Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “I quindici camini” di Valeria Pritoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Lungo la strada provinciale che da Bologna porta a Ferrara, in prossimità del ventiseiesimo chilometro, sorge una costruzione bassa e lunga.

La località è denominata “La Castiglia” ma è anche conosciuta come “I Quindici Camini” dal numero di abitazioni a schiera di cui è composto il caseggiato.

Credo risalga agli inizi del novecento e che sia stato costruito con mattoni di malta per le famiglie dei braccianti che lavoravano nelle terre del latifondista Venturi.

Non ho fatto alcuna ricerca storica in merito e mi baso esclusivamente su quanto mi è stato raccontato.

Ancora oggi è diviso dalla strada da un muretto, nella parte anteriore mentre, posteriormente, una volta era recintato da un lungo filare di pioppi che segnavano il confine con due maceri per la lavorazione della canapa e che, in seguito, furono chiusi e sul terreno nacquero degli orti.

Io sono nata lì e pure mia madre, nella stessa casa, al numero 863. 

Sessantaquattro metri quadri di umidità, pavimenti sconnessi, muri scrostati e servizi in comune, che costarono ai miei genitori il lavoro di una vita per riscaldarla, mantenerla pulita e tenerla in piedi. 

Insieme a questi aspetti decisamente poco accattivanti però, era presente in quel luogo un insieme unico e irripetibile di umanità che mi ha consentito di trascorrere un’infanzia ricca di esperienze e di affetti.

Le mamme lavoravano nei campi dalla primavera all’autunno, ma non c’era bisogno di baby sitter perché le donne anziane erano le nonne di tutti.

La mia si chiamava Nonnamaria e si occupava di me, di mia sorella e di un’altra mezza dozzina di bambini.

Spesso provvedeva anche a darci da mangiare e, ai più piccolini, masticava il cibo prima di passarglielo, come fanno le mamme con gli uccellini.

A mia madre questa cosa non andava giù (come darle torto!) e allora esonerava Nonnamaria dal nutrirmi.

Del mio pranzo si occupavano allora la zia Norma oppure la Lea.

Erano brave cuoche, ma io credo di essermi nutrita più dei loro racconti che del loro cibo.

Lea era inarrivabile come narratrice.

Mi faceva sedere sulle sue ginocchia e io appoggiavo la testa sul suo ampio petto cosparso di fiorellini che odoravano di sapone di Marsiglia e ascoltavo le storie che erano un miscuglio tra fiabe popolari, melodramma e fotoromanzi, truculente e sdolcinate, realistiche o fantastiche e folli.

La zia Norma preparava la crostata con la mostarda e le fritattatine di cipolla per tutti e faceva anche una buonissima polenta, io ne andavo a “rubare” sempre un pezzetto in più, perché ero golosa e, per questo motivo, ero stata soprannominata “Polentina”.

Ogni bambino aveva il suo soprannome.

C’erano Macarèn e Macaròn che erano fratelli, Fa’ Male che era mio cugino, Sajètta, mia sorella e così via. A coniare quei nomi era stato il Nonno Melloni, un anziano e corpulento signore con i capelli candidi e il sorriso facile.

Ci intratteneva con i suoi indovinelli e i suoi doppi sensi, ci faceva gli scherzi, i giochi di prestigio e ci sfidava a giocare a carte. 

Era un mangiapreti convinto e quando arrivava il parroco per la benedizione pasquale non lo faceva entrare in casa e gli diceva: “Lasci pure la benedizione sull’uscio, Don Alfonso, ci penso poi io a portarla dentro con le mollette del camino!”

Ci faceva poi fantasticare sulla sua soffitta che, secondo le sue descrizioni, conteneva tutti i giocattoli dei figli (che ormai erano grandi e non ci giocavano più): un cavallino a dondolo, una pista col trenino, un fucile, un arco con le frecce, una cucina per le bambole, una bambola con l’armadio e i vestiti…

Di notte, sognavo di andare nella soffitta del nonno Melloni e di entrare in quel Paradiso dei bambini.

