Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2017 “Caro direttore” di Giordano Vintaloro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

– E per quando servirebbe?

– …per ieri, come al solito!

Anche per telefono si sente il solito ghigno stupido di chi fa una battuta ripetuta troppe volte, che fa ridere solo lui.

– Eh eh, certo, allora per la chiusura.

– Grazie, ciao.

Chiudo e maledico il cellulare e quella condizione di freelance, il magico mondo in cui sei libera di lavorare a qualsiasi ora vogliano gli altri.

Sono le 7 di sera e in teoria avevo finito, anzi, stavo per finire di fare i compiti con Tania, mia figlia, e mio marito Antonio si stava appropinquando alla postazione di cucina per far finta, come al solito pure lui, di mettersi a cucinare. Ora mi tocca riaccendere il computer e inventarmi qualcosa su un caso drammatico e oscuro che dovrà aprire il giornale domani e che faccia vendere un bel po’ di copie, altrimenti non lavorerò né fuori orario né mai.

– Su cosa devi scrivere? – mi chiede Antonio, rassegnato a questa routine.

– Su Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto, hai presente?

– Sì, certo. Un affare complicato, praticamente un incidente diplomatico non dichiarato.

– Esatto. Brivido, terrore, raccapriccio e intrigo internazionale. Ci vorrebbe Shakespeare, altro che me. E se non è commovente al punto giusto, è capace di cassarmelo pure e farmelo riscrivere in dieci minuti prima di andare in stampa.

– Tu sei bravissima, e il Bardo ti fa un baffo.

Odio quando dice così e fa pure quell’allitterazione compiaciuta. Accidenti a lui e alla sua adorata poesia inglese.

– Cosa vuol dire cassare? Sembra una parolaccia.

– No, stavolta non lo è. Vuol dire stroncare.

– Anche stroncare sembra una parolaccia.

– Uff…vuol dire rifiutare, ma sgarbatamente.

– Se rifiuti sgarbatamente allora usi le parolacce.

Inutile, i bambini hanno sempre ragione. E ora non ho tempo di controbattere, devo scrivere. Devo trovare il punto di vista.

Egitto. Allora: terra dei Faraoni, grande civiltà del passato, misera civiltà del presente, o tempora o mores, militari, Al Sisi (sembra La Sissi), occultamenti fatti da dilettanti, i servizi segreti non sono più quelli di una volta…

– Quanto deve cuocere il pollo, poi? Non me lo ricordo mai.

Grande popolo, grande paese, secondo paese più popoloso dell’Africa (90 milioni di abitanti…però, così tanti?). Mezz’ora, cazzo, MEZZ’ORA. Poi controlli la cottura. E taglia bene le patate. Crescono le patate in Egitto? Eh mica tante, infatti importano tantissimi cibi, il prezzo del grano se oscilla è un dramma. Controllo del cibo = controllo della popolazione. Come la tassa sul macinato.

– Mezz’ora. Poi controlli. E taglia piccole le patate altrimenti vanno messe prima quelle e poi il pollo.

Cosa faceva là? Faceva ricerca sociale sui sindacati egiziani, che sono pochi e piccoli ma resistono. Sacche di resistenza. Ottimo argomento per ricerche accademiche. Infatti era andato a farla a Cambridge (quella in Inghilterra). Italiani che si fanno onore all’estero, rischi della ricerca sul campo, ricercatori non fermi alla scrivania o topi di biblioteca, fuga di cervelli. Fuga precoce, poi, Collegio del Mondo Unito in Nuovo Messico a 16 anni, se ne sarà andato anche qualche volta nel Vecchio Messico? Visto che è lì, io un giretto lo farei. Magari avrà incontrato Saul e Heisenberg ad Albuquerque.

– Ho finito mamma. Mi manca solo qualche esercizio di divisione.

Cervelli che non ritornano, Italia paese immobile, piuttosto l’Egitto rischioso, anche se con una confortevole posizione a Cambridge è più facile correre rischi. Cosmopolitismo, amore per il sapere, i colleghi ricercatori hanno anche scritto una lettera aperta: bisogna proteggere i ricercatori, rischiano la vita sul campo e sono fondamentali per il sapere. Ma se ti manca qualcosa, allora non hai finito, miseriaccia. È come se dicessi al direttore: ecco l’articolo, manca solo il paragrafo finale. Me lo tira in faccia (via mail). Mail e social, in Medio Oriente sono strumento politico, bloccati spessissimo con scuse di ordine pubblico, e controllati (spiati). Però riescono a creare reti. Reti clandestine di contrari al regime, oppositori politici, sindacalisti, atei (pericolosi terroristi contro lo stato confessionale arabo), e terroristi (pericolosi paladini della religione che usano per portare terrore in occidente).

