Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Un caffè all’angolo” di Michele Capece

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Luiz Mendoza Mendez Aguilera era un pugile statunitense di origine messicana. Ormai quarantenne e a tutti noto semplicemente come Luiz Men, da vent’anni aveva abbandonato il paese natio e il vecchio impiego nella infernale e malpagata raccolta del prestigioso caffè d’ Altura Messicano, per dedicarsi alla ben più fruttuosa mietitura di campioni e campionati in giro per gli States. Il buffo soprannome se l’era involontariamente procurato proprio in quel periodo del suo trascorso. E più precisamente nel momento in cui, firmando il suo primo contratto da professionista, aveva fatto sfoggio di una grafia talmente disarmonica e grossolana che s’era ritrovato a riempire un intero foglio con la sola parola “LuizMen”; finendo col non lasciare alcuno spazio al resto del nome e nessun motivo, nella mente dei pochi presenti che avevano assistito a quello spettacolo, di dubitare anche solo per un istante del suo analfabetismo.

La sera di quel dieci maggio, il vecchio campione si lasciò dietro le possenti spalle la porta lignea e scolorita del suo camerino e si avviò verso la costellazione di luce artificiale che splendeva sul ring del suo ultimo match. Quando finalmente mise piede sul quadrato e raggiunse il suo angolo, le voci festanti del suo affettuosissimo pubblico lo avvolsero con un calore ineguagliabile. Non ebbe però molto tempo per godersi la festa dei suoi sostenitori che in un attimo i suoi secondi già gli avevano infilato i guantoni, e dopo il rapido saluto col pugile avversario, eccolo che gli si precipitava contro per raggiungere il centro del ring, quando la campanella era già suonata, ma l’ultimo tintinnio ancora riecheggiava flebile in quell’aere che ruggiva cori in suo favore. Immediatamente, come un meccanismo di acciaio e molle in equilibrio su un sensibile grilletto, pronto a sparare alla minima pressione, Luiz Men si fece sotto due volte piazzando un sinistro agli occhi, un destro alle costole, schivando un colpo d’incontro, spostandosi saltellando agilmente e tornando all’attacco con passi di danza. Era bravo e veloce. L’esibizione era brillante. La platea si sgolava inebriata. Ma lo sfidante australiano, un certo Paul Ross di vent’anni più giovane del campione, non si lasciò impressionare e non fu da meno. Aveva capito subito che Luiz Men avrebbe cercato di affrettare i tempi dall’inizio e consapevole di trovarsi difronte un vecchio logorato dai troppi match disputati, aveva deciso di adottare la stessa tecnica e di giocarsi il tutto per tutto a testa alta.