Inutile dire che nessuno di noi vide mai quel luogo di delizie, ma la nostra fantasia ne risultò nutrita per anni.

C’era un portico e, a una trave, era stata legato una grossa corda e infilato un asse di legno, di quelli che si usavano per creare un seggiolino nelle biciclette, ricavando in questo modo, un’altalena. Quando si dondolava e si arrivava in alto in alto, la trave scricchiolava, segnando il ritmo dei voli.

Noi bambini ce la litigavamo e mangiavamo in fretta per poter uscire per primi, dopo il pranzo e occupare il posto sul “dondolo”.

Il portico era anche il luogo di altri giochi: giocavamo ai negozianti, alle parrucchiere e all’ospedale.

La bambola preferita di mia sorella fu operata di appendicite da Macaròn e purtroppo non si riprese più.

Un altro luogo di giochi era la grande catasta di tronchi d’albero che stava davanti alla falegnameria di Gianni.

Erano tronchi enormi e la catasta era una vera montagna sulla quale salivamo e scendevamo inseguendoci.

A ripensarci adesso mi pare fosse un gioco molto pericoloso, ma nessuno mai ce lo vietò e fortunatamente, a parte qualche slogatura, non ci facemmo mai male, fino a quando un incendio, probabilmente doloso, distrusse tutta la legna.

Il personaggio più antipatico dei Quindici Camini, per noi bambini, abitava al numero 843. Era un anziano signore, lungo lungo e segaligno che viveva isolato da tutti, con la moglie che mi pare si chiamasse Delfina.

Nel suo orto, c’erano due alberi per noi irresistibili: un ciliegio e un rusticano.

Appena i rusticani spuntavano, ci arrampicavamo di nascosto per raccoglierli perché erano buonissimi acerbi, verdi e aspri.

Le ciliegie invece dovevano essere ben mature e rosse.

Uno di noi faceva da sentinella e gli altri si occupavano della raccolta.

Il padrone del “frutteto” ci scopriva quasi sempre e allora ci rincorreva con un bastone e ci gridava dietro.

Noi non lo temevamo e ridevamo come matti, in realtà non fece mai l’unica mossa che sarebbe risultata efficace, cioè parlarne con i nostri genitori e così i furti continuavano a ogni primavera.

Ricordo che, dopo una grande nevicata, credo fosse l’inverno del 1967, costruimmo una pista per pattinare, ( nessuno di noi possedeva i pattini e scivolavamo sulle scarpe) levigando per un pomeriggio intero il ghiaccio nel cortile, fino a farlo diventare una lastra compatta.

Ma il giorno seguente, quando tornammo da scuola, la pista non c’era più, il solito vecchio antipatico ci aveva versato sopra una catinella di acqua bollente.

Pensammo per giorni e giorni alla vendetta e alla fine gli bucammo la gomma della bicicletta con un chiodo arrugginito.

Quando morì la Nonnamaria, fu allestita una camera ardente in casa sua e anche noi bambini andammo a vederla di nascosto. Ci sembrava che dormisse, non capivamo perché tutti piangessero, a noi non veniva neanche una lacrima e ci vollero molti giorni prima che ci rendessimo conto che non l’avremmo vista più.

Questi ricordi mi fanno pensare a quanto tempo trascorrevamo all’aria aperta, a quanta indipendenza avessimo e a quanto fossero separati i due mondi: quello adulto e quello dell’infanzia e come, in questa separatezza, il nostro spazio di bambini potesse essere vissuto pienamente, senza fretta, un passo per volta.

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2 commenti »

  1. Il racconto mi piace molto. La scrittura è molto leggera e crea una piacevole atmosfera sognante, malinconica ed intima. Sono stata guidata dolcemente tra i vari ricordi e all’interno delle villette de i Quindici Camini, conoscendone le persone. Il racconto mi ha lasciata con dolcezza, così come è iniziato. Complimenti!

  2. Grazie, Alice! Sei molto generosa

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