Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2025 “Al mare dovrà tornare” di Elena Mura

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2025

I ragazzi di Baia Santa Croce si distinguevano da noi trapanesi per la loro natura “dolce amara”: con i turisti si mostravano cordiali, ma condividevano tra loro un’intesa superiore. Curavano i loro servizi e vi lavoravano con ardore, ma custodivano l’autenticità dei loro luoghi. Nascondevano con avarizia le stradine sterrate e le scorciatoie, prendevano le distanze dai luoghi più turistici e comunicavano tra loro in dialetto ogni volta che potevano. I loro rapporti, intrisi di esperienze condivise, erano spesso ereditati da generazioni. Conoscevano le leggi umane meglio di chiunque altro, perché erano stati condannati a vivere di queste, destinati ad avere a che fare soltanto col mare e con le persone. Sapevano distinguere un benestante da un millantatore dal solo modo in cui raccontava della sua ricchezza, così allo stesso modo sapevano riconoscere gli ingenui, i saggi, gli infingardi, i traditori, i molesti e gli astuti. Con astuzia, carpivano l’intimità dei loro interlocutori: lontani dalle scuole e dai computer, c’era poco altro di cui potessero farsi forza per arricchirsi. Per questo, ogni qual volta un fatto sconcertante avvenisse lontano dalla costa di Baia Santa Croce e riuscisse a raggiungere il porto, la sua narrazione veniva sciorinata come verità assoluta. Quando abbastanza cresciuti, i ragazzi imparavano il mestiere del padre, che per i fortunati voleva dire ereditare un albergo, un ristorante, un lido, e farvi la gavetta qualche anno durante l’adolescenza come concierge, cameriere o bagnino; in altri casi, ad essere ereditato era l’appellativo, o il patronimico: “u bombolaro”(il venditore di bombole), “u dutture”(il medico), “a maescia”(la maestra), tutti introdotti da “u figghiu ri”(il figlio di).

Io, che venivo da Trapani, conoscevo le leggi non scritte di quel paese e ne ero ammaliata. Per questo, ogni estate, finita la scuola, prendevo la corriera delle 14 e scendevo alla fermata più vicina al Marina Blu, il cuore pulsante dei ragazzi baiaroli. All’inizio mi costrinsi a trascorrere interi pomeriggi in silenzio, appostata come un’estranea, osservando i ragazzi che si rincorrevano, si azzuffavano e poi tornavano a sedersi al bar, come se nulla fosse, intorno a un gioco di carte sempre diverso, che ognuno a turno introduceva impettito. Penetrai nella loro realtà a poco a poco, imparandone le regole, rispettandone i rapporti. Avevo imparato a starvi in mezzo con naturalezza, facendo miei i loro modi di dire e qualche parola in dialetto stretto, che a casa mia non si parlava. Mi destreggiavo negli sport come un maschio, mi tuffavo dalle piattaforme arrugginite e saltavo da un masso all’altro senza paura di farmi male. Ogni tanto mi presentavo traboccante di aneddoti (come la ragazza che aveva abortito mangiando prezzemolo) o racconti delle città lontane che sognavo, e li dispensavo come souvenir. Mi piaceva stare con loro, osservare quelle menti vive, astute, abituate a cavarsela con l’istinto.

Negli ultimi anni, il turismo a Baia Santa Croce si era reso sempre più di massa, così serviva sempre meno estro nella conduzione delle attività locali. I ragazzi continuavano a lavorare, ma non erano più incapaci di imprimere alle loro attività il carattere e la cura artigianale che avevano contraddistinto i loro padri. La loro condotta si era trasformata: l’apertura sociale era maggiore, il linguaggio sempre più sporco di dizione e termini italiani, la coesione minore. Noi, che non eravamo paesani, eravamo andati a studiare fuori e a Baia Santa Croce non mettevamo più piede, perché non ci sentivamo più i perdigiorno di una volta.

