Premio Racconti nella Rete 2025 “Il tram” di Jacopo Ghirardo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025Il comune decise che quello sarebbe stato l’ultimo anno in cui i tram arancioni avrebbero circolato in città. Erano troppo costosi da mantenere, dicevano. E non avevano tutti i torti: sembravano veicoli usciti dal passato, un passato dove il massimo prodigio tecnologico era l’elettricità.
Per i romantici come G. però, questo aspetto non era importante. G. amava tutto di quei curiosi mezzi. Amava il loro sferragliare tra le vie del centro, amava i sedili in legno laccato e amava l’atmosfera calda e accogliente che si respirava una volta a bordo. Amava perfino quelle frenate brusche di fronte alle paline, con le porte che si aprivano con uno scatto netto. Amava il suono che produceva l’inserimento delle marce e amava quel lungo, triste ululato che emettevano quando ripartivano, fino a raggiungere la loro modesta velocità massima.
Ma più di tutto G. amava il loro colore: quell’arancione acceso, forte, che sembrava studiato apposta per unirsi all’azzurro del cielo e stimolare l’occhio a ricreare un verde stupendo, proprio quello dei viali alberati; l’habitat naturale di quei dinosauri.
Accadde una sera di fine luglio. Passeggiava con la testa per aria tra le vie deserte del centro, ripensando alle ultime notizie sulla serie di cadaveri mutilati sparsi per la città nelle settimane precedenti. Nessuna autorità aveva ancora osato esprimersi, ma tutto sembrava ricondurre a un unico assassino ancora a piede libero; ragion per cui era stato sconsigliato aggirarsi di notte non accompagnati.
G. attribuì a questa sua imprudenza la fortuna di vedere ciò che vide: in mezzo a uno dei viali principali, uno di quelli da lui percorsi innumerevoli volte a bordo di un tram arancione, stavano affilando le rotaie. Sul momento non realizzò subito cosa stesse succedendo. Pensò soltanto che non aveva mai assistito a niente del genere durante il suo risibile arco di vita. Una fontana di scintille alta tre metri illuminava il cielo scuro della sera, mentre uno stridio metallico acutissimo veniva generato dallo scorrere coatto delle ruote di una cabina, che procedeva solenne lungo le rotaie.
Sconcertato, cercò di immortalare il momento, ma si rese subito conto di non avere i mezzi adatti per catturare una tale visione. Si ripromise di rimediare il giorno successivo e così fece. Contattò un amico esperto di fotografia, che in quattro e quattr’otto gli procurò un corredo di tutto rispetto.
“Ricordati però che la cosa più importante è il soggetto” lo ammonì l’amico con serietà, dopo aver tessuto le lodi dell’apparecchio scelto.
“Il soggetto?” chiese curioso G.
“Sì insomma, quello che vuoi fotografare. Se non ce l’hai ben chiaro quando scatti, ti ridurrai nel giro di poco a fare foto alle aiuole fiorite nei parchi o al cibo che mangi. Ma quello puoi farlo con un qualsiasi smartphone”.
G. lo ringraziò per il consiglio a tornò a casa elettrizzato con il suo nuovo acquisto.
“So perfettamente cosa voglio fotografare” si disse.
I mesi successivi li passò infatti a scattare foto ai tram. Sperimentò quanto tempo e pazienza richiedesse coglierli al momento giusto e si chiese se anche per gli altri soggetti fosse così. Innanzitutto la luce non era sempre ottimale: a seconda dello sfondo cittadino su cui voleva vederli scorrere, bisognava aspettare l’ora giusta del pomeriggio o del mattino; non sempre il sole li illuminava come aveva in mente lui. Inoltre, col procedere dello smaltimento, la flotta circolante si era piuttosto ridotta. A volte doveva aspettare un’ora prima di vederne passare uno e magari lo scatto riusciva anche male. La cosa positiva – se così si può dire, pensò – era che ormai poca gente saliva più sui tram. I quotidiani locali avevano infatti sparso la voce che gli omicidi fossero in qualche modo correlati ai tram arancioni. C’era in effetti una curiosa coincidenza: le vittime, il cui numero continuava a crescere, erano state tutte avvistate l’ultima volta nelle vicinanze di una fermata dei tram o addirittura sul tram stesso. In ogni caso questo non impensieriva troppo G., che anzi, proprio grazie alla mancanza di ulteriori elementi di disturbo, stava raccogliendo del materiale piuttosto completo e ben fatto.
“Non ti stufi di fotografare sempre e solo tram?” gli chiese un giorno l’amico fotografo dopo aver visto i risultati ed essersi complimentato con lui.
“Ho ancora un sacco di foto in mente da scattare, un sacco di posti in cui aspettare che passino!” esclamò G. infervorato. L’amico scosse la testa come di fronte alla goffaggine di un cucciolo di cane e G. si irritò.
“Sono i luoghi della mia infanzia e adolescenza, non puoi capire”
“Anche io ho luoghi cui tengo molto, cosa credi?”
“E come fai? Per riviverli, intendo…”
“Li ho tutti qui” rispose l’amico picchiettandosi la tempia, “stanze e stanze in cui entro da solo, di tanto in tanto”.
G. non era affatto convinto fosse quella la soluzione, ma cercò di dare ragione all’amico.
“E fai attenzione… Hai letto le notizie, vero?” chiese a G. abbracciandolo.
“Farò attenzione” gli promise G. per tranquillizzarlo; ma già il giorno dopo chiese due ore di permesso dal lavoro per appostarsi su una sperduta palina di periferia.