A metà della prima ripresa il vecchio campione iniziò già a dare non pochi segni di cedimento. Il giovane Ross gli si avventò contro con una scarica di pugni che se pure non riuscirono mai a fare breccia all’interno dell’impenetrabile difesa di Luiz Men, ebbero certamente il merito di aver abbondantemente dimostrato quale sarebbe stato d’ora in poi il ritmo e la direzione dell’incontro: lui, l’australiano, nei panni del giovane leone alle prese col suo primo giorno di caccia e quell’altro, nelle vesti del vecchio gnu, intento ad attuare l’ultima e più rocambolesca fuga. Al suono della campanella i due pugili ritornarono ciascuno al proprio angolo. Paul Ross attraversò il quadrato come un proiettile, ansioso di riprendere il prima possibile, nonché convinto di aver già dato una notevole dimostrazione di sé e di aver sufficientemente intimidito l’avversario. Luiz Men invece tornò con maggiore calma e non poche preoccupazioni. Quando si sedette, lo sgabello sgangherato iniziò a gemere sotto il suo peso e, istintivamente, mise il beccuccio della borraccia tra le labbra e con ancora il paradenti in bocca tirò giù una buona sorsata. L’acqua fresca lo riportò alla realtà. I suoi movimenti erano lenti, quasi impacciati, malgrado tutti i suoi sforzi il suo corpo non poteva reggere i ritmi impostigli da quel ragazzino. La mascella pesante e aggressiva gli si chiuse in un ghigno brutale. Gli occhi rapidi, fremevano turbati sotto le sopracciglia folte e nere. La fronte stempiata lasciava intravedere i bozzi collezionati in una vita consumata sul quadrato e parimenti faceva il grosso naso, rotto un paio di volte, variamente rimodellato da un numero imprecisato di colpi ricevuti. Durante quel minuto di pausa Luiz Men se ne rimase zitto in un silenzio cupo a fissarsi le mani. Non le vedeva a causa dei guantoni ben stretti, ma le avvertiva con l’occhio della mente nella loro interezza e più intima essenza: erano mani grosse, grosse e gonfie, ormai ridotte ad un intreccio di vene voluminose e ossa frantumate. Quelle mani mostravano inequivocabilmente quale fosse stato il trattamento cui erano state sottoposte negli anni. Il suo cuore aveva pompano dentro a quelle arterie troppo sangue per troppo tempo e così ora ecco che ogni vena si ritrovava turgida e sporgente, decisamente malfunzionante e a monte dei suoi problemi di resistenza. I suoi pugni s’erano infranti troppe volte contro i resti dei suoi avversari, le sua ossa, piene di microfratture invisibili, erano ad un passo dallo sfarinarsi al prossimo colpo. In quella pausa, dopo quella tremenda cantonata appena rimediata, Luiz Men capì che non era più nelle condizioni di affrontare dieci round veloci, violenti e serrati, di quelli fatti di lotta, corpo a corpo subiti, pugni micidiali incassati di round in round fino alla vittoria, passando per una rimonta disperata e premeditata, così si guardò ancora una volta le mani strette dentro ai guantoni e si decise al cambio di rotta.

Al tintinnio saettò in piedi e raggiunse l’avversario con la guardia chiusa e alta. Se prima aveva combattuto come una furia, adesso s’era cucito addosso il camice del chimico, freddo e calcolatore: soppesava ogni dato, ogni pugno, ogni passo, ogni schivata, ogni secondo. Fino all’ultimo respiro e per ciascun singolo battito cardiaco Luiz Men elaborò, decise, agì di conseguenza; con rigorosissima pianificazione. Risparmiare le forze e aspettare i sintomi d’inevitabile stanchezza avversaria per poi colpire con pochi colpi fatali, questo il suo imperativo categorico, questo il mantra che iniziò a ripetersi incessantemente nella mente. Per cinque intere riprese il vecchio campione non fece altro che schivare tutti i colpi che riusciva a vedere partire, cercando di attutire l’impatto di quell’altra ben nutrita e assestata minoranza che invece andava a segno, facendo leva sulle corde in pieno stile Cassius Marcellus Clay, quando il suo nome era già Muhammad Alì e il suo avversario si chiamava Big George.

Seduto al suo angolo, ad ogni minuto d’intervallo, Luiz Men distendeva le gambe, appoggiava le braccia alle corde e gonfiava ritmicamente il torace e l’addome per inspirare profondamente l’aria smossa dagli asciugamani dei suoi secondi. Il pubblico che sempre gli era stato fedele nei giorni migliori e fino alla metà di quell’ultimo primo round, adesso lo insultava con ferocia inaudita. <<Luiz Men sei un rammollito!>>, gridava qualcuno. <<Colpiscilo, codardo!>>, subito accompagnava qualcun altro. <<Il grande campione è finito!>> intonavano tutti. Ma il vecchio Luiz non sembrava farci troppo caso, ormai non dava ascolto a nessuno all’infuori che a sé stesso e continuava a ripetersi quel suo imperativo a mo’ di mantra: ridurre i danni al minimo, massimizzare il recupero delle forze, aspettare, aspettare…colpire!

