Premio Racconti nella Rete 2025 “Pescespada” di Lucia Paolini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025«Il treno regionale 7248 è in partenza dal binario 5. Eventuali accompagnatori sono pregati di scendere.»
L’annuncio arrivò mentre stava attraversando il sottopasso e rimbombò, metallico e antico.
Un neon mezzo rotto fotografò più volte il suo passaggio. Elèna non aumentò il passo, ma continuò spedita, ascoltando i suoi tacchi echeggiare a ritmo con le parole elettroniche.
Binario 5.
L’aria fredda di una primavera che non si voleva decidere ad arrivare la fece stringere nel cappotto troppo leggero. “Avrei dovuto aspettare ancora qualche giorno prima di fare il cambio dell’armadio”, pensò, salendo la scalinata che portava al binario.
Il treno era lì, come ogni sera, ad attenderla.
Salì sull’ultima carrozza e si sedette poco lontano da una coppia di turisti che sonnecchiava, alcuni sedili più avanti. Nel giro di qualche settimana quel piccolo treno si sarebbe riempito di lingue e idiomi diversi, come una moderna Babele. L’aria cupa e abbandonata avrebbe lasciato spazio a gruppi festanti di stranieri in visita. La pioggia che rigava i finestrini faceva apparire quella possibilità ancora lontana.
Elèna lo sapeva bene: erano ormai sei anni che ogni giorno prendeva quell’ultimo treno per tornare a casa dopo il lavoro.
— “Ma non hai paura a prendere l’ultimo treno a quell’ora? Non è pericoloso?” —
Una domanda che aveva sentito così tante volte da aver smesso di provare a rispondere.
A dire il vero, non se l’era mai posta davvero.
Avrebbe potuto usare la macchina, certo, ma la verità era che quell’ora di treno le piaceva. Si rilassava, ascoltava musica, rimetteva in ordine i pensieri, qualche volta disegnava. Era un tempo solo suo. La solitudine e il silenzio di quel treno lo rendevano speciale.
Sì, a volte aveva incontrato persone poco raccomandabili, ma in generale, ricordava solo una grande solitudine e un silenzio piacevole, interrotto solo dall’annuncio della prossima stazione.
Appena si fu seduta, sentì la porta alle sue spalle aprirsi di nuovo e la voce di un uomo, probabilmente al telefono, entrò nel suo piccolo silenzio. .
La prima reazione fu di fastidio. Era capitato che, non vedendola, qualcuno si fosse perso in telefonate ad alta voce, rendendola spettatrice involontaria. Spesso bastava un colpo di tosse o alzarsi a sistemarsi il cappotto e il silenzio tornava a riempire il vagone. Altre volte non restava che fare buon viso a cattiva sorte : ascoltare o cambiare carrozza.
— «Certo, papà. L’ho comprato il pesce spada. Te lo ricordi come lo faceva la mamma?»
Elèna prese il telefono per controllare gli ultimi messaggi. Non si era voltata, ma sentì l’uomo sedersi pochi posti dietro di lei. Sperò che l’avesse vista e che chiudesse in fretta la chiamata.
— «Proprio quella. La ricetta speciale di mamma. Eh sì, mamma era una gran cuoca, altroché! Mi manca, sai? A me non viene così buono, ma l’ho comprato comunque, il pesce spada, per farlo proprio come lo faceva lei.»
A quelle parole, Elèna provò un moto improvviso di dolore e vergogna, mescolati come una medicina da mandare giù in fretta.
Non era tanto il rumore a infastidirla, quanto l’entrare, suo malgrado, nella vita di uno sconosciuto. Non voleva sapere niente di lui, né della madre, né del pesce spada. Eppure, con poche frasi, aveva già immaginato che quella madre non ci fosse più. Abbassò gli occhi, come in un saluto discreto e dignitoso.
— «No, i pomodorini vanno prima, papà, non insieme. Mamma faceva prima il sughetto: olio, aglio, sale, peperoncino, capperi e olive. Lo faceva cuocere un pochino, poi aggiungeva i pomodorini, e solo alla fine il pesce spada. Io lo faccio uguale, ma non mi viene come veniva a lei.»