– Se ti manca qualcosa non hai finito. Hai quasi finito. Dimmi quando hai finito.

Lo so, ce li ho alle spalle ma li vedo. Mi stanno fissando intimoriti, hanno paura a farmi domande perché potrei urlargli contro. Quando scrivo sono così. Quando scrivo sotto pressione sono così. Sono così quasi sempre, e sono stufa, perché io non sono così. Io vorrei la pace nel mondo, gente che pensa a fare l’amore e non la guerra, famiglie felici e single felici. Ma il lavoro di giornalista non è questo, le storie devono essere forti, scandalose o almeno un po’ torbide. Le buone notizie sono piccoli riempitivi per dare l’illusione che ci sia una possibilità di miglioramento. Purtroppo non lo sapevo quando mi sono iscritta a scienze della comunicazione. Poi me l’hanno anche detto, ma illusa come sono non ci ho creduto.

– Non ce la faccio. Stavolta no. Non mi viene niente. Hanno già detto tutto, e finché non saltano fuori dati nuovi non ha senso scrivere altro.

– Le letterature ci insegnano che la stessa storia si può raccontare in modi pressoché infiniti.

Adesso gli tiro un piatto.

– Non farmi la lezione, con me non attacca!

– I grandi come papà non vanno a lezione, i bimbi ci vanno. Vero, mamma?

– Ogni tanto le lezioni servono anche ai grandi. Sai, le cose si dimenticano.

Pensiero laterale, via di fuga, cambio cappello, impostazione tattica, non strategica. Se mi sono messa in un vicolo cieco, devo tornare indietro al punto di svolta.

– Senti, fai pausa pollo e patate con noi. Poi vedrai che ti viene qualcosa.

Punto di svolta: pollo. Forse stavolta ha ragione. In effetti lo stomaco mi stava brontolando e non me n’ero accorta. Forse l’ala del pollo m’indicherà la via.

– Com’è?

– Inaspettatamente, buono.

– Esagerata! – fa lui con un sorrisino – ormai è nel mio repertorio, uno dei piatti di sicuro effetto.

– A me mi piace.

– A me mi non si dice. – la riprendo troppo, lo so.

– Ma a scuola lo dicono tutti.

– E tutti sbagliano.

– Ma non hai detto che se tutti sono d’accordo su qualcosa, allora diventa giusto?

– Dipende dalla cosa. Se tutti sono d’accordo nell’ammazzare alcuni, la cosa non va bene lo stesso. Ci deve essere una regola morale superiore.

– E se tutti sono d’accordo che la regola è che alcuni non devono vivere?

– …

– …

Discutere con una bambina di sette anni cercando di non trattarla da scema ti si può ritorcere contro. A noi capita sempre. Da chi avrà preso? E adesso cosa le dico?

– Ma non succede mai. Succede sempre che solo alcuni decidono di ammazzare qualcuno in particolare, e ordinano di farlo ad altri che eseguono e non discutono. Come è successo al povero ricercatore.

– Quale ricercatore?

– Giulio, quel ragazzo su cui devo scrivere.

– Lo conoscevi?

– No.

– E allora come fai a scrivere qualcosa su di lui?

– Devo raccontare come sono andati i fatti e cosa si è scoperto finora, sono cose conosciute. Solo che l’hanno già fatto in tanti.

– E perché lo devi fare?

– Perché me l’ha chiesto il direttore, devo farlo.

– Il direttore è come quelli che decidono di ammazzare gli altri, allora.

Forse il pollo non è stata una buona idea. Comunque era ben cotto, devo riconoscerlo. Oltre a saper fare battutine, qualcosa sa anche cucinare.

– Perché dici così?

– Perché lui decide e tu esegui anche se pensi che non è giusto.

Porca miseria, qui devo agire d’autorità.

– Senti, sei piccola e non puoi capire tutto. Ma il direttore non è come uno che decide di ammazzare gli altri.

– Però tu pensi che non c’è niente da dire su quello che vuole lui, ha ragione. – interviene Antonio. – Perché non scrivi quello che vorresti leggere anche tu?