All’inizio della sesta ripresa il giovane australiano, che aveva acquisito fin troppa sicurezza, finì con lo scoprirsi e offrì al vecchio gnu la possibilità di infilzare il ventre del leone. Un colpo secco. Un gancio assestato con l’arco del braccio piegato, in modo da trasformare tutto il peso in forza, andò a sbattere nella tempia di Paul che piroettò su se stesso e finì dritto al tappeto. L’arbitro intervenne per allontanare il campione e subito diede inizio al conteggio. Il ragazzo si era già bello che ripreso al sette, ma attese fino al nove prima di rialzarsi. Il colpo era stato così improvviso e inaspettato che oltre al suo corpo aveva finito per atterrare anche tutte le sue spavalde sicurezze. La sesta ripresa si concluse allo scadere dei tre minuti, ma Ross questa volta tornò al suo angolo accompagnato dall’eco di quel missile che gli era esploso in piena tempia, seguito da un sentimento di rinnovato rispetto e ferrea ammirazione nei confronti di quell’irriducibile vecchio. Intanto Luiz Men era corso a riposare al suo angolo.

Sedeva pensieroso il campione. Ripensava a tutti i suoi successi, a tutti gli avversari vinti, alle cinture perse e riconquistate, ai pugili letteralmente rovinati per sempre dai suoi pugni, a quelli costretti a rinunciare definitivamente al ring, a causa di quell’unico involontario ma capitale peccato commesso: incrociare i guantoni con lui, il campione. Per quell’incontro s’era allenato bene, aveva mangiato bene, eppure… eccolo in difficoltà. Dopo tante battaglie eccolo arrancare, incapace di rovesciare l’andamento del combattimento, impossibilitato a risalire la china ancora una volta. Cosa sta accadendo? – si disse tra sé. Poi subito sovvenne la risposta. A quei tempi ero io la reincarnazione della giovinezza, ma adesso… adesso io sono l’Età adulta in declino e… eccola lì, eccola lì Giovinezza – disse a se stesso mentre incrociava a distanza lo sguardo dell’australiano. Io combatto per sopravvivere, questo è il mio ultimo incontro. Lui invece… lui combatte per il denaro, per la gloria, lui combatte per vivere e vive per combattere! Io sono stato, lui invece è. Io sono stato il giovane promettente che ha mandato a tappeto la vecchia classe di pugili, lui è colui che manderà a casa me, il primo della sua vecchia classe di campioni. Io la vecchiaia, lui la gioventù. Non posso farci niente questa volta. Così come il caffè una volta freddatosi perde aroma e sapore, allo stesso modo la forza svilisce man a mano che il calore della giovinezza si raffredda nella vecchiaia. Il caffè lo si può pure tornare a riscaldare, ma il suo spirito è comunque perso per sempre. L’essermi allenato e nutrito al meglio non mi ha ridato l’antico vigore, ormai eternamente sciupato…

Al suono della campanella Luiz Men si rialzò cupo in volto, puntò Paul Ross, poi riprese meccanicamente e disperatamente ad eseguire il suo imperativo. Quella ripresa, la settima, gli si mostrò particolarmente favorevole. Per ben tre volte l’australiano abbassò la guardia e per ben tre volte i pugni micidiali di Luiz, capaci di sganciarsi sia da destra che da sinistra, misero con le orecchie a terra l’avversario. Adesso l’ago della bilancia pendeva finalmente a favore del campione, ma a quale prezzo? Ross aveva finalmente capito che quel suo avversario era sì una vecchia guardia, ma anche il miglior pugile che gli fosse mai capitato di incontrare. Alla metà della nona ripresa la giovane promessa che fino a quel momento non aveva avuto senso del limite, incominciò ad arrancare, aumentava le distanze, cercava anche lui il clinch per rifiatare. Luiz Men da parte sua era praticamente un morto inconsapevole che continuava a rifuggire il pensiero della resa. In balia del giovane leone, il vecchio gnu puntava a prolungare i tempi e a ferire. Lì per lì le sue incornate non avrebbero fatto molto male al felino, ma con l’avanzare dell’età, con l’avanzare dell’età gli squarci, le contusioni, le piccole e microscopiche fratture, con l’età avanzata tutto questo sarebbe esploso in maniera funesta e fatale, come le ossa e le vene di Men.

