Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Qual è il mio nome?” di Claudio Lacava

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

Dov’era?

Chi era?

Il ruggito dello stadio si dissolse in un lontano ronzio.

Gomes scrutò la folla, cercando un volto, un segno, ma niente.

Tra le sue mani, la maglia azulgrana, numero dieci: Messi. Eppure, il suo nome sembrava svanito nel nulla.

Aveva vinto la Champions League.

Con il Barcellona.

Nello stadio del Barça.

Barcellona esultava, ma lui?

Un’ombra tra il boato.

Sapeva di essere nato e cresciuto in città, di amare il mare e, più di se stesso, amava il calcio.

Si guardò ancora una volta intorno.

La città era un’onda in festa.

Un nodo alla gola gli impediva di respirare.

Si fermò di colpo. Provò a ricordare.

Il cognome era Gomes, ne era certo, ma il nome?

Niente.

Un vuoto nero.

Si prese la testa tra le mani…

Provò a ricostruire la sua vita, ancorata al calcio.

Era il prototipo di un ragazzo catalano: carnagione olivastra, occhi profondi, capelli castani scompigliati dal vento di Barcellona.

Non alto, ma agile e muscoloso, frutto di ore inseguendo un pallone.

I suoi amici lo chiamavano “El Rayo”, il fulmine, perché quando scattava era quasi impossibile fermarlo.

Il suo idolo era Lionel Messi, e non c’era notte in cui non andasse a dormire immaginando di fare l’assist decisivo alla Pulga (Pulce era il soprannome del campionissimo del Barça) sotto gli occhi di migliaia di tifosi in delirio.

Il calcio, per lui, non era solo un gioco: era la sua via di fuga, l’unico modo per sfuggire a una realtà dura, fatta di povertà e sacrifici.

Improvvisamente un flash.

Un’auto su una strada periferica.

Suo padre al volante, lui abbracciato al suo vecchio pallone sgonfio.

Poi, fari accecanti, un rumore assordante.

L’auto si capovolse.

Quando riaprì gli occhi, era solo.

Due sagome immobili accanto a lui.

Rimasto orfano a dieci anni, la zia tentò di adottarlo, ma il tribunale glielo negò.

Fu affidato a una coppia di Madrid.

Per un catalano, un destino avverso.

Felipe amava il Real Madrid, Maria seguiva la sua passione. Erano persone buone, ma non bastavano a colmare il vuoto di Gomes.

Un giorno, in edicola, lesse che il Barça avrebbe fatto un provino per giovani calciatori.

Era la sua occasione.

Doveva andarci.

Sapeva che Felipe avrebbe rifiutato di accompagnarlo.

Così Gomes scappò.

Rubò dei soldi dalla borsa della madre adottiva, infilò i suoi vestiti da calcio in una sacca e uscì di casa nella notte.

Salì su un treno per Barcellona.

Arrivato in città, corse dalla zia, che lo accolse con un misto di affetto e rigidità.

“Non puoi restare, lo sai bene. Non sarebbe giusto né per te né per loro.”

Aveva il volto segnato dalla stanchezza, ma nei suoi occhi c’era qualcosa di irrisolto, un dolore antico mai confessato.

“Ti prego, zia… solo fino al provino. È tutto quello che ho.”

Lei esitò.

Alla fine, sospirò e annuì.

“Va bene. Ma se non passi, torni a Madrid.”

Il mattino dopo Gomes era già pronto per uscire.

Il cuore gli batteva forte mentre stringeva tra le mani la sacca con la sua divisa da calcio.

Non si aspettava di sentire il campanello suonare così presto, né che la zia scattasse in piedi con un’espressione nervosa.

Erano Felipe e Maria, entrambi con volti tesi e stanchi.

Gomes si gelò, un’ondata di rabbia e tradimento lo travolse.

“Li hai chiamati tu?! Mi hai tradito!” urlò.

La donna non rispose.

Il padre adottivo entrò in sala visibilmente agitato.

“Gomes, ti rendi conto di cosa diavolo hai fatto? Rubare e scappare? Tua madre era fuori di sé dalla preoccupazione!”

Il ragazzo urlò, con voce rotta.

“Io non sono vostro figlio, e lei non è mia madre! Non sapete cosa significa vivere con quest’odio per Madrid!”

I suoi occhi color ebano guardavano duramente la zia: “Avevo bisogno di una possibilità. Ma tu… tu hai distrutto tutto.”

