Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “L’eredità” di Daniela Fabbri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Andrea aprì la porta del box e rimase sulla soglia. La stanza era enorme e vuota. C’era solo lei. Le ruote con i cerchioni bianchi erano l’unica parte visibile. Il resto dell’auto era  coperto dal telo in polietilene che aveva scelto al negozio di hobbistica. Si avvicinò e iniziò a scoprirla. Lentamente, come avrebbe fatto con una donna. Sollevò il telo partendo dal retro. Prima apparve il paraurti cromato poi le alette a forma di pinna. Si vide riflesso nella carrozzeria rossa, lucida. Aveva l’espressione di un bambino il giorno di Natale. Dopo aver tolto il telo, finalmente riuscì a vederla. La sua Cadillac Eldorado Biarritz. Con il dorso della mano accarezzò la fiancata. Delicatamente.
Era di suo padre, che l’aveva ricevuta in eredità dal fratello. In famiglia lo chiamavano lo “zio americano”. Non lo aveva mai visto e non sapeva granché di lui. Solo che si chiamava Giovanni e aveva quindici anni in più di suo padre, che era  il più piccolo di quattro fratelli. Tra loro, Edoardo e Francesco. Se n’era andato a vent’anni. Era partito per gli Stati Uniti e per molto tempo non fece ritorno a casa. Le poche informazioni che avevano di lui, erano quelle che Francesco leggeva a fatica sulle cartoline che arrivavano di tanto in tanto. All’inizio una volta al mese, poi sempre più raramente. Il postino passava tutte le mattine verso le otto e mezza. I tre lo sentivano arrivare perché iniziava a scampanellare con la bicicletta appena girato l’angolo della loro via. Allora gli correvano incontro e gli si paravano davanti, impedendogli di continuare il giro di consegne.
“Spostatevi, fatemi passare” diceva lui, reggendo a fatica il peso della bicicletta. Era carica di borse che contenevano lettere e cartoline.
“Cosa c’è per noi?” diceva Francesco, appoggiandosi con la mani e il viso al manubrio della bici.
“C’è una lettera di nostro fratello? Abita in America” continuava Edoardo, saltellandogli attorno. “Guarda in quella borsa lì. Hai già controllato in questa?” e intanto ci infilavano dentro le piccole mani. Il padre di Andrea, Giorgio, era timido e non diceva niente. Rimaneva lì a guardare l’uomo in bicicletta. Anche lui sperava che avesse portato qualcosa. Quando il postino porgeva una cartolina, Francesco, che era il più grande, gliela strappava dalle mani e correva in casa, urlando. Sua madre, le prime volte, si spaventava e lo sgridava. Poi quando aveva capito cosa significasse quel baccano, era contenta. Non sapeva leggere, così lasciava fare a Francesco. Aveva quindici anni e dopo suo padre, che era sempre fuori a lavorare, e suo fratello, che era in America, il ruolo dell’uomo di casa toccava a lui.
Francesco si metteva in ginocchio su una sedia della cucina, mentre i fratelli e la madre gli si facevano intorno. Gli piaceva avere tutta quell’attenzione su di sé e aveva preso l’abitudine di aspettare qualche minuto prima di leggere ad alta voce. Voleva che tutti rimanessero in silenzio, poi scorreva velocemente gli occhi su quelli che a Giorgio sembravano solo dei ghirigori. Da sinistra verso destra. Sembrava leggere attentamente ogni parola, ma i fratelli, nonostante fossero più piccoli di lui, avevano capito che faceva solo finta. Lo faceva per darsi delle arie. Poi iniziava. Leggeva faticosamente e male. Le parole sembravano spezzarsi nella sua bocca. Tutti però lo ascoltavano in silenzio. Sua madre sembrava sempre preoccupata. Aveva paura che ci fosse qualche cattiva notizia, ma puntualmente Giovanni scriveva che stava bene e che non c’era motivo di preoccuparsi.

Andrea era venuto a prepararla. Mancavano solo due giorni, poi l’attesa sarebbe finita.
Infilò una mano in tasca e tirò fuori le chiavi. Erano attaccate a un portachiavi d’argento con una moneta da mezzo dollaro. Aprì lo sportello e salì, sprofondando nel comodo sedile bianco di pelle. La mise in moto. L’auto sembrò tossire per un attimo, poi uscì dal box. Si fermò qualche metro più avanti, sul piazzale. Intorno c’era un grande campo di erba secca, ingiallita dal sole e da un maggio più caldo del previsto.
Prese un secchio, lo riempì d’acqua e ci mise dentro un po’ di detergente. Passò all’insaponatura e la risciacquò. Dopo che ebbe passato la pelle di daino sulle cromature, si allontanò di qualche metro. Si lisciò i folti baffi scuri e sorrise con soddisfazione.
Erano le sei di pomeriggio e il sole si rifletteva sulla carrozzeria.
“Non male” pensò, guardandola. La sua Eldorado Biarritz era del Sessanta. Decapottabile, rossa. Le alette avevano fatto storia. Fu la prima e l’unica ad averle.
“Eldorado Biarritz” ripeteva tra sé. Eldorado, come il luogo leggendario.

