Premio Racconti per Corti 2026 “Tre meriti e una colpa” di Paola Castagnino
Categoria: Premio Racconti per Corti 2026Elia aprì gli occhi in una stanza che non aveva porte né finestre. Solo bianco: come se qualcuno avesse cancellato il mondo attorno a lui. Non ricordava di essere arrivato lì. Non ricordava nemmeno l’ultimo respiro.
Davanti a lui comparve una figura immobile: l’Archivista. Non giovane, non vecchio. Non uomo, non donna. Una presenza che pareva sospesa tra ogni definizione.
«Benvenuto, Elia» disse con una voce che non era suono, ma certezza. «Non temere. Ora è il momento della verità.»
Elia avvertì un nodo nello stomaco. «Sono morto?» chiese con un filo di voce.
«Hai lasciato il corpo» rispose l’Archivista. «Il resto è qui, con noi.»
Sul tavolo apparve un piccolo tablet bianco. «Dovrai scegliere tre persone che parlino dei tuoi meriti. Solo questo. Le colpe… saranno valutate poi.»
Elia capì che non aveva scelta. Eppure, la paura non derivava dal giudizio altrui, ma dal suono della parola “colpe”, detto con una calma che non prometteva indulgenza.
Sul tablet scorsero nomi e volti, una vita intera. Elia selezionò tre persone: la figlia Lucia, il compagno di squadra Pietro, e sua madre, Anna. Confermò con un tocco esitante.
La stanza si oscurò e lo schermo si accese davanti a lui.
La prima a comparire fu Lucia. Era su un molo, i capelli biondi scompigliati dal vento con naturalezza, come se fosse nata per stare lì.
«Papà» disse con un sorriso dolce. «La vela non era solo uno sport. Era il nostro modo di stare insieme. Tu eri la mia rotta, non il mio traguardo. La mia forza sei sempre stato tu.»
Elia inspirò forte, come se quelle parole gli riempissero i polmoni per la prima volta.
Il secondo a comparire fu Pietro, nel corridoio di uno spogliatoio deserto.
«Io ero un caso perso» disse il giovane con occhi lucidi. «Ma tu mi hai visto diverso. Non mi hai salvato parlando: mi hai salvato stando accanto a me. Non sarei un uomo, oggi, se non ci fossi stato tu. Non sarei vivo, se non ci fossi stato tu.»
Elia abbassò lo sguardo. Intuiva di aver fatto tanto per lui, sapeva che avrebbe voluto fare molto di più.
L’ultima fu Anna, sua madre. Seduta compostamente, con lo stesso portamento altero che aveva avuto in vita. Lo guardava come si guarda un quadro che si conosce da sempre e si comprende solo alla fine.
«Elia» disse con voce ferma, «non sono stata una madre facile. Né affettuosa. Né indulgente. Eri tu a meritarlo, non io.»
Sollevò leggermente il mento, quasi per difendere la sua dignità intatta. «Ma quando sono rimasta sola e il mio corpo non rispondeva più, sei stato tu a restare. Tu a curarmi. Tu a sopportare il mio silenzio e il mio orgoglio. E per questo… ti sono grata.»
Elia si portò una mano alla bocca per soffocare la commozione.
Lo schermo si spense. La stanza tornò bianca.
Un suono secco provenne dal tablet. Sul display apparve un messaggio: «Testimonianze delle colpe disponibili.»
Elia premette il tasto con riluttanza.
Lo schermo si accese. La prima a comparire fu Anita, seduta in un salotto silenzioso.
«Non mi hai fatto del male» disse senza preamboli. «Hai fatto peggio: non mi hai guardata.»
Restò immobile, come se non volesse concedere neppure un respiro superfluo.
«Sai qual era il problema, Elia?» Abbassò lo sguardo, quasi infastidita dai propri ricordi.
«Io volevo solo che tu ci fossi. Non che fossi perfetto: che fossi presente.»
Un sorriso amaro le attraversò il volto. «Non mi hai ferita per cattiveria. Mi hai ferita per assenza. Che a volte è peggio.»
Poi, con un filo di voce: «E questa… è stata la tua vera mancanza.»
La visione svanì e apparve un luogo. Un laboratorio che sembrava respirare polvere. Un banco di lavoro impolverato. Un vecchio computer. Una vela piegata. Progetti incompiuti.
Una voce neutra dichiarò:
«Questa era la tua vita più autentica. E tu l’hai lasciata morire.»
Elia vacillò. Un attimo sospeso. Come un colpo trattenuto.
Poi l’immagine, all’inizio sfocata, si fece nitida, precisa come un ricordo che torna troppo tardi.
Era lui.
Lui a venticinque anni, luminoso, vivo, con una postura che sembrava proiettata in avanti. Gli occhi gli brillavano di quella fame di mondo che non si può fingere.
«Ciao», disse il ragazzo.
Elia adulto fece un passo indietro.
«Non sono qui per accusarti» proseguì il giovane. «Sono qui perché sono la tua colpa. Tutto il resto viene da qui.»
Sentì il cuore mancargli per un istante.
«Io sono quello che scriveva. Che sognava. Che voleva viaggiare, imparare, costruire.»
Sorrise amaramente. «E tu hai smesso di portarmi con te.»
Elia adulto scosse la testa, disperato. «Io ho vissuto una vita intera, io… io ho amato… ho lavorato… ho fatto del mio meg…»
«Hai fatto del tuo meglio» lo interruppe il giovane. «Ma non del nostro meglio.»
Lo schermo si oscurò. Elia restò trafitto, immobile.
L’Archivista riapparve accanto a lui, senza fare rumore.
«Allora?» chiese Elia, con un filo di voce. «Dove… dove devo andare adesso?»
L’Archivista lo guardò con un’espressione che non era né pietà né severità, ma qualcosa che assomigliava alla verità.
«Non sei qui per essere giudicato» disse. «Sei qui per ritrovare te stesso.»
Un lungo silenzio li avvolse. Qualcosa nella luce cambiò, diventò più calda.
Per un istante appena, lo schermo si riaccese. Ma l’immagine del giovane Elia sfumò rapidamente, come assorbita da un bagliore che cresce.
Al suo posto apparve Lucia, la figlia. Semplice. Serena. Con la luce dell’alba negli occhi.
Lo guardò come faceva da bambina, sulle barche, quando un padre e una figlia parlavano con la voce del mare.
«Hai fatto abbastanza, papà» disse. «Ora continuo io.»
La sua immagine svanì come un’onda che si ritira.
La luce si aprì dentro di lui.
Elia — finalmente — avanzò.
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