– Perché se no il giornale non vende e non mi pagano. E poi se devo dire qualcosa di nuovo ho bisogno di fatti a supporto, non ce li ho e non ho certo il tempo di andarmeli a scovare. Non posso inventarmi favole.

– Perché non gli piacciono le favole? Sono belle. – guai a toccare le favole a una bambina.

– Perché le favole finiscono bene. Nessuno vuole leggerle sulla prima pagina del giornale.

– Allora fai una favola che finisce male, così il giornale la pubblica.

Una favola che finisce male. In effetti molte favole finiscono male. Alcune sono proprio terribili. Quelle vecchio stile, che oggi non vanno più di moda. Andersen e i fratelli Grimm, quelle regionali italiane. Guardo l’ala del pollo sul piatto. Mi indica il computer. Sì, torno a scrivere.

Mi viene in mente che Regeni era di un paesino della bassa friulana.

– Com’è che si chiama quel posto? – chiedo ad Antonio.

– Fiumicello. Mia nonna era di lì.

– Ecco dove l’avevo già sentito.

– Anche la tua nonna era ricercatore? – chiede Tania.

– Ricercatrice, casomai. No, lei cercava solo un po’ di tranquillità e un lavoro.

– Allora era sì una ricercatrice. Cercava.

– Vabbè, se intendi questo lo siamo tutti. No, un ricercatore cerca cose speciali, i dettagli che non si vedono, i segreti. Li mette assieme e poi li pubblica, così tutti li possono leggere e conoscere.

– E quando ha finito di cercare?

– Cerca altre cose. Il mondo è pieno di cose da scoprire.

Tania si troverebbe bene lì. Il Friuli è un posto ordinato, dove abita gente molto precisa, metodica, e parecchio testarda. Certo, è vero anche di altri posti, mica è un’esclusiva. Ma lì, vicino ai confini, è un modo di vivere particolarmente temprato dalle guerre e dal tempo. La cosa curiosa è la creatività delle persone, riesce a esprimersi solo in segreto e in modi che rasentano l’ossessione e la follia. L’anticonvenzionale in un contesto difficile partorisce strani risultati. Joyce aveva iniziato a scrivere l’Ulisse a Trieste, dove ha vissuto 10 anni (parlava piuttosto bene il triestino, dicono), e Michelstaedter si era sparato a 23 in una soffitta di Gorizia dopo aver stabilito con certezza di aver compreso la verità ultima del mondo.

Antonio viene da quei posti, ci siamo incontrati a Trieste perché io volevo fare l’interprete ma non sono entrata alla Scuola – forse per quello mi irritano le sue frasette da prof di lingue – e ho ripiegato su scienze della comunicazione a Bologna.

– Fiumicello però è sul confine. – aggiunge dopo un po’.

– Ma no, sarà a 30 km – l’ho già trovato sulle mappe.

– Ma non il confine di stato. Mica c’è solo quel confine, lì. È al confine linguistico, vicino all’Isonzo e verso il mare. Si parla un friulano bastardo, è mescolato al bisiaco di Monfalcone, che è una lingua veneta, e a un po’ d’influenza di Grado, che ha il suo antico dialetto isolano diverso da tutti gli altri. Mia nonna li parlava tutti e tre.

– E vabbè. E allora?

– Vuol dire che prima c’era il confine dell’Impero austro-ungarico, cent’anni fa. Passava lì vicino. Non c’è più ma ha lasciato il segno. In quei posti i confini sono dappertutto, dovresti saperlo.

Già, dovrei saperlo. In effetti è una cosa che mi ha sempre dato fastidio e che per questo ho sempre rifiutato di approfondire. Il problema è che i confini ce li avevano nel cervello, pensavo. Però dove c’è un confine c’è sempre anche un centro. E quali sono i centri, oggi? Quali erano cent’anni fa? Roma e Vienna? Ma guarda un po’.

Me li immagino, questi contadini del confine del 1915 senza neanche gli occhi per piangere che si vedono arrivare le truppe inviate da Roma e da Vienna. Prima gli italiani, che sfondano verso la sacra Gorizia e l’eldorado di Trieste. Poi gli austriaci, che si riprendono ciò che era loro, la principesca contea proprietà personale del Re e Imperatore e il porto franco. Poi di nuovo gli italiani. Loro sì che potevano dire di essersi svegliati e di aver trovato l’invasor. Ma l’invasor era sempre diverso.

– A cosa stai pensando? – mi chiede Antonio, vedendomi assorta a fissare il muro sopra lo schermo.

– Stavo pensando alla guerra.