Ross possedeva la forza dirompente della giovinezza, l’energia illimitata sprigionata da un corpo scolpito, perfetto, pulito e fresco fino all’ultima cellula; ma Men poteva contare sulla saggia esperienza conquistata negli anni. Fino al quinto round il campione si era mosso con lentezza, aveva aspettato con pazienza che l’energia dell’avversario svaporasse, in seguito, dalla sesta ripresa in poi, aveva cominciato anche a colpirlo con bastonate improvvise. L’australiano messo sull’attenti e più volte castigato per i pochi e inevitabili cali di concentrazione, era ora più stanco e decisamente snervato.

L’ultimo round iniziò ancora una volta con quel leone di Ross che rifilava poderose zampate al corpo ben difeso del vecchio campione. Questi però sostava pronto ad agganciare l’altro, gli teneva il pugno ben premuto sulla bocca per non farlo respirare, lo colpiva ripetutamente con la spalla in ogni clinch. Poi a trenta secondi dalla fine, mentre lo stanco gnu se ne stava meditativo in attesa dell’attimo fuggente necessario a lasciar partire l’ultima carcassa, quella decisiva e fatale, accade l’inaspettato. Ancora una volta l’australiano si espose al pugno, Luiz Men lasciò allora partire il destro, ma il missile sfiorò soltanto l’orecchio di Ross. Il corpo del pugile avversario si piegò sulle ginocchia, un jab devastante s’avvicinava ora pericolosamente verso il mento del campione.

D’improvviso fu il buio.

Emma, occhi grandi come soli. Viso liscio e gote rosse. Sedeva al tavolo di un piccolo bar della sconfinata periferia di Città del Messico. Le mani esili, gentili, affusolate, imperlate di bigiotteria ricercatissima, stringevano con eleganza una bianca tazza di caffè. Le sue labbra rosse e carnose facevano vibrare l’aria con voce incantevole che Luiz Mendoza Mendez Aguilera ascoltava stregato, malgrado la gravezza dei concetti veicolati. << Sai, non vedo cosa ci trovi di bello>>, disse sommessamente, con un tono che tradiva una discussione precedente, più e più volte affrontata e sempre con esito insoddisfacente. <<Possibile che tu non ti senta mai solo? I ragazzi della tua età scorrazzano per i locali, vanno al mare, salgono in montagna, ballano, si divertono insomma. Tu no. Tu te ne stai sempre lì a prendere a pugni un sacco, chiuso tra quattro mura, che quando vedi un po’ di luce non è mai quella del sole, ma sempre quella artificiale dei riflettori. Passi la vita a batterti contro i tuoi avversari come se foste cani da combattimento e come se non bastasse fai degli enormi sacrifici per mantenere il tuo peso-forma: non mangi, non bevi. Possibile che sia davvero questa la vita che vuoi? E cosa guardi con quella faccia da tonto! Dannazione rispondimi!>>.

Ma Luiz Mendoza Mendez Aguilera non era mai stato un tipo loquace e questo anche perché non conosceva molte parole. Alcuni dicono che per esprimersi basta essere dotati della capacità di pensare, ma il nostro campione sapeva bene che non era così. Lo aveva sempre saputo, benché non fosse mai stato capace di dirlo. Se non conosci le parole è difficile che tu possa pensare al loro contenuto. Le parole non servono solo per esprimersi, ma soprattutto per pensare.

