai di scatto con il cuore che accelerava. Un pianoforte può suonare da solo? Poco dopo, la nota echeggiò di nuovo, identica.

Intorno alle tre del mattino scivolai giù dal letto. I piedi nudi trasalirono sulle piastrelle fredde. La porta del soggiorno era socchiusa, la spinsi piano e trovai Spencer immerso nel chiarore della luna. Mi avvicinai. L’avorio dei tasti brillava umido di luce. Restai immobile, in ascolto.

Poi, udii ancora quel suono. Proveniva dall’interno.

Mi sedetti sulla sedia che usavo come sgabello, con le mani inerti in grembo.

Spencer mi aspettava. Chiusi gli occhi e sfiorai un tasto.

Le tre di notte. Troppo tardi per suonare, ma Spencer mormorò: non importa. E io lasciai scorrere le dita su di lui.

Le note si sollevarono, divennero onde lunghe, ritmiche, mare di notte sotto la luna.

D’improvviso mi accorsi che mi fissava. Uno sguardo inquieto, da cui traspariva un passato cupo. I tasti erano unghie affilate che mi graffiavano il palmo, i pedali si attorcigliavano alle mie gambe come tralci bislunghi.

Dov’eri stato Spencer? Cosa ti era successo? Per quanti anni il vecchio rigattiere ti aveva tenuto nascosto, sepolto sotto drappi pesanti, lasciandoti dormire un sonno impaurito?

Spencer crebbe, si dilatò, divorò la stanza.

Il mogano della cassa si allungò, si incurvò, prese una forma diversa.

Non era più un pianoforte. Era una bara. Era un pozzo profondo e nero, se vi avessi gettato un sasso, non l’avrei mai sentito colpire il fondo.

Lo fissai. Se lo avessi guardato abbastanza a lungo, forse mi avrebbe parlato.

Desideravo rivedere il Maestro Fiorani, seduto al pianoforte con Spencer e me, o anche solo vederlo inciampare nella sua vestaglia.

Ebbi il sospetto che fosse sepolto lì dentro. In fondo, forse, Spencer era appartenuto a lui, molto tempo fa. Era per questo che mi aveva chiamata?

— Mamma, che combini a quest’ora di notte? — mia figlia si era svegliata e ci aveva raggiunti in soggiorno. Spencer, alla sua presenza, era tornato un pianoforte inerte e silenzioso.

— Scusami tesoro, non volevo svegliarti. Hai sentito anche tu quella nota suonare da sola?

— Sì, ma è normale mamma. Mica ti sarai agitata? — disse sorridendo.

— È la cassa armonica che si assesta, — aggiunse. — Me l’ha spiegato oggi il mio insegnante di batteria, quando gli ho raccontato del piano.

Mi alzai e raggiunsi mia figlia alla finestra. Guardammo fuori.

Era quasi l’alba. Le prime luci tremolavano nei vetri dei palazzi, riflessi incerti nel chiaroscuro della notte che sfumava nel giorno. Per strada, i primi lavoratori scivolavano sull’asfalto ancora azzurrato dalla luna, avvolti nei loro cappotti pesanti. Fluttuavano in silenzio, forse erano anime dell’aldilà, con passo cadenzato, come se volassero. Tra loro, intravidi due uomini affiancati, uno alto e secco, l’altro basso e tondo. Indossavano magliette a righe bianche e nere, appena visibili sotto le giacche scure. Camminavano piano, scomparendo a poco a poco nella nebbia dell’alba. Stentai a credere alla loro realtà.  

— Ah mamma, oggi non ti ho raccontato una cosa.

Non distolsi lo sguardo dalla strada.

—Sai la biblioteca della scuola di musica? Quella dove avevi donato alcuni spartiti quando mi hai iscritta? Stavo cercando una drum chart e ho tirato fuori per sbaglio altre carte. Nel rimetterle a posto, mi è caduto l’occhio su uno spartito di Debussy, credo fosse Clair de Lune. Dietro la copertina c’era una dedica. Una scrittura svolazzante, un po’ d’altri tempi. Ecco guarda, l’ho portato a casa.

Continuai a guardare fuori.

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