Fu un imprevisto a riportarmi lì. Un anno, le ferie arrivarono all’improvviso, e decisi di approfittarne per tornarvi, negli ultimi giorni di agosto, quando la stagione si spegne lentamente. Il caldo dell’estate era penetrato nell’asfalto dei viali a doppia corsia che introducevano al paese, sempre protetti dalle palme pennate, ormai consunte. Scesi fino a quella che una volta era la strada delle vacche e parcheggiai di fronte alla vecchia fermata del bus. Corsi verso il lungomare, in cerca di un nuovo dettaglio urbanistico che avrebbe potuto scioccarmi, invece vidi solo quello che era sempre stato: la lunga distesa di sabbia dorata, i campi da gioco disposti nella solita triade, le vecchie giostre spente e il campo da tennis, deserti. Dall’altro lato, ancora, le stesse case, gli stessi tetti, gli stessi scalini e le stesse pensiline che invidiavo nei giorni di caldo cocente. L’unica differenza sensibile, il silenzio. Niente più scoppiettii metallici di motorini, niente più rimbalzi di palloni di cuoio, niente più schiocchi sordi di pelli scontranti, niente risa, nulla. Solo il lento, costante, scroscio del mare. Quello era sempre stato lì, pensai, come uno spettatore taciturno.

Dal marciapiede, scorsi in lontananza altri due spettatori di quella malinconica visione: due ragazzi sulla ventina, asciutti ma atletici, come la maggior parte dei paesani. Riconobbi “Malupilo”(Malpelo) e “u figghiu ru baruni” (il figlio del barone), che erano sempre stati amici. Sforzai di ricordarmi se camminassero così, fianco a fianco, anche quando erano ragazzini, ma la consapevolezza che le amicizie tra paesani si stringessero e si allentassero come mollette mi fece desistere dallo sforzo. Costeggiavano il mare, ma non gli volgevano mai lo sguardo; invece, gesticolavano animatamente. Malupilo, in particolare, lanciava insulti in dialetto, mentre stringeva il pugno in segno di protesta. U figghiu ru baruni, invece, che era sempre stato più calmo, dava segno di consenso con la testa verso l’amico. Quando con la scomparirono tra i pini dietro il porto piccolo, finalmente vidi qualcosa che non avevo ancora notato: il Marina Blu non esisteva più, e insieme a lui nemmeno il bar, le sedie, il molo e le barche. Al loro posto, solo la struttura esanime di legno e l’insegna mal ridotta di sempre.

Attraversai la piazzola sotto i campetti e mi precipitai giù per la discesa che terminava sul porto piccolo. Da così vicino mi era impossibile non constatarlo: il luogo che aveva ospitato la nostra adolescenza era ridotto a uno scheletro. Era stato abbandonato così, come se da un giorno all’altro tutti avessero deciso di non recarvisi più. I vasi erano ancora pieni di terriccio, ma le piante erano morte di sete, i posacenere sporchi di ciò il vento non era ancora riuscito a spazzare via, i pezzi di corteccia dipinti ancora appesi alle travi che reggevano la struttura. Su uno di questi ancora si leggeva: “Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole.” Fui colta da un senso di colpa aberrante. Io, che fin da bambina avevo promesso che sarei scappata via dalle strade torride della Sicilia e dai suoi abitanti, accumunati dall’arroganza di sapere già tutto quello che c’era da sapere. Eppure, di fronte alla carcassa di tutto ciò che mi aveva accompagnata nella mia esuberante giovinezza, sapevo solo sentirmi svuotata anche io. Era forse vero, allora, che il paese che conoscevano i baiaroli era come il mondo, nulla di meno? Quale posto, più di quello, aveva conosciuto l’umanità nuda e cruda, nella sua ignoranza e con le sue pulsioni? Il Marina Blu aveva accolto persone di ognidove: vecchi millantatori, bestie sghembe, bambini farciti di parole e sogni dei loro genitori, accumunati tutti dall’impellente bisogno di ritrovarsi insieme, di fronte al mare. E adesso non esisteva più. E io non me n’ero accorta. Mi appisolai seduta sulla sabbia ancora calda, con la testa appoggiata al muretto di pietra che la separava dal Marina Blu e rimasi così, fino a quando non si fece mattino. Quando mi svegliai, sapevo già cosa fare.

Mi recai al bar Scopello prima ancora che aprissero il tendone. Se conoscevo bene anch’io le leggi umane, sapevo benissimo che vi avrei trovato esattamente chi stavo cercando. Salutai Malupilo, che mi riconobbe subito – lo capii dal guizzo nei suoi occhi – e Sghiccio – che era un’inciuria per tutta la sua famiglia, ma lo chiamavano così da così tanto tempo che nemmeno lui sapeva più chiamarsi col suo vero nome. Mi sedetti con loro e cominciammo a parlarne.