“Non ho distrutto nulla – rispose lei – se credi che scappare sia la soluzione, ti sbagli di grosso. Affronta chi ti vuole bene, invece di fuggire.”

Gomes tremò, confuso e arrabbiato.

“Voglio solo tornare a casa… Voglio giocare a calcio, qui, a Barcellona. È l’unica cosa che mi fa sentire vivo.”

Maria lo guardò con occhi pieni di dolore, ma anche di amore.

“Capisco. Se questo provino è davvero importante per te, allora fallo. Ma vogliamo essere lì, insieme a te.”

Il campo della vita si stendeva davanti a lui, un luogo che sembrava vivo. Gomes sentiva il peso delle aspettative e l’adrenalina delle promesse non dette.

Doveva dimostrare chi fosse davvero: “El Rayo”.

Arrivò al campo in anticipo.

Decine di ragazzi si riscaldavano, occhi fissi sul sogno.

 L’allenatore li scrutò.

“Qui si dimostra di essere i migliori.”

Gomes studiò il difensore, rallentò, lo ingannò con una finta. Poi esplose in velocità.

Cross perfetto, gol decisivo.

A fine partita, il mister gli si avvicinò.

“Hai talento, ma devi avere fame.”

Gomes lo fissò.

“Non voglio altro al mondo.”

Il mister sorrise.

“Benvenuto.”

Diversi anni passarono tra allenamenti massacranti, tattiche studiate nei minimi dettagli e la scuola, che affrontò con un entusiasmo rinnovato.

Dopo un allenamento particolarmente intenso, l’allenatore della Cantera (le giovanili del Barcellona) si avvicinò a lui.

“Gomes, devo parlarti. C’è qualcuno che vuole vederti giocare. Ernesto Valverde, allenatore della prima squadra, sarà qui domani.”

“La prima squadra? Vuole vedere me?” sussultò incredulo.

 Il mister sorrise appena.

“Non capita tutti i giorni. Non sprecare questa opportunità.”

Dopo una notte insonne, Gomes si presentò all’allenamento con i nervi tesi.

Valverde era lì, in tribuna, impassibile.

Al termine dell’allenamento, si avvicinò al ragazzo.

“Gomes, detto El Rayo, vero? Ho sentito parlare di te.”

Il ragazzo balbettò per l’emozione.

“S-sì, Mister.”

“Sei pronto a giocare con i grandi?”

Il ragazzo annuì incredulo, senza riuscire a profferir parola.

 “Domani, ti voglio con noi. Sarà solo un allenamento, ma voglio vedere come ti comporti.”

Il giorno dopo, si ritrovò circondato da giocatori che aveva sempre idolatrato.

Messi gli passò accanto e gli sorrise.

“Respira, ragazzo. Sei qui per farmi gli assist decisivi”.

Durante la partitella, Gomes dimostrò la sua velocità e la sua tecnica. In uno scambio, volò sulla fascia e servì un passaggio perfetto a Messi, che lo ripagò con un gol spettacolare.

A fine allenamento, Valverde si avvicinò, scrutandolo per un istante prima di parlare alla squadra.

“Questo ragazzo ha delle potenzialità.”

Poi si voltò nuovamente verso di lui con un sorriso accennato.

“Benvenuto tra noi, Rayo.”

Si immaginava una strada in discesa, ma la realtà mostrò presto il suo duro volto.

Pochi minuti in campo, zero gol, niente assist.

Il suo nome veniva appena menzionato sui giornali come “un giovane in crescita”.

Un pomeriggio, mentre Gomes si preparava per l’allenamento, il team manager entrò nello spogliatoio con un’espressione seria.

“Ragazzi, Ramirez si è infortunato durante l’ultima partita di campionato. È fuori per il resto della stagione.”

I compagni si guardarono, preoccupati, era un giocatore chiave per il Barça.

“Abbiamo bisogno di un sostituto per completare la lista Champions. Gomes, sei stato scelto. Non aspettarti di giocare, ma è un’opportunità per crescere e vivere l’atmosfera europea.”

Iniziò a partecipare alle trasferte. Non giocava, ma si trovava a viaggiare verso città che fino ad allora aveva solo sognato: Parigi, Londra, Monaco, Amsterdam.

Ma nella mente continuava a risuonare una domanda: “Se non gioco, rimarrò per sempre un frutto vuoto?”

Barcellona vs Bayern Monaco.

La finale era qui, a Barcellona e i catalani c’erano.

Un colpo di fortuna, una casualità, un’onda che lo riportava a casa per il momento più importante della sua ancora breve carriera.

