Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “Il lampione” di Antonella Esposito

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Martedì, 17 ottobre
Oggi è arrivato un bollettino di pagamento. Centottantatrè euro. Causale: Bonifica dell’area con smaltimento dei rifiuti e assorbenti per sversamento liquidi. Anni di studi, ma io quelle parole non sono riuscita a capirle.
C’era una data sul bollettino: 17 settembre 2022, quando tutto è finito. Diciassette, come gli anni squillanti del mio Piergiorgio, PiGi per tutti, da quando era piccolissimo e riccioluto come un puttino. E’ già passato un mese.
Un urlo potente, polifonico, si era levato dal cortile, alle diciotto e trenta di quel pomeriggio di settembre, troppo grigio per essere fine estate. Non ero neppure trasalita. I soliti amiconi del derby interpretavano tutto-il-calcio-minuto-per-minuto a esplosioni di versi inumani, a beneficio dei condomini.
Avevo continuato a correggere i compiti di latino, gli occhiali sul naso, la catenella che oscillava ad ogni movimento e mi distraeva. PiGi sarebbe passato un’ora dopo, più o meno.
La sera prima avevamo discusso io e lui, rivedendo A qualcuno piace caldo: per lui non fa ridere ed è sessista, io che l’accuso di essere prigioniero di tonnellate di ideologia che lo privano del piacere di un capolavoro, che sessista non è. E anche se lui nega, c’entra Marilù. C’entra sempre, quella fidanzatina dal viso di madonna del Quattrocento.

Giovedì, 19 ottobre
Oggi, una visita: la Martelli, di inglese, di sicuro costretta dalla preside. Mezz’ora, in soggiorno, l’una di fronte all’altra, il più del tempo guardando il fondo di una tazza di tè. Mi sento ripetere quello che so già, di PiGi benvoluto. Annuisco meccanicamente.
D’improvviso, la Martelli solleva lo sguardo e dice d’un fiato: “Se la cavava abbastanza anche in inglese, per essere…”.
“Cosa?” faccio io incuriosita, posando la tazzina sul tavolino basso di cristallo, quello che ha l’angolo sbrecciato da una pallonata di PiGi.
La prof, imbarazzata, abbassa di nuovo lo sguardo e continua a girare la tazza sul piattino: “Beh…la balbuzie”.
“Ma PiGi ha sempre parlato benissimo!”.
Ci guardiamo stupite, ci specchiamo l’una nell’altra, mentre i nostri volti si trasformano. Io mi copro la bocca ma esplodo in una risata sguaiata, fino alle lacrime. La Martelli cerca di darsi un tono mordendosi le labbra, ma le spalle sono scosse da sussulti di ilarità.
Genio, il mio PiGi, ci hai fregate tutte e due.

Venerdì 20 ottobre
Mi sono decisa e ho chiamato l’ufficio in Comune per capire che fare di quel bollettino: un’impiegata dalla voce fessa mi spiega che si tratta del pagamento per il lavoro di ripulitura del sangue dalla strada. Caro il mio PiGi, non avevo ancora pensato al tuo sangue sulla strada. Ho sempre avuto in mente la tua bici accartocciata e a quanto ci tieni, guai se te la dovessero rubare: la lucidi, la smonti, la rimonti, controlli in modo maniacale catena, gomme e freni, aggiungi gadget comprati online e pupazzetti fatti a mano da Marilù. E il casco azzurro, che ti ho regalato io, al quale hai aggiunto un faretto e che ti allacci sempre con scrupolo. Hai ragione, non me l’hanno ancora restituita, la bici, devo chiedere. Domani richiamo.

Lunedì 23 ottobre
Non sono ancora stata sul luogo dell’incidente. Mi hanno dato indicazioni precise sul lampione, ai margini del parco, dove ti ha scagliato il suv. La mia amica psicologa, che mi chiama inesorabile ogni giorno, anche oggi mi ha ripetuto che devo “andare dove è successo, per elaborare il lutto”. Quante stronzate si dicono quando l’unica cosa che può essere detta è il silenzio.

Martedì 24 ottobre
Oggi ho aperto la lettera, preannunciata dall’avvocato di quello che ti ha investito. E’ rimasta tre settimane sulla cassapanca dell’ingresso.
“Non riesco a farmi una ragione di quello che ho fatto, non volevo fare del male a suo figlio. E’ stato un incidente terribile. Ho solo un anno di più di lui, potevamo essere fratelli, compagni di scuola. Niente sarà più come prima per me. Non so se riuscirà mai a perdonarmi, ma deve sapere che io mi sono rovinato la vita”.
Lui si è rovinato la vita. Ne sono sicura, non ti sarebbe piaciuto.