La prima volta che l’aveva vista la stava guidando suo padre, di ritorno da Genova. Lo zio americano era morto da un paio di mesi. Era rimasto sorpreso nello scoprire che gli aveva lasciato l’auto in eredità. Nonostante fossero fratelli non si sentivano spesso. Forse l’aveva fatto per farsi perdonare tutti gli anni di assenza da casa. Fargli capire che non li aveva mai dimenticati, nonostante fossero lontani.
Quando morì, i suoi fratelli presero un aereo e andarono al funerale.
Un mese dopo, arrivò la lettera di un avvocato. Parlava dell’automobile. Diceva che sarebbe arrivata con una nave cargo, pagata dallo zio d’America, che aveva pensato a tutto.
Andrea ancora ricordava il momento in cui suo padre era tornato con la Cadillac.
Sua madre era in piedi dietro alla finestra del salotto. Aveva spostato appena la tenda.
“O mio Dio!” la sentì esclamare. Poi lei e Andrea erano corsi fuori. Nessuno aveva mai visto niente di simile. Intanto era senza tetto, e già questa, sembrava una cosa incredibile, e poi era lunghissima. Suo padre era seduto al posto di guida e sorrideva. Andrea non gli aveva più visto quell’espressione,  a metà tra l’incredulità e l’euforia. Andrea invece non riusciva a muoversi. Era rimasto lì impalato, senza dire niente. Fermo nei suoi pantaloncini corti.
Suo padre scese e li invitò a salire. Fecero subito un giro. Sua madre non riusciva a crederci. Una macchina così l’aveva vista solo nei film americani. Il vento le scompigliava i capelli scuri e rideva. Andrea invece stava sul sedile posteriore, inginocchiato e guardando indietro. Le mani stringevano forte lo schienale bianco. Guardava le due pinne posteriori. Sembravano la coda di un aereo da guerra.
Per strada la gente li salutava. I vecchi seduti davanti all’uscio di casa li indicavano con il bastone. Papà sollevava la mano e accennava un sorriso, senza dire niente. Sembrava felice e imbarazzato al tempo stesso. Non gli era mai piaciuto essere al centro dell’attenzione. “Quella macchina sarebbe stata più adatta per Francesco”, disse una volta. Però le ultime volontà non si discutono. Così aveva accettato l’auto senza fare obbiezioni. Quando tornarono dal giro, Andrea avrebbe voluto continuare a giocarci ancora un po’, ma suo padre non aveva voluto sentire ragioni.
“La Cadillac è un gioco da grandi” aveva riso, appoggiando la chiave con il mezzo dollaro sul mobile all’ingresso.
Il giorno dopo la macchina era sparita. L’aveva portata in un terreno che aveva, a un paio di chilometri da casa. Aveva sempre pensato di coltivarlo, ma non l’aveva mai fatto. Aveva tagliato le erbacce e ci aveva costruito un box, sistemandola lì dentro. Ogni tanto andava a vedere che tutto fosse a posto, ma non la guidò più per diverso tempo.
Si concedeva quel lusso una sola volta all’anno. Il giorno del suo compleanno, il 2 giugno, o la domenica successiva.
Un paio di giorni prima, andava nel box e la tirava a lucido. La mattina stessa, si alzava e faceva una colazione abbondante, poi si chiudeva in bagno. Andrea sentiva il rumore dell’acqua che scorreva e quello del rasoio elettrico. Lo immaginava mentre si lavava la faccia e si faceva la barba, in canottiera. Usciva, andava in camera da letto e sceglieva con cura i vestiti e la cravatta. Le passava in rassegna, lentamente. A volte ci metteva anche dieci minuti a sceglierla. La prendeva e se la appoggiava sulle spalle. L’annodava davanti allo specchio. Andrea si sedeva sul letto, dietro di lui, e lo osservava. Muoveva le mani velocemente, come un prestigiatore, poi lo prendeva in braccio. Profumava di dopobarba Floid e di sapone Marsiglia, quello che sua madre usava per fare il bucato.
Ogni anno gli stessi gesti, come in un rituale religioso.
Padre e figlio, uscivano insieme di casa. Lo faceva scendere solo quando arrivavano di fronte alla bicicletta, in giardino.
“Aspetta qui, torno presto!” gli diceva. Andrea lo guardava allontanarsi, pedalando. Di solito tornava dopo una mezz’ora, a bordo della Cadillac. All’inizio del viale dava due colpi di clacson.  Andrea e sua madre si mettevano di fronte al cancello, come due soldati, sull’attenti. A quel punto lui fermava l’auto.
“Signore e signori, a bordo!” diceva con un sorriso. Madre e figlio si accomodavano e aspettavano che partisse. La meta del viaggio era il ristorante Rosalba. Sempre lo stesso. Andrea faceva il tragitto in ginocchio, sui sedili di pelle bianca. Gli piaceva guardare gli alberi che si riflettevano sulla carrozzeria lucida. Il ristorante era un cascinale rimesso a nuovo, dalla signora Rosalba, appunto, e da suo marito.
Pranzavano sempre al solito tavolo, quello sotto l’enorme tiglio. Era il più tranquillo. Le fronde si muovevano lentamente nel vento e regalavano un po’ di frescura. Da lontano arrivava la musica di una sagra paesana. Attraversava chilometri di quiete per arrivare fino a loro. Andrea sorrideva pensando a quei momenti. Guardava sua madre e suo padre ed era felice. Avrebbe voluto che la giornata non finisse mai. Per un anno, non sarebbe più potuto risalire sulla Cadillac.
“Babbo, la possiamo usare anche domenica prossima?” chiedeva.
“No. Altrimenti non sarebbe più speciale” gli rispondeva lui, sentenziosamente. “A volte è bello  aspettare”. Ed era vero. Suo padre era felice per tutta la settimana che precedeva la gita al ristorante. E ogni giorno di più. La mattina, lo sentiva fischiettare in bicicletta, mentre pedalava verso il box.
Erano molti quelli che avrebbero voluto comprargliela, lui aveva sempre rifiutato.