Il Camp Nou ribolliva di tensione.

Quando Gomes posò piede sul campo, il ruggito dei tifosi lo travolse.

Zero a zero, continui capovolgimenti di fronte.

Dalla panchina il ragazzo studiava il difensore tedesco, un colosso insuperabile. Dettagli, movimenti, segnali.

Minuto 87

Un’entrata dura, un urlo di dolore.

Valverde si voltò di scatto. “Gomes, scaldati. Entri tu!”

Il ragazzo sbiancò.

“Io?”

“Sì! Muoviti!”

Si alzò di scatto, il sangue gli rimbombava nelle orecchie. Messi gli passò accanto e gli diede una pacca sulla spalla. “Respira ragazzo. È solo una partita.”

Solo una partita?!?

È la finale di Champions League!!!

Quando mise piede in campo, il difensore lo guardò con sufficienza.

“Un bambino?” sibilò in inglese.

Gomes non rispose. Si concentrò su ciò che aveva visto dalla panchina.

Minuto 89

Messi controlla il pallone sulla trequarti, torna indietro, alza lo sguardo e incrocia quello di Gomes. Il ragazzo fa una finta verso il centrocampo, poi esplode con uno scatto sulla fascia.

Il difensore esitò per un attimo.

Quanto basta.

Messi intuì tutto e servì il ragazzo con un passaggio perfetto.

Con il pallone tra i piedi, Gomes si trovò libero.

Chiuse gli occhi e crossò rasoterra verso l’area.

Messi calciò di prima e la rete si gonfiò.

Il Camp Nou esplose in un urlo assordante.

Gomes rimase immobile, travolto dall’emozione.

Messi lo indicò davanti a tutto lo stadio.

Lui l’aveva fatto.

Minuto 93

Corner Bayern.

Gomes corre verso il primo palo, cuore in gola.

Il gigante biondo gli sussurra: “Pagherai per quel cross.”

Il pallone parte, lui salta.

Testa sul pallone, traiettoria deviata.

Il Camp Nou esplode, ma dura un istante.

Una spallata brutale.

La testa impatta il palo.

Buio.

Urla ovattate, pulsazioni confuse.

Quando riaprì gli occhi, la luce era accecante, il tempo distorto.

La voce del medico era ovattata.

“Ci sei?”

Gomes annuì, un istinto primordiale.

Il triplice fischio arrivò lontano.

Uscì dal campo stringendo la maglia azulgrana di Messi, il suo sacrificio.

Adesso Barcellona lo avvolgeva.

Il fiato corto, lo sguardo al cielo.

“Chi sono?” mormorò.

Il suo nome scivolava via…         

Un suono lontano.

Bip ritmico, metallico.

Gomes provò ad aprire gli occhi, le dita si mossero appena. Una voce familiare ruppe il silenzio.

“Questo ragazzo ha delle potenzialità.”

Messi?

Poi un’altra voce, scherzosa.

“Lo porto al Real Madrid.”

Era Felipe.

Gomes borbottò.

“Papà… mai.”

Felipe sgranò gli occhi. Un sorriso gli si dipinse sul volto.

Si avvicinò al letto e mise una mano sulla spalla del ragazzo, stringendola con affetto.

 “Non se ne parla nemmeno, eh?” rispose schiarendosi la voce rotta dalla commozione.

Un’ondata di risate riempì la stanza.

La Pulga fissava il ragazzo con un sorriso rassicurante.

“Bentornato, Rayo. O forse dovrei dire… Guillermo Gomes.”

Guillermo.

Il nome risuonò forte nella sua mente, come un’eco di qualcosa che aveva dimenticato.

In quel momento, con il nome che finalmente tornava a essere suo, Guillermo sentì di aver riunito tutti i frammenti della sua anima.

Sorrise debolmente, mentre la memoria cominciava a tornare.

“Quanto sono stato via?”

“Due settimane,” rispose Maria. Eri in coma. Ti abbiamo trovato privo di sensi in Plaça Catalunya dopo la finale.”

“La finale…”

Gomes alzò lo sguardo verso Messi, che annuì sorridendo.

Gli porse il pallone del match.

“È tuo.”

Accarezzò più volte quella sfera, lapiù importante della sua vita, donata dal suo mito.

Messi gli mostrò la medaglia.

“Tieni.”

La strinse tra le dita.

Il metallo era freddo, reale.

Si prese un istante per respirare a fondo.

Guillermo era vivo.

Pronto a ricominciare.

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