Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Ricominciare” di Tina Osser

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Mio padre ha solo diciannove anni più di me, così tra lui e suo padre. Dice che sembro uno scheletro, ossa che scrivono. Costole sporgenti che si possono suonare come il budello della chitarra. Scatta foto, ma nasconde i lividi sbiaditi del mio corpo nudo sotto farina, acqua e gocce di chiara d’uovo. Fa oscillare braccia, gambe, asciuga il sudore sulle palpebre, mi ficca fra le dita un’immagine, un cuoricino dorato e una stella di plastica. Ha le mani ardenti. Stringe una collana di pietre nere avvolta in un tessuto arabescato, Un frammento di tenda o un cuscino. Scatta le sue foto e racconta che in