Nei mesi successivi tuttavia la città piombò nel panico. L’”assassino dei tram”, come era stato battezzato dai media, continuava a colpire indisturbato. La gente aveva paura a uscire di casa e l’autunno, un’ottima stagione per il turismo in condizioni normali, vide un misero afflusso di gente provenire da fuori. A poco servivano le misure prese dalla polizia – che aveva aperto una infruttuosa caccia all’uomo – così come gli scioperi del personale dei trasporti pubblici, che si sentiva ingiustamente accusato e sotto processo. L’assassino continuava a mietere vittime di ogni etnia, ceto ed età; la città diventò via via più fredda, le persone più spaventate.
Tutto questo sembrava non sfiorare G., che sfruttò addirittura l’ondata di terrore per chiedere dei permessi da lavoro sempre più frequenti. Il suo reportage era quasi giunto al termine, ma era ormai ai ferri corti con i suoi capi.
“Non puoi continuare in questa maniera” lo riprese un giorno l’amico.
“Mancano solo gli interni”, rispose G. con gli occhi spiritati di chi è in trance agonistica.
“Ti ha dato di volta il cervello?”
“Perché?” replicò G. stupito.
“Ti farai licenziare e rischi anche di farti spaccare la testa!”
“Oh… Questo intendi… Pensavo ti preoccupasse l’aspetto tecnico… Sai, le foto in interni…”
L’amico afferrò G. per le spalle e lo guardò dritto negli occhi.
“Se ti chiedessi per favore di smettere?” disse con il tono più serio di cui fosse capace.
“Ti ringrazio, ma non farebbe alcuna differenza”
Il giorno dopo, invece di andare a lavoro, studiò con la precisione di uno stratega quali fossero l’orario e il percorso migliori per riprendere gli interni di un tram.
“Il massimo sarebbe la sera” pensò a fine giornata fra sé e sé, “quando fuori il cielo tende al blu e dentro ai tram c’è quel bel giallo ambrato. E poca gente.”
L’indomani mattina era domenica e l’ultimo dei pensieri di G. era la convocazione dei suoi capi per il giorno seguente. Nonostante le prospettive fossero tutt’altro che positive, G. era concentrato come non mai sul suo obiettivo: quel freddo giorno invernale avrebbe concluso il suo reportage.
Intorno alle cinque del pomeriggio, si appostò alla fermata e aspettò il tram. Non c’era un’anima in giro. La zona che aveva scelto era poco servita dai mezzi, ma si convinse che valesse la pena di attendere. Avrebbe avuto tutti i tempi per impostare la macchina fotografica e scattare prima che il tram raggiungesse un’area più centrale della città.
A un tratto il tram fece capolino dal viale alberato in lontananza. La luce era sufficiente a rivelare il colore arancione del frontale, ma il guidatore aveva già acceso il fanale anteriore in via precauzionale. G. si complimentò con sé stesso per la fortuna di aver trovato il mezzo giusto e si beò dell’azzurro intenso di cui si tingeva il cielo invernale a quell’ora.
“Non potrebbe esserci un momento migliore” sussurrò al vento.
Il tram si avvicinò lentamente alla fermata, frenò e aprì le porte con quel suono secco che lui adorava. G. salì e si guardò intorno: a bordo, per fortuna, non c’era nessuno. Il roco lamento prodotto dal pantografo nell’aria e dalle ruote sulle rotaie lo avvertì che stavano partendo. Le fermate successive non portarono nessun nuovo passeggero e G. riuscì a fare i primi scatti indisturbato. Con suo enorme piacere il conducente aveva una guida pulita, liscia, che non produceva scossoni o vibrazioni inaspettate.
Dopo neanche un quarto d’ora G. si sentiva già soddisfatto di quella prima ventina di foto e si sedette per qualche minuto sugli scomodi, amatissimi sedili in legno e acciaio. Sua madre, da piccolo, gli lasciava il posto se il tram era pieno. Guardò fuori dal finestrino con un piccolo groppo in gola. Poi si riscosse. Pensò alle tappe successive e a dove gli sarebbe convenuto scendere, ma si accorse che si trovava in una zona della città che non conosceva. Non c’erano fermate in vista né si ricordava di aver sentito il tram decelerare e riprendere la corsa da almeno dieci minuti. Un brivido lo percorse. Si guardò intorno e d’istinto prenotò la fermata successiva. Il tintinnio deciso e l’illuminarsi dell’insegna “FERMATA PRENOTATA” lo rincuorarono per un attimo, ma solo fino a che il tram passò senza fermarsi davanti a una palina, sulla quale a G. parve di leggere “CAPOLINEA”. Si attaccò ai finestrini, come se quello avesse potuto aiutarlo a orientarsi, ma non riconosceva per niente la zona.
Si alzò e con passi svelti si avvicinò alla cabina del guidatore.
“Scusi, ma…” iniziò a dire. L’uomo ai comandi voltò la testa e gli lanciò uno sguardo che gli fece gelare il sangue. Aveva gli occhi profondi come un abisso, così scuri che l’iride si confondeva con la pupilla. Erano calmi, ma vuoti. Le forze abbandonarono G.
“Sei tu, vero?” chiese infine con tono rassegnato.
L’uomo si limitò ad annuire impercettibilmente, poi riprese a fissare la strada.
G. tornò a sedersi al posto di prima e a guardare fuori dal finestrino.