Elèna si ritrovò a sorridere: il giorno dopo avrebbe potuto rubare quella ricetta e provarla, per il pranzo che aveva organizzato con alcune amiche.
Il treno fece una curva brusca e la porta del bagno si aprì con un tonfo. Un odore acre di urina e vomito invase il vagone. Elèna arricciò il naso.
“Devo smetterla di prendere l’ultima carrozza. I bagni sono sempre nauseabondi.”
Lo pensava ogni volta. Ma ogni volta si ritrovava lì e se ne ricordava solo quando era ormai troppo tardi.
La voce dell’uomo continuava a evocare ricette lontane. Elèna smise di ascoltarlo, lasciandosi assorbire dal buio oltre il finestrino. Senza nemmeno accorgersene, l’oscurità avvolse tutto il vagone. Il silenzio riprese le redini del viaggio. La telefonata doveva essere finita.
Elèna sospirò.
Alcuni viaggiatori le restavano dentro. Bastava poco: un sorriso, una frase, un dettaglio nel vestire, uno sguardo riflesso. O, come in quel caso, una ricetta.
— «Sì… dimmi, papà.»
Il silenzio fu di nuovo rotto. Questa volta Elèna non provò fastidio, solo una malinconia dolce e profonda.
Anche a lei era successo. Suo padre era rimasto vedovo molto presto e con la vecchiaia non sopportava più la solitudine.
— «Chi, papà? Arnold Schwarzenegger? Sì, è stato un grande attore. Ma non è mica morto… no, papà, non ancora… sì, lui invece sì. È vero, era bravo anche lui…»
Elèna ricordò le lunghe telefonate con suo padre. Riscoprì lo stesso colore in quelle parole, in quella voce. Lei però, in treno, evitava di chiamarlo — per non disturbare gli altri — diceva. Ma la verità era che quell’ora le apparteneva e non voleva condividerla.
Un lampo di vergogna le attraversò la schiena.
Anche loro parlavano di niente: lui le raccontava i telefilm visti durante il giorno, le chiedeva cosa avesse mangiato a pranzo. A volte ridevano e le telefonate erano allegre, come una giornata di sole, altre volte avevano nuvole scure piene di silenzi e domande che tornavano sempre:
— “Quando arrivi?”
— “Quando torni a casa?”
La mente del padre era rimasta lucida fino alla fine. Non era stata quella a morire per prima, ma il cuore. La solitudine lo aveva consumato piano. Per quanto Elèna lo sentisse ogni giorno e lo andasse a trovare ogni volta che ne aveva la possibilità, quella malinconia era come una macchia lavata troppe volte e che non andava più via. Alla fine, nessuno si era più preso la briga di tentare.
“Ora non mi vergognerei più di telefonarti, papà”, pensò. “Ora ce l’avrei la forza e parlerei con te per tutto il viaggio, raccontando al mondo la tua solitudine senza paura. Ora che non posso più farlo, mi manca perfino la possibilità di provarci. Siamo dei codardi. O forse lo sono solo io.”
Le parole salirono dal cuore agli occhi, seguendo il ritmo del treno. Sul suo volto riflesso nel finestrino, immerso nel nero della notte, vide una lacrima.
Si concentrò sull’uomo dietro di sé.
La sua voce era profonda, ben marcata. Doveva avere circa cinquant’anni. Con quella voce, forse faceva l’attore o lo speaker radiofonico. Aveva una grande cultura cinematografica… forse era un doppiatore? Elèna cominciò a immaginarlo.
Un uomo distinto, con un tocco dandy, retrò. Gli mise addosso un gilet di cotone su una camicia a fantasia minimal, un pantalone chiaro in flanella leggera con un paio di pieghe memoria della giornata, mocassini beige ben tenuti.
Al polso un delicato braccialetto d’oro, un regalo forse, magari della madre per il giorno della laurea.
Accanto a sé uno zaino: dentro, un tablet, un libro, un blocco notes. Un giornale oramai consumato dalla giornata e già letto, spuntava dalla cerniera dello zaino nel tentativo consapevole di finire in un cestino dei rifiuti.
Elèna provò a immaginarne il volto. Doveva essere un bell’uomo, con una barba ben curata, non troppo lunga. Un disegno nel disegno del suo volto. Decise che doveva avere degli occhi blu.