L’auto adesso era asciutta. Il sole si stava nascondendo dietro gli alberi lasciando dietro di sé una scia rossa. Andrea rimise la Cadillac a posto. Il giorno successivo, alle dieci spaccate era già davanti al box.

Guidò con calma lungo la strada. La capotte abbassata gli permetteva di sentire il sole sulla pelle. Dopo la curva, all’inizio della via di casa, diede un colpo di clacson. Era il segnale. Di solito suo madre correva ad aprire il cancello e il portone.
Entrò in casa. Lei era lì, già pronta. Stringeva la borsa di pelle nera tra le mani e sedeva sulla poltrona in salotto. Quando lo vide, sorrise.
“Ciao mamma” disse, baciandola sulla guancia.
“Tuo padre è di sopra. Sta finendo di prepararsi” disse, alzando gli occhi al cielo. “Lo sai com’è. Ci tiene a farsi bello” concluse con dolcezza.
Andrea salì i gradini delle scale a due a due. Era davanti allo specchio della camera da letto. Si stava annodando la cravatta. Le mani erano più incerte di qualche anno prima, ma gli ricordavano ancora quelle di un prestigiatore.
“Ancora un minuto e ho finito” gli disse. Il nodo era perfetto, come sempre. “Siamo pronti allora. Hai chiamato il ristorante?” chiese. Andrea annuì. Al ristorante Rosalba, che ormai era gestito dalla figlia, c’era un tavolo prenotato per loro. Sotto al vecchio tiglio.
Uscirono e Andrea aprì la portiera a sua madre, che si accomodò sui sedili posteriori, tenendo stretta la borsetta e aiutò suo padre a salire sul sedile passeggero. Da tempo non poteva più guidare. Così aveva chiesto ad Andrea di passarlo a prendere con la Cadillac, il giorno del suo compleanno. Aveva iniziato a sentirsi un po’ inutile. Non riusciva neanche più ad accompagnare sua moglie e suo figlio a pranzo fuori. Ma non voleva rinunciarci. Quando aveva visto gli occhi di Andrea illuminarsi, al pensiero di guidarla, la tristezza aveva lasciato il posto alla gioia. Probabilmente era giusto così. Fin da bambino sognava di poterlo fare, un giorno. E adesso era arrivato. Però gli aveva fatto promettere che non l’avrebbe usata tutti i giorni. Andrea non aveva fatto obiezioni. Suo padre gli aveva insegnato il piacere dell’attesa. Accese il motore e si voltò verso di lui. Lo vide sorridere.

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4 commenti »

  1. Il famoso zio d’America

  2. Eh già, proprio lui! 🙂

  3. Bello. Piacevole la prosa, che scivola via liscia, senza intoppi e delicato il racconto. Molto interessanti le storie che si nascondono nelle trame della storia principale. Lo rendono particolarmente ricco. Un elogio al piacere dell’attesa. I miei complimenti!

  4. Originale, gradevole e scritto molto bene. Complimenti!

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