Quella volta però Luiz si sentì come ispirato, e preso come da una mania apollinea disse: <<potrei dirti che combatto e amo il pugilato per i soldi. Potrei dirti che l’incontro con O’ Weil ha saldato l’ultima rata della casa dei miei genitori, potrei dirtelo e non sarebbe falso. Ma se lo facessi ometterei la cosa più importante: non combatto solamente per denaro>>. Stupito di sé stesso, lui che balbettava e non riusciva a mettere in fila più di pochi periodi, che era abituato a esprimersi solo con il corpo e con i muscoli sulla pedana quadrata, adesso non riusciva più a rientrare nel suo silenzio abituale e verbosamente riprese a favellare quasi con la stessa leggiadria con la quale atterrava i suoi avversari. <<Tutto ciò che so, dolce Emma, è che ci sto bene sul ring. Quando riesco a portare l’avversario al centro della pedana, quando è da un pezzo che lui si riserba di colpirmi ma non ci riesce, perché non gli ho mai dato spazio di portare il pugno aldilà del mio orizzonte di difesa, quando crede di essermi superiore e rimane frastornato da un pugno micidiale, un pugno fulmineo che si fa breccia nel buio della sua avanzata, che per un attimo tutto illumina e a cui seguita l’esplosione del tuono… Vivo la vita al cento per cento e non a metà come fanno tutti quanti gli altri. Non bevo, non fumo, non faccio la vita del maiale, e guarda qui – disse mostrando l’ampio torace pronto a squarciare la logora magliettina bianca – senti che roccia! Ogni muscolo, ogni singolo nervo, fino all’ultima cellula, tutto è tenuto alla perfezione. E questo corpo d’acciaio, questo sguardo d’acciaio, quest’anima d’acciaio… ogni volta che supero le corde e metto piede sul tappeto tutto questo acciaio giubila di gioia!>>.

A quelle parole il viso di Emma era stato letteralmente inondato dalla paura. Mentre il suo amato gli descriveva la sua visione interiore e anteponeva al sogno di lei, al sogno di una vita tranquilla e borghese tra le forti braccia di lui, l’immagine di un uomo tumefatto e barcollante, le luci della ribalta e lui trasportato sempre più lontano da lei, imbarcato su quella marea di vita che superava le capacità di comprensione di lei, tutto questo portò la donna al deliquio. Emma svenne per il dolore del suo cuore spezzato.

In quel preciso istante l’aroma del caffè di un signore seduto in terza fila si fece largo tra la puzza di tabacco bruciato, attraversò i fumi rilucenti per via della luce elettrica e penetrò dirompente le nari del vecchio campione, risalì nelle vicinanze del cervello e prese a fargli un po’ di sano solletico. Questi si risvegliò frastornato. Era a vent’anni e a chissà quanti chilometri di distanza dalla sua Emma quando finalmente realizzò: l’incontro era perso. La sua carriera terminava così, con una dolorosissima sconfitta, nella folla assordante della sua solitudine al crepuscolo.  Le mani erano già state spogliate dai guantoni e ora gli penzolavano dolenti lungo i fianchi lividi. Il giovane Ross andò a congratularsi con quel vecchio gnu che per poco non gli era sfuggito portandosi dietro i brandelli della sua giovane pelliccia. I suoi secondi ancora preoccupati, continuavano a sussurrargli incoraggiamenti per rincuorarlo, ma quello che Luiz Men sentì dentro il suo cuore in quel momento non è traducibile con parole umane. Rispondendo a quella sensazione, inutile da spiegare a chi l’ha sperimentata, perché già sa, impossibile da enunciare a chi non ne ha invece fatto mai esperienza, perché indicibile, Luiz Mendoza Mendez Aguilera iniziò a piangere. Pianse per il cuore spezzato di Emma, pianse per tutti i pugili che aveva sconfitto, pianse anche per Paul Ross, che adesso era giovane e forte, ma che un giorno avrebbe pianto a sua volta, sconfitto all’angolo del suo ultimo round. Pianse forte. Pianse e disse: <<portatemi un caffè. E che sia senza zucchero>>. Quando il bicchierino gli arrivò tra le mani, Ross stava ancora festeggiando. Il vecchio pugile levò il bicchiere al cielo come a voler brindare, poi ingoiò con un solo sorso. Quel caffè era esattamente come doveva essere: puro come l’amata perduta, caldo come l’inferno del quadrato e nero come l’impiego nella raccolta dei grani che ora avrebbe per forza di cose dovuto tornare a svolgere per sopravvivere, ripigliare a campare.

