Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

“Premio Racconti nella Rete 2023 “Goodoo” di Gerardo Marletto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

“Passe la balle, Goodoo! Alez Goodoo, passe-la! Arrête de jouer tout seul!”. Non c’è niente da fare, non so quante volte gliel’ho detto che il football è un gioco di squadra, ma non c’è niente da fare, quando prende la palla non la molla più e pensa di fare tutto da solo fino al goal.

“Et alors Goodoo, mon Dieu, passe la balle!”, ecco mi è scappato di nuovo, ho di nuovo violato la regola della missione – niente parolacce e ricordarsi il secondo comandamento: non nominare il nome di Dio invano. Speriamo che nessuno mi abbia sentito e invece no, eccola lì Maria con i pugni sui fianchi e gli occhi azzurri sgranati che mi rimproverano in silenzio, ma già lo vedo che le sta scappando un mezzo sorriso, i suoi rimproveri durano sempre poco.

Maria è una missionaria laica; sempre vestita uguale: sandali sportivi, pantaloni grigi, una t-shirt più o meno spiegazzata e sbucazzata e al collo il cordino di cuoio con appeso il crocefisso di legno che indossa sempre. Beh, proprio sempre no, perché quando delle volte ci vediamo la notte nella mia capanna il crocefisso se lo toglie, lo appende col viso rivolto al muro a un chiodo che c’è accanto alla porta della mia baracca. “I don’t want Him to see what I do with you”, questa la spiegazione che mi diede la prima volta. Io da poco avevo cominciato a frequentare la missione, forse da un paio di settimane; lei l’avevo notata subito, non è che ci volesse molto, in mezzo a tutti i missionari barbuti e le miriadi di ragazzini che venivano alla missione, lei si distingueva al primo colpo d’occhio. Forse per lo stesso motivo lei aveva notato me. Senza fare troppe storie avevamo cominciato a tenerci compagnia, ci piacevamo fisicamente e conoscendoci avevamo anche scoperto che c’era qualcosa di più, un’affinità nei caratteri e nei modi di fare, ma ce l’eravamo detto che avremmo vissuto alla giornata perché sarebbe venuto il momento – prima o poi – di separarci, perché lei veniva assegnata a una nuova missione chissà dove o perché io dopo aver finito di scontare la mia condanna me ne sarei tornato a casa.

I comboniani li avevo conosciuti in carcere, loro lì venivano non solo a prestare i servizi religiosi – la messa, le confessioni, delle volte persino i battesimi di qualche recluso che si convertiva – ma anche a gestire le attività ricreative, culturali e lavorative. Due di loro tenevano un corso per imparare a creare piatti, anfore e tutto il vasellame che ancora oggi si usa nei villaggi rurali del Madagascar, un altro gestiva la piccola biblioteca del carcere e dava qualche lezione di francese e un altro ancora – padre Joseph – ci faceva fare un po’ di ginnastica nel cortile. Proprio a padre Joseph avevo chiesto se poteva convincere il direttore a farci avere le attrezzature per fare qualche sport di gruppo; ci servivano le porte per il calcio, la rete per la pallavolo e i canestri per il basket, e poi le palle, senza le palle non potevamo fare niente. Alla fine ci diedero solo la rete e un paio di palloni per la pallavolo, ma noi ci giocavamo anche a calcio facendo i pali delle porte con le nostre magliette. Padre Joseph si accorse che io ero riuscito a spiegare a tutti i fondamentali della pallavolo e gli schemi minimi per non giocare a casaccio, avevo anche insegnato i rudimenti del calcio a quei pochi che non li conoscevano, così riuscì a convincere il direttore a darmi l’incarico di responsabile delle attività sportive del carcere. Per me fu una grande liberazione, per me l’attività sportiva era sempre stata importantissima, ma non era solo divertimento, era anche un momento di liberazione dalla cupezza che mi seguiva costantemente da quando – ero poco più che un ragazzino – era morto mio padre. E così mi diedi da fare, per qualche settimane feci dei gruppi di allenamento che si avvicendavano nel corso della settimana e poi da questi gruppi creai delle squadre che si confrontavano in veri e propri tornei con le partite di andata e di ritorno, la classifica e la cerimonia di premiazione finale. La mia energia e capacità organizzativa colpì padre Joseph che mi chiese se avevo voglia di fare la stessa cosa coi ragazzini che venivano alla missione e che svogliatamente facevano gli esercizi di ginnastica che lui gli proponeva ogni tanto. Io ovviamente dissi di sì, perché era sempre sport e soprattutto perché voleva dire uscire dal carcere.