– Quale guerra?

– La guerra in generale. Fa schifo. Il partigiano di Bella Ciao è un eroe, vero? Eppure chissà quanti tedeschi invasor ha macellato prima di finire sepolto in montagna sotto l’ombra di un bel fior. Degli eroi si ricordano solo le cose belle, ma se sono diventati eroi è evidente che le circostanze facevano talmente schifo da non potere fare altrimenti.

– Be’, si sa. Nel racconto diventa tutto più bello, mica puoi dire in ottava rima che Orlando si ferma in battaglia per scaccolarsi. Anche l’Eneide s’inventa di sana pianta degli episodi eroici per nobilitare la nascita dell’Impero romano. Ma Ottaviano aveva semplicemente preso il potere facendo fuori Antonio e Cleopatra.

Impero, impero, impero. Perché ricorre sempre questa parola? Perché questa smania di potere? Anche Al Sisi, mica che anche lui vuole rifare un impero, come quello dei Faraoni? Forse voleva vendicarsi di quello spiacevole episodio di Cleopatra di 2000 anni fa? Sto scivolando nel mito, manca un’ora alla consegna e non ho scritto una riga.

– Allora, ti ho dato lo spunto per un taglio?

– Sì, sarà breve – per forza, non ho tempo.

– Questa è una battuta che farei io. Ma Tania dov’è?

– Si è addormentata sul divano, a forza di sentire queste storie di imperi.

Chissà, forse sta sognando la favola del ricercatore che va in giro per il mondo a cercare segreti per poi fare la sua pubblicazione. M’immagino la storia:

 

C’era una volta un ricercatore.

Era nato ai confini del grande impero dell’Austria Felix, un impero che si era estinto centro anni prima, dove un tempo si dice che tutti fossero felici. Anche oggi in quelle terre sono tutti piuttosto felici, anche se nel frattempo sono passate due guerre e una grande devastazione.

Era nato in un paese abbastanza vicino al mare da sentirne l’odore, ma non lontano dalle montagne che nelle belle giornate sembravano vicinissime e minacciose con le loro punte innevate. Si chiamava Giulio e le montagne si chiamavano come lui, era logico che quella dovesse essere casa sua, pensava. Era felice perché viveva in un bel posto, circondato da vigneti, pescheti e persone tranquille. Ma era anche curioso, ed è per questo che era diventato un ricercatore.

Non si stancava di indagare, di domandare, di scoprire il perché delle cose. E una volta finito di cercare attorno a sé, decise che doveva cercare altrove. E partì per l’America. Voleva sapere se anche negli altri imperi le persone erano felici.

Attraversò il grande oceano. Si accorse che lì c’erano tanti che erano molto ricchi e felici, ma molti di più erano quelli poveri e infelici. Era il paese in cui tutti avevano un’opportunità, ma per uno che riusciva a coglierla c’erano migliaia di altri che non ce la facevano e si limitavano a sognare di essere felici. – Questo modo di vivere è ingiusto. – pensò.

In America viveva vicino a un confine. E com’era abituato a fare, lo passò.

Anche lì l’impero non c’era più. Visitò le grandi città e la famosa foresta. Nel mezzo, mimetizzate dagli alberi, c’erano delle grosse piramidi con gli scalini. Provò a scalarle, e arrivato in cima riuscì a vedere lontanissimo. Pensò: – Be’, quassù la vista è magnifica, chi può vedere quello che vedo io, è sicuramente felice. Ma il resto del paese non mi sembra felice, c’è tanta corruzione e criminalità, e tanti sono poverissimi.

Tornato in Europa, andò a visitare quello che una volta era stato l’impero più grande mai esistito. Aveva ancora una certa autorità, ma l’Imperatrice si era ristretta a Regina. La gente che ci viveva era tutto sommato ancora abbastanza felice, anche se lavorava troppo e spesso non aveva il tempo di fare quello che voleva davvero fare. Pioveva molto ma c’erano anche molti libri. Pensò che fosse un bel posto per studiare. E lì cominciò finalmente a scrivere di tutte le cose che aveva visto fino a quel momento. Voleva pubblicare le sue ricerche, in modo che tutti sapessero.

Studiando e scrivendo, si accorse che tutto il suo cercare, in fondo, voleva stabilire se c’era un posto in cui le persone fossero davvero felici. Felici com’era lui nel tempo che aveva passato al suo paese. S’incuriosì – era un ricercatore, dopotutto – e pensò che doveva andare a indagare in Egitto, l’impero più antico. C’erano le piramidi anche lì, ma erano più lisce di quelle che aveva visto in America, difficili da scalare.

Cominciò a incontrare le persone: non erano felici, anzi, qualche anno prima avevano addirittura fatto una rivoluzione per cambiare le cose. Ma un nuovo “imperatore” aveva preso il posto di quello vecchio con la forza, e non gli piaceva che la gente facesse troppe domande e richieste, voleva solo che ubbidissero.

– Questo non va bene – pensò, – questo è sicuramente il posto più infelice di tutti quelli che ho visto. Devo fare qualcosa.

Imparò la lingua e cercò di scalare le piramidi. Parlò con la gente e scoprì che erano tanti quelli che non erano d’accordo con il nuovo imperatore. Cercò di pubblicare le cose che sapeva e che aveva appreso in tutti i suoi viaggi e i suoi studi. Tutti avevano diritto di sapere. Giulio rispondeva alle domande di tutti, e tutti gli portavano rispetto perché vedevano che teneva alla loro felicità.

Ma l’imperatore lo venne a sapere e lo fece rapire. Voleva sapere cosa aveva detto alla gente, e cosa la gente aveva detto a lui, e quale segreto nascondeva quella ricerca sulla felicità che sembrava interessargli tanto. Gli uomini dell’imperatore glielo chiesero per giorni, ma lui gli rispose sempre la stessa cosa: – Voi non mi fate domande come gli altri, per cercare di diventare felici. Voi cercate solo il modo di rendere infelici gli altri. E io, a voi, non rispondo.

Sapendo che quello che diceva il ricercatore era vero, non sopportarono di avere trovato qualcuno che non gli ubbidiva. E lo uccisero. Per mascherare il delitto, lasciarono il corpo del ricercatore per strada, fingendo che fosse rimasto vittima di un incidente.

Pensarono così di avere risolto il problema.

 

Caro direttore,

Ecco il pezzo per la prima pagina. Non è una favola, e infatti è finita male. Per ora.

Infatti, gli uomini dell’“imperatore” non sapevano che altri ricercatori, in gran segreto, stanno portando avanti il lavoro del ricercatore curioso nato ai confini di un impero, e ucciso in altro impero che non c’è più.

Ci sono al mondo molti più ricercatori curiosi che tirapiedi ignoranti, per fortuna. E stanno scrivendo altri racconti per i quali, forse, il finale sarà felice come sognava per il suo il ricercatore Giulio.

 

 

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5 commenti »

  1. Giordano, perché nessun commento? perché il tema è arduo e la storia difficile da digerire? forse sì, ma il tuo racconto è tenero crudele dolce e disperato, ma soprattutto trasmette lo sgomento per il destino atroce che la vita ha riservato a questo meravigliosa persona che era Giulio. Non l’ho mai conosciuto, ma ho pianto per lui quando è successo, e ho faticato ad arrivare in fondo al tuo testo, ma l’ho fatto per un dovere di civiltà.

  2. Giordano molto bello il tuo racconto, un ritmo incalzante un intreccio di vicende domestiche e internazionali, un ansia da prestazione e un finale poetico.
    Scritto benissimo, con dialoghi serrati e una prosa sicura e fluida. Complimenti

  3. Gentili Paola e Gianluca,
    grazie per i vostri bei commenti e complimenti. Il racconto l’ho scritto perché secondo me la storia di Giulio meritava un contesto diverso dalla solita cronaca frustrante.
    Ho pensato che un racconto poteva essere un buon modo per cominciare a pensare che la libertà intellettuale è qualcosa che riguarda tutti, a partire dai bambini che nascono curiosi.
    Sono contento che vi sia piaciuto, grazie!

  4. Ciao Giordano, riprendendo la tua risposta ai commenti precedenti, direi che sei riuscito nel tuo intento. Mi è piaciuta l’idea di accostare la storia di Giulio a quella della giornalista free lance, creando una sorta di polifonia di voci e punti di vista diversi.

  5. Ciao Ivana, grazie anche a te per il tuo pensiero. Sono contento che ti sia piaciuta la storia parallela. Una delle mie intenzioni era anche di collegare due lavori che sembrano molto distanti (ricercatore e freelance) ma che oggi sono accomunati da molte cose, tra cui la precarietà e la mancanza di risorse, che spesso si traduce in una mancanza di sicurezza. Da quella familiare, a quella sul lavoro, a quella personale e della propria vita.

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