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16 commenti »

  1. Davvero Bravo Michele ! Un racconto denso di sensazioni e sentimenti, una struttura solida e ben costruita come le spalle di Luiz.
    …e poi una narrazione splendida, un alternarsi di tensione e riflessione sapientemente dosate.
    Il risultato è un piccolo capolavoro. Tanti tanti complimenti

  2. Bellissimo il tuo racconto, sia dal punto di vista narrativo, che per il ccontenuto. Soddisfazioni, consapevolezza dell’inevitabile declino e rimpianti, un insieme di sentimenti e sensazioni che colpiscono in pieno stomaco, come un pugno ben assestato. Michele, sei stato bravissimo!!!

  3. Grazie Gianluca, mi fa piacere vedere che il racconto ti sia piaciuto. Spero possa essere il primo di una lunga serie 🙂

  4. Ho letto alcuni dei tuoi “frammenti” e… Davvero complimenti! Una prosa poetica straordinariamente promettente! Grazie ancora, ma soprattutto bravo!

  5. Un grande racconto sullo sport, i sogni, la fatica, il successo e il declino, il sacrificio, la circolarità della vita, l’orgoglio, l’accettazione e altro ancora. Scritto con ironia, forza, rispetto e tenerezza. Belle atmosfere e belle descrizioni di corpo, movimento, ricordi e pensieri. Bravo!

  6. Pasqualina, Marco, grazie per i vostri commenti!

  7. bellissimo, intenso e commovente. Molto ben scritto!Complimenti Michele!

  8. Grazie Aldo per aver dedicato un po’ del tuo tempo al mio racconto 🙂

  9. Bravo Michele, il pugilato è uno sport a cui non mi è mai stato facile accostarmi. Mi hai aiutato a salire sul ring e a vedere oltre

  10. Grazie Ester, sono contento che il racconto ti sia piaciuto 🙂

  11. Un racconto maturo che rivela padronanza nella scrittura. L’accostamento tra la boxe, con le sue vincite e perdite, gli alti e bassi, è metafora della vita stessa del protagonista. E anche l’amaro del caffè nel finale non fa che confermare che si è parte del ciclo della vita. Bello!

  12. Molto più di un racconto. Una storia piena di metafore nelle quali ogni lettore si può riconoscere. Mi sono sentita quel pugile, eppure non ho mai sfiorato l’idea di calpestare un ring.
    Ma quel ring lo vivo tutti i giorni. Non basta essere resilienti, a un certo punto la vita ti presenta il conto. Le energie “sbiadiscono” . Non si è forti per sempre, ed e’ amaro il caffè del rimpianto. Hai un uso della penna straordinariamente efficace nel descrivere la fisicità e l’anima dei personaggi . Per certi versi mi hai fatto venire in mente il Tiziano, con il suo abile pennello in grado di dipingere ritratti dettagliati e dagli sguardi che trasmettono l’umanità e l’anima dei personaggi. Un racconto mi ha colpita come un gancio ben assestato. Grazie e ancora complimenti

  13. Non manca niente a questo racconto che ti trascina dentro fino dalle prime parole. Bellissima la descrizione del match che unisce sapientemente azione e pensieri e che dà più emozione di tanta altre cose lette e viste, anche al cinema, sul tema del campione al tramonto. Come dice LauraBi, è una metafora della nostra vita, un messaggio universale che ci fa riflettere e constatare che prima o poi la parabola discendente arriva e rompe tutte le illusioni delle nostre momentanee certezze, delle nostre presunzioni di infallibilità. Complimenti, Michele, è uno dei racconti più belli che abbiamo letto qui.

  14. Grazie per il tuo commento Ivana, grazie ancora di più per il tempo dedicato alla lettura del racconto. Si’, Luiz è metafora del ciclo della vita, del sacrificio, dell’inevitabile…ma in fin dei conti non è proprio questo il bello della vita?

  15. Grazie Laura, mi ha fatto piacere leggere il tuo commento. È amaro il caffè del rimpianto, però, in fondo il caffè, per vedere se è davvero buono, va preso senza zucchero… “un caffè all’angolo” è un caffè senza zucchero, un estratto di una vita senza illusioni. Sono f
    elice di aver servito un buon caffè 😉

  16. Grazie anche a Les UBU, spero di poter leggere altri vostri racconti.

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