— «Come mai so tutte queste cose, papà?»
L’uomo si mise a ridere.
— «Non lo so, papà… ho studiato molto? È colpa tua, sei tu che mi hai fatto studiare tanto.»
Quella risata fece sorridere anche Elèna, si, doveva essere proprio un bell’uomo.
L’odore del bagno non si era dissolto e Elèna pensò che si sarebbe potuta alzare per andare a chiudere meglio la porta e così avrebbe visto il volto dell’uomo misterioso dalla voce profonda.
“Prossima fermata Viareggio, stazione di Viareggio,” recitò diligente il treno.
Non c’era bisogno di fare niente, ancora una stazione e sarebbe scesa.
Quando il treno iniziò a rallentare, Elèna si alzò, prese lo zaino e le sue cose e si avvicinò lentamente all’uscita.
Un ciuffo di capelli brizzolati spuntava da dietro un sedile poco lontano da lei in direzione della porta.
La voce proveniva proprio da lì.
Elèna percorse i pochi metri velocemente, quasi imbarazzata, come una ragazzina che è andata a spiare il ragazzino che le piace dietro le finestre della scuola.
Arrivata alla porta, la aprì e si girò timida.
Nello scomparto che aveva appena lasciato c’erano una coppia di turisti che sonnecchiava alcuni posti più avanti a quello dove era seduta lei e un uomo sulla cinquantina, con i capelli sale e pepe e gli occhi azzurri.
La barba incolta, un gilet di lana bucata con una maglietta sporca di cibo stantio come una fantasia minimal e i piedi con croste antiche di sudicio dimenticato lì chissà da quante docce fa, appoggiati senza rispetto sopra il seggiolino davanti.
Una busta della spesa con all’interno un pezzo di pane mangiucchiato da un essere umano da un lato e dalla muffa dall’altro e una testa di pesce arrotolata dentro a della pellicola.
Alcuni stracci, forse vestiti, in un altro sacco di plastica.
Al polso l’uomo aveva un braccialetto di carta bianca, memorie dell’entrata in un pronto soccorso di qualche città.
— «Si, papà… il pesce spada l’ho comprato… lo facciamo come lo faceva la mamma… Proprio quella. La ricetta speciale di mamma del pesce spada. Eh sì, mamma era una gran cuoca, altroché! Mi manca, sai, a me non viene così buono, ma l’ho comprato comunque il pesce spada, per farlo proprio come lo faceva la mamma.»
Le mani dell’uomo, con lunghe unghie dimenticate, si mossero a disegnare i gesti di un provetto cuoco che taglia e prepara un incredibile sugo di pesce.
Elèna scese il gradino e lasciò che il treno partisse dietro di lei.
Solo un ultimo sguardo verso quel finestrino dove l’immagine riflessa dell’uomo per un attimo si divise in due volti così distanti l’uno dall’altro.
— «Magari domani a pranzo lo cucino anche io il pesce spada per le mie amiche…’
pensò Elèna mentre scendeva il sottopasso per tornare a casa.
Eh sì, i segnali che ci arrivano a volte fanno partire film tutti nostri, ben lontani dalla realtà che poi risulta deludente. Però il cuore del racconto mi sembrano la nostalgia, il rimpianto e la solitudine di cui il pesce spada e la sua ricetta sono in un certo senso portatori: nell’uomo misterioso riguardo alla perduta mamma e al papà rimasto solo, nella protagonista Eléna per un papà forse non abbastanza seguito (“Ora non mi vergognerei più di telefonarti, papà”). Eléna forse, con le sue fantasie sull’uomo misterioso, rivela anche un altro tipo di solitudine che le amiche non riescono ad annullare del tutto. Ho l’impressione che la trama invisibile del racconto sia di una fondamentale malinconia con un simpatico guizzo finale di vivacità, coerente con il personaggio d’una donna sensibile ma anche indipendente e volitiva come sembra Eléna. Bella storia, complimenti e in bocca al lupo
Grazie per il suo commento e per i complimenti. Ne sono profondamente onorata. Grazie per l’analisi profonda e delicata del racconto, per aver visto le sfumature dell’anima della protagonista e per aver colto quel guizzo di vivacità.
È un piacere, gentile Lucia