Mercoledì 25 ottobre
Dopo la scuola, sono andata a cercare il lampione, in macchina, sotto la pioggia, aggrappata al volante. L’ho individuato quasi subito. Dio mio, qualcuno ha creato una specie di altarino, con una tua foto dove ridevi, un cero spento e dei mazzi di fiori in disfacimento sotto l’acqua. Sono scappata.

Sabato 28 ottobre
Sono tornata lì, a piedi. C’era il sole. Ai piedi del lampione, proprio vicino alla tua foto, era accovacciato un gattone fulvo, che mi ha guardata con degnazione quando mi sono avvicinata per raccogliere i fiori ormai da buttare. Ti sono sempre piaciuti i gatti. Io però non sopporto la puzza degli animali in casa, e tu non ne hai mai avuti.

Domenica 29 ottobre
Eccomi di nuovo al lampione-altarino. Il gattone non c’è. Mi sono attrezzata con guanti, paletta e busta per strappare le erbacce tutto intorno alla base del lampione grigio. Questa volta l’ho esaminato bene e ho passato il dito sulle tracce di vernice blu all’altezza dei miei occhi. Il blu della tua bici.

Martedì 31 ottobre
C’era un prete, oggi, al tuo lampione. Deve aver sentito il mio sguardo ostile, perché ha cercato di giustificare la sua presenza. Dice di conoscerti, parla di te come animatore con i bambini in ospedale. Gli dico che si sbaglia: mio figlio ha paura degli ospedali e sta alla larga dai preti. Lui mi sorride: dice che non volevi si sapesse, ma stavi facendo una specie di prova, prima di decidere se tentare il test a Medicina. Non so cosa pensare.

Lunedì 1° novembre
Ormai sta diventando un’abitudine andare lì, e non so se sia un bene. Ho pensato di portare due piantine di gerbere gialle e arancio. Sorridono come te nella foto, chissà dove e quando è stata scattata. Mentre sto sistemando le gerbere, si avvicina un vigile con la pancia e mi chiede con gentilezza che ci faccio lì. Mi fa le condoglianze.
“Ero di turno quella sera. Era già successo, quando arriva una macchina ed esce fuori come una furia una ragazzina, si getta sul corpo a terra, lo copre tutto con i suoi capelli, e lo chiama, lo chiama, gli abbraccia la testa. Sembrava la Pietà. E’ stato difficile strapparla da lì”.
Povera Marilù. E io, a correggere compiti.

Giovedì 4 novembre
La visita al cimitero non è andata come volevo, non sono riuscita a parlarti. Così sono tornata lì, al lampione, ma c’era qualcuno. Anzi, qualcuna. Una ragazza smilza e dall’aria tosta, vestita di nero, che stava sistemando un pannello colorato al lato del lampione.
“Cosa fai?”
“…”
“Conoscevi PiGi?”
“Conoscevo Giorgio. Lui diceva che PiGi era un nome del cazzo”.
“Sicura?”
Mi guarda in tralice, occhi magnetici bordati di scuro: “Hai portato tu le piante?”.
“Cos’è questo pannello?
“E’ una prova, di Giorgio”.
“Dipingeva?”
Writing, ha presente? Murales, street art”.
“So cos’è, ma non sapevo che mio figlio…”.
“Iniziava a essere conosciuto”. Si mette le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni cargo e si guarda gli scarponi, il ciuffo nero dei capelli corti che pende da un lato come una tendina.
“Mi fai vedere cosa ha fatto?”.
Mi squadra dalla testa ai piedi, alzando le spalle: “Si può fare, ma non sono posti da signora”.
“Come ti chiami?”.
“Esther”.
Giorgio ed Esther. Altro che madonna del Quattrocento.

Martedì 17 novembre
Era stata un’app ad accorgersene. Alle diciotto e quaranta di quel 17 settembre, sullo schermo del cellulare di Marilù, tu eri un circoletto rosso fermo da dieci minuti nello stesso punto.
Eri lì, per terra accanto al lampione, scagliato via come uno straccio usato. Da solo. Senza casco.
Come hai fatto, aquilotto mio, ad accettare di essere pedinato?

Mercoledì 18 novembre
Accendo il tuo laptop. Fisso per un minuto intero la maschera di accesso, poi digito di getto “Esther”. Entrata! Richiudo subito. Lo so che non si fa. Però mi piacerebbe tanto conoscere meglio questo Giorgio. Perdonami.

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1 commento »

  1. Dei tre racconti proposti è quello che mi ha toccato più profondamente. Nonostante il tema trattato il racconto non scade mai nel retorico o nel melodrammatico ma rimane perfettamente in equilibrio mostrando una particolare sensibilità nella descrizione della elaborazione del lutto. Non conosciamo noi stessi figuriamoci i nostri figli. Complimenti

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