Premio Racconti nella Rete 2026 “La giostra di Nonna Adelina” di Laura Signorini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2026“Adelina C” recita il minuscolo campanello sbiadito dagli anni e ormai muto da diverso tempo. La porta socchiusa è tutta scolorita e piena dei graffi dei tanti gatti che hanno vissuto qui, segni visibili come le rughe sul suo volto. L’aria è pervasa da un dolce profumo di mughetto, il suo. Siamo a tardo pomeriggio, fuori si brucia di caldo invece qui si sente un piacevolissimo fresco. Sono i finestroni che abbracciano il pianerottolo dai due lati e che da sempre lasciano passare un leggero venticello che riempie tutto del suo delicato profumo floreale. Quante volte sono corsa su e giù per queste scale e non ci ho mai fatto caso! Ma oggi no, oggi è diverso, oggi, dopo tanta, troppa assenza, niente deve sfuggire ai miei sensi; oggi sono qui per lei, per l’ultimo saluto al suo piccolo mondo, per sbloccare il mio nodo interiore che ho scoperto solo qualche giorno fa di avere.
Dall’interno arriva lo scricchiolio della carta stropicciata per imballare gli oggetti fragili intervallato dallo sciabattare concitato di mamma. Mi decido ad entrare ma da subito mi sento rigida e fredda come un automa; passo in rassegna ogni centimetro dell’ingresso, scandaglio le pareti e la scarpiera mezza sgangherata ormai semi vuota, ma non sento ancora niente. Tutto mi è indifferente, quasi estraneo, freddo. Com’è possibile? Ho trascorso in questa casa i miei primi 10 anni e ora che sta per essere svuotata e venduta mi sembra di non averla mai vista. Proprio adesso che ho assoluto bisogno di salutarla, di ringraziarla e di portarmi via qualcosa che mi faccia sentire ancora felice come quando eri qui con lei, con nonna.
Mi ricordo bene che era una casa sempre strabordante di gente, di giovani, tanti cugini e cugine, fratelli, sorelle, amici, morosi, sembrava di essere su di una grande barca e il comandante era lei, nonna Adelina, il nostro capitano, il nostro mozzo, la nostra cuoca, la nostra infermiera. Erano sempre tutti bene accetti, parenti ed estranei, per ognuno c’erano sempre belle parole, bei consigli, ma anche ceffoni e soprattutto c’era ottimo cibo, sempre, ad ogni ora del giorno e ad ogni giorno della settimana. Ecco forse in cucina troverò il modo di sbloccare questo pugno chiuso che mi comanda da dentro dalla telefonata di mamma dell’altro giorno e che mi robotizza i sentimenti.Mi muovo meccanicamente e in silenzio avvolta dallo sguardo impietosito di mamma che ancora non si capacita della mia reazione così violenta. In fondo sono la più piccola dei nipoti e quindi quella che ha visto nonna meno di tutti, eppure sono l’unica che sta soffrendo così. Nemmeno mamma ha la faccia triste, anzi sembra quasi sollevata, con nonna litigava spesso, su tutto, tanto che a volte, guardandola mi chiedevo perché mi avesse dato il suo nome se proprio non la poteva sopportare. Intanto, ignorando mia madre continuo a scivolare verso la cucina, i passi non sono proprio fluidi anzi più robotici che umani, che strano anche il corridoio non mi dice nulla anzi mi sembra persino più corto del normale. Da piccola, ricordo bene, invece era lunghissimo e poi con tutte le stanze che vi si affacciano se stavi per correre in cortile prima del tempo compiti di scuola potevi stare certo che nonna ti beccava sull’uscio. Nessuno arrivava alla porta senza che lei fosse già lì. Già, ecco un ricordo importante, come faceva lei così anziana e sempre indaffarata ad essere più veloce dei nipotini? Sento che è importante, è la chiave di tutto, ma non ricordo, non riesco a ricordare cosa la rendeva la guardiana perfetta e inflessibile del corridoio e di casa. Ho la testa che inizia a scottare a furia di concentrarmi e non mi accorgo nemmeno che il corpo ha segnalato alla testa di girare a sinistra, e come uno schiaffo ecco che mi risveglio dalla trance robotica in cui ero caduta e la vedo: è lei, è nonna, è proprio lei, grembiule gigante pieno di tasche, sempre macchiato, sottana di flanella color panna, ciabattine di feltro azzurrine e fazzoletto a fiori in testa.
È proprio nel mezzo della cucina che mi saluta e mi fa cenno di andare da lei. Istintivamente sento la gamba destra alzarsi con infinita, studiata lentezza e nell’istante esatto in cui il piede tocca la mattonella di coccio del pavimento mi rivedo con le trecce scompigliate e il vestito a balze che svolazza sulle mie gambette mentre mi tuffo tra le sue braccia e affondo il naso nel suo petto che sembra un praticello di mughetti. È un attimo e lo sento subito, stiamo girando su noi stesse, ci muoviamo ed è come se danzassimo tra le sedie del tavolone dirette verso la grande stufa in ghisa che ci attira con uno splendido profumo di bucce d’arancia e limone. Poi la sento, la sua voce forte, calda, con l’accento veneto così marcato, così esotico che mi ripete “Tienti forte dai che si va la giostra di nonna è partita”. Ed eccoci di nuovo a roteare per casa, sembriamo le tazze della giostra alla fiera di paese, ma slegate, libere di andare dove ci pare ed eccoci in salotto a ridere a crepapelle dei gatti che scappano con la schiena curva e il pelo ritto terrorizzati dai mille rumori delle ruote della nostra giostra che sui vari pavimenti di casa sembrano prima tante biglie che rotolano e poi tanti sassi che franano. Poi nonna inizia a raccontarmi tutte le marachelle di mamma, sembra che ogni angolo del grande salone riporti un segno della sua infanzia, un po’ come un piccolo tornado domestico. Da lì il passaggio al corridoio è un attimo, ma ecco ora ricordo perché adesso non mi comunica nulla, per me quello non era il corridoio di casa, quando ero in giostra quello era il museo personale di nonna. Alle pareti, allora come oggi, c’era appeso un mondo lontano, facce e oggetti sconosciuti, esotici, ricordi di attimi di vita vissuta dal nonno nei suoi viaggi di lavoro e che nonna reinventata per includere anche sé stessa in quelle piccole finestre di mondo. Nonna non viaggiò mai, lei era sempre a casa, c’erano sempre dei figli, dei loro amici e poi dei nipoti, delle fidanzate da accudire e sfamare e tutti dipendevano da lei.
Roteavamo piano per raccontarcele tutte quelle storie assurde e lontane e sembrava davvero di essere sempre in viaggio e lei mi ripeteva sempre che io sarei presto stata dentro quelle foto, che io sì che avrei viaggiato e che lei lo avrebbe fatto con me perché io ero lei versione moderna e non sono nel nome. Mi diceva di ascoltare bene il suono delle sue ruote sul marmo sconnesso del corridoio perché, secondo lei una volta somigliava al rumore del treno in India, un’altra volta a quello di una motocicletta in Perù. D’improvviso sento una mano calda sulla spalla e mi sembra di essere risucchiata da un vortice e mi ritrovo in cucina, vedo a fatica sembra di essere sott’acqua non distinguo bene niente ma sento di essere tornata adulta, mi giro verso la mano e cerco di mettere a fuoco ma non ci riesco e poi le sento, calde, salate, tante, grandi, ho la faccia tutta bagnata e sapore salato sulla lingua. Sto piangendo a dirotto, ma non solo, abbasso lo sguardo e mi accorgo che le mani sono strette intorno ai braccioli di una sedia girevole da ufficio. Ecco! Finalmente, ecco, ora tutto torna, mi sento finalmente libera, mollo la presa, mi asciugo con la manica gli occhi, cerco di mettere a fuoco anche se le lacrime continuano a scendere, ora però la vedo, è proprio lei, la sedia girevole di nonna; una vecchia sedia da ufficio su ruote con la seduta deformata al centro e lo schienale con la stoffa scolorita e strappata in una perenne smorfia. La sedia tanto odiata da mamma e i suoi fratelli, la fonte di eterna discussione.
Mi ricordo ancora le lamentele di nonna quando le dissero che doveva usare un deambulatore per far stare tutti tranquilli, ma lei niente, ferma e decisa rispondeva a tutti, anche al dottore, che lei era la regina di casa e quindi doveva avere un trono e non un trespolo come un pappagallo. E quanto le piaceva girare per casa e comandare tutti dal suo trono mobile! I cugini più grandi la prendevano in giro e quando si appisolava, le mettevano uno scopettone in mano e le scattavano mille foto con i telefonini sempre più nuovi, che poi mandavano in giro per il mondo sulle onde dell’etere. Io quando me ne accorgevo mi arrabbiavo sempre, la svegliavo e urlavo a tutti di lasciarla stare. Lei sorrideva, mi caricava a bordo e mi sussurrava all’orecchio che, in fondo le piaceva farsi fotografare, così poteva viaggiare come una vera regina e poi via, con un colpo di gambe “azionava” la giostra ed eravamo in viaggio lasciandoci dietro una nuvola di profumo al mughetto. Sembra assurdo ma rivedo tutto come se fosse successo ieri e più guardo la sedia più mi sento in pace e finalmente di nuovo felice.
Mia madre intuisce il mio cambiamento, bofonchia qualcosa di stizzato verso la sedia, ma sono parole indistinte, sembra quasi che abbia paura, sembra quasi che ci sia ancora seduta sopra nonna che la guarda seria e compita e le impedisce di avvicinarsi; poi come sotto un comando esterno mi accarezza, e se ne torna in camera e la sento di nuovo stropicciare carta per imballo. Io sto ancora guardando la sedia, piena di orgoglio me la sto già immaginando nel mio monolocale ai piedi del mio letto proprio accanto alla mia valigia da hostess.
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