Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2026 “Il rifugio” di Salvo Barbaro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2026

Mi rifugiavo sempre in un mobile del corridoio quando li sentivo urlare, uno di quei suppellettili bassi e con gli sportelli, capaci di contenere tutto me stesso. Mi mettevo lì al buio, poggiavo i palmi delle mani alle orecchie e ripetevo a voce bassa una filastrocca imparata all’asilo. Dopo tre volte, massimo quattro, finivo di bisbigliare, toglievo le mani, aprivo un’anta e mi accorgevo che anche loro avevano smesso di discutere. Il corridoio era come se mi guardasse e compatisse.

A tavola, la sera, c’erano silenzi devastanti, immensi. Lei, a testa china, si portava lentamente il cibo alla bocca e, succhiando dal cucchiaio, era come stesse attaccata a un respiratore per tenersi in vita. Lui, a stento mangiava, guardava in cagnesco lei, neanche chiedeva cosa avessi fatto a scuola, com’era andata la giornata e, soprattutto, come stavo. Le uniche parole che uscivano dalla sua bocca erano solo inerenti al suo nervosismo per via di quel collega, del lavoro stancante, dello stress, oppure perché lei non aveva comprato il pane o il latte o il formaggio con i soldi che gli dava lui. Lo guardavo e non riuscivo a capire niente. Provavo per lui solo una gran pena, anzi per loro.

Ormai il corridoio era la parte della casa dove passavo la maggior parte delle sere prima di ogni cena. In quel rifugio – né lui e né lei sapevano niente – mi ero portato anche una torcia, qualche libro di racconti, delle penne e un quaderno su cui disegnare qualcosa. Spegnevo così le loro liti, le resettavo, le rendevo immuni dal mio corpo. Il corridoio era il mio vaccino, oltre a un amico sicuro. L’unico amico. Non ne avevo tanti, mi vergognavo a invitarli a casa e far vedere che famiglia “particolare” eravamo. Poi, ero geloso del mio rifugio. Nessuno volevo che lo scoprisse. A scuola mi isolavo molto, non interagivo con nessun compagno di scuola. Non mi fidavo. Rispondevo male alle maestre e perciò, spesso, finivo fuori dalla classe, nel corridoio della scuola. E non era assolutamente come quello di casa. Tornato a casa, lei mi consolava richiamata dalla sua coscienza non troppo limpida, lui si arrabbiava e se la prendeva con lei. Una sera vennero i carabinieri, allertati per fortuna da qualche vicino. Un uomo in divisa – un papà, ci avrei giurato visto i suoi modi – dopo che i due si erano finalmente calmati, si era inginocchiato, aveva avvicinato i suoi occhi ai miei e mi aveva domandato come stavo, se andava tutto bene. Io, con la pura e semplice verità che contraddistingue un bambino, gli sorrisi e risposi che ero al sicuro. E lo ero per davvero. Poi, tutto si spegneva.

L’aria resettava qualsiasi voce e figura.Ogni mattina, lui, raggiante, pettinato e profumato, come se l’ira della sera prima fosse magicamente scomparsa, mi accompagnava a scuola in auto. Lei, come se niente fosse successo, sorrideva e lo baciava pure in bocca. Li guardavo e la mia piccola mente non capiva niente, come al solito intontito dai loro gesti e incapace di essere felice per loro. In auto lui era una persona completamente diversa: mi chiamava ometto e mi diceva che avrei spaccato il mondo un giorno o l’altro. In auto sorrideva. Fuori casa era un altro. Io pensavo solo che quella sua contentezza non mi piaceva, la detestavo. Senza i loro litigi, non mi sarei rifugiato nel mobile del corridoio e quindi non avrei mai avuto modo di proteggermi. Fuori dal corridoio ero infelice.Rientrava lui dal lavoro ed era come se la casa smettesse di respirare. Lei pochi minuti prima era contenta, giocava con me, mi faceva il solletico alla pancia e io ero felice. Lui era sempre scontento e arrabbiato. Continuavo a essere felice perché sapevo che di lì a poco avrebbero litigato e io, finalmente, sarei andato nel corridoio a chiudermi nell’armadio dove avevo portato anche un Topolino nuovo di pacca da leggere. Non vedevo l’ora. Una sera, però, quando uscii dall’armadio perché c’era silenzio, vidi lui con la camicia sporca di sangue e il volto pallido, fermo e immobile, con lo sguardo vitreo. Cos’hai fatto? chiesi e immaginai che lui avesse ammazzato un animale selvatico trovato in casa pronto ad azzannarci.

Non aveva ucciso nessuna bestia. Aveva scatenato la sua ira su di lei, la quale giaceva a terra esanime in fondo al corridoio, accanto al mio rifugio. Mi rimisi nell’armadio, chiusi le ante, poggiai i palmi sulle orecchie, chiusi gli occhi e recitai la solita filastrocca, urlando. Questa volta, però, piansi. Uscii dopo non so quanto tempo, forse quando fui più grande, maturo e la casa era vuota, silenziosa, diversa. Le lacrime sulle guance si erano seccate e sul viso mi erano cresciuti peli duri e ispidi. Non avevo paura perché, come al solito, c’era il corridoio a proteggermi.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.