Avevano decretato che il Marina Blu non avrebbe mai dovuto esistere, che era nato fuori dalle regole, costruito su fondamenta più fragili dei permessi che lo tenevano in piedi. Ma non erano stati i documenti a farlo crollare. Erano stati l’incuria, i conti mai tornati, le carte bollate che si erano accumulate come sabbia sotto il vento. Così il Marina Blu era diventato un relitto annerito che nessuno aveva più avuto il coraggio di toccare. Li ascoltai mostrando l’empatia di cui avevano bisogno, assecondando la loro rabbia. Quando feci per andarmene, Malupilo mi prese la mano e me la strinse sotto i suoi polpastrelli duri da marinaio. “Ti ricordo, io, quando eravamo bambini”. Mi guardò così intensamente che mi sentii violata più dai suoi occhi che dalla sua stretta. “Eri sempre agitata, come una trottola. Pareva che non potevi aspettare di andartene di qua. Sei tornata, alla fine?” “No”. E mi svincolai dalla sua presa.

Il Comune aveva dichiarato l’area inagibile, ma era un verdetto comodo: nessuno aveva mai voluto davvero salvarlo. Le nuove normative europee sui fondi per la riqualificazione ambientale erano la mia chiave. Dopo tre mesi depositai il progetto: un restauro conservativo che avrebbe mantenuto la struttura originale, rinforzandola e adattandola ai nuovi standard di sicurezza. Il Marina Blu sarebbe risorto. Raccolsi finanziatori e collaboratori, pescatori e falegnami pronti a rimettere mano al legno e alle pietre. Tornai quando fu il momento di vederlo ultimato. Alzammo la rete del campo da pallavolo, ritinteggiammo le pareti, piantammo i sedum nei vecchi vasi. Adesso, le voci che sentivo non erano più echi. Presi un ultimo momento per girovagare ancora una volta nell’ufficio sul retro, quel confine che troppe volte ci era stato vietato varcare quand’eravamo bambini.

Pareva che non potevi aspettare di andartene di qua. Volevi vivere tra i palazzi alti e andare a ristorante ogni giorno, e stare tra la gente che non va mai a dormire.

Non tornai mai più al Marina Blu, ma ne sentii parlare. Mi dissero che i ragazzi avevano ricominciato a giocare lì, che la scuola di vela aveva riaperto e che andavano tutti a quel bar che faceva le granite come dio comanda. Di me e degli altri ragazzi che vi avevano consumato le suole, in quel posto non è rimasto nulla: solo un pezzo di corteccia, in quell’ufficio umido, che adesso recita: “Chi nasce vicino al mare impara presto il richiamo del viaggio, ma porta sempre con sé il peso del ritorno. Perché chi è nato sul mare sa che, prima o poi, al mare dovrà tornare.”

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6 commenti »

  1. Per amor di chiarezza, l”nciuria in Sicilia è un termine dialettale che indica un soprannome, spesso scherzoso o ironico, che nasce da una caratteristica fisica, un comportamento, un episodio particolare o un’abitudine

  2. Invidio chi possiede un patrimonio di ricordi come quello che si intuisce leggendo “Al mare dovrà tornare”. Lo invidio perché sono una miniera di storie che allungano i loro tentacoli fino al nostro presente, con quella irresistibile spinta che ci costringe a tornare, a rivivere e, nel caso della protagonista di questo bel racconto, perfino a prendere in mano le redini delle cose per ridare vita a un frammento importante del proprio passato. Un racconto di memoria e di ritorno, un’esperienza che prima o poi facciamo in molti, ciascuno con un suo mare cui tornare. Bella storia, molto ben raccontata, complimenti 🙂

  3. Gentile Ugo, grazie mille di cuore. Il patrimonio di ricordi in realtà è dato più dalla mia indole nostalgica che da esperienza vera e propria (ho pochi anni alle spalle ancora, fortunatamente) 🙂

  4. Gentile Elena, allora secondo me il suo racconto ha ancora più valore 🙂

  5. A volte i luoghi dell’anima sono quelli che abbiamo mitizzato da ragazzi, quando eravamo convinti che non esistessero posti migliori al mondo. Poi si cresce e non tutto sembra essere sempre così bello, anzi: sovente ci si accorge che quel che pareva bellissimo, in fondo, è solo appena appena normale. E’ bello sapere ,, che almeno tu, trapanese dal cognome sardo, sei riuscita a preservarlo, quel luogo.

  6. Gentile Gianni, mi fa piacere sentire che condividiamo la stessa giovanile malinconia. A volte la normalità è sottovalutata 🙂

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