Quando arrivai alla missione rimasi scioccato, ero pronto a ritrovare la povertà che già avevo incontrato non so più quante volte nelle metropoli africane, asiatiche e sudamericane, ma non di vedere così tanti ragazzini mutilati: a chi mancava un piede o l’intera gamba, altri avevano perso un occhio o entrambi le mani. Per un motivo o per l’altro quasi tutti sono passati per l’ospedale di Medecins sans frontieres che c’è a pochi chilometri dalla missione, specializzato nella chirurgia di guerra e affiancato da un laboratorio protesico all’avanguardia. Per molti di questi ragazzini lo sport da praticare non è una scelta ma una necessità, chi ha problemi con le mani gioca a calcio, chi ha problemi coi piedi gioca a basket o a pallavolo, mentre a quelli che proprio non possono fare nulla perché sono inchiodati su una sedia a rotelle ho insegnato ad arbitrare. Ho dovuto anche allentare un po’ le regole: due passi in più con la palla in mano nel basket, la possibilità di bloccare la palla prima di ripassarla nella pallavolo, i tempi di quindici minuti a calcio…Goodoo è uno di loro, in fondo è fortunato, il proiettile che era destinato a farlo fuori l’aveva mancato di pochissimo, però aveva fatto schizzare dritta nel suo occhio destro una scheggia del tronco dietro al quale si stava proteggendo. Con la sua benda da pirata è il più forte a calcio, ma giuro che se non impara lo spirito di squadra lo metto in panchina a cuocersi nella sua stessa rabbia.

I ragazzini che vengono in missione hanno tutti avuto a che fare con la guerra, molti hanno perso la famiglia e hanno dovuto abbandonare il loro villaggio finendo in qualche campo profughi e poi nella rete di assistenza delle ONG o di qualche missione; a questi ragazzini i comboniani offrono istruzione e – a quelli più grandicelli – l’avviamento a una professione. Alcuni erano soldati e sono quelli più difficili, di loro si occupa Maria che infatti è una psicologa, lei li prende in carico dopo che hanno fatto un periodo in ospedale per disintossicarsi di tutte quelle sostanze di merda che gli davano per tenerli svegli e allucinati e riuscire a fare quello che hanno fatto, ammazzare, seviziare, torturare. Io ne so qualcosa, io li ho visti all’opera, delle piccole ed efficientissime macchine da guerra. Tutti i ragazzini – tranne gli ex-soldati – vengono qui la mattina e poi il pomeriggio se ne tornano al villaggio o al campo profughi da cui sono venuti; gli ex-soldati invece dormono qui, quasi ogni notte dal loro dormitorio sento arrivare le urla dei loro incubi. Ho visto Maria come ci lavora, all’inizio sono quasi ingovernabili e servono due o tre missionari per trattenerli ed evitare che Maria venga aggredita e malmenata, ma lei non arretra neanche di un millimetro e continua a proporre loro delle attività, sono dei giochi semplicissimi o qualche lezione per imparare a scrivere e leggere. Dopo un po’ – quando si sono quasi del tutto calmati – comincia a farli disegnare, non solo per farli sfogare in un’attività creativa, ma anche perché i disegni le servono per capire che cosa ribolle nelle loro menti traumatizzate. Io li ho visti questi disegni, sono agghiaccianti, sempre scurissimi, con facce mostruose, pezzi di corpi, occhi giganteschi; spesso i particolari di questi disegni sono innaturalmente neri, è nero il sole, o le nuvole, o gli alberi. Delle volte Maria arriva con gli occhi carichi di commozione per farmi vedere dei disegni in cui finalmente s’intravede un po’ di normalità, un po’ di serenità; come ha detto lei una volta: “Let’s celebrate a rebirth”.

Piano piano anche gli ex-soldati vengono a praticare gli sport con me, alcuni si avvicinano da soli, incuriositi, con la voglia di divertirsi cogli altri; altri me li porta per mano Maria e io devo poi darmi da fare per convincerli a giocare e a partecipare, ma all’inizio quasi sempre non riescono a fare nulla, se ne stanno lì fermi in mezzo al campo disinteressati al gioco, persi in chissà quali visioni atroci. Anche Goodoo aveva cominciato così, anzi peggio di così, lui alternava momenti di assenza a momenti in cui senza preavviso agguantava un compagno per poi prenderlo a morsi. Ma poi si è calmato anche lui ed è diventato la nostra piccola star del calcio, devo solo trovare il modo di farlo uscire dal suo individualismo sfrenato. Potrei provare a fargli allenare i nuovi arrivati, chissà che qualche responsabilità e un ruolo riconosciuto non gli facciano ammorbidire quella testa dura che si ritrova, così non dovrà più sorbirsi la canzoncina provocatoria che gli canto di continuo: “Goodoo têtu, Goodoo têtu, continues comme ça e tu ne joues plus”.

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3 commenti »

  1. L’ho letto volentieri, molto bello.

  2. Bel racconto di rinascita!
    Bravo!

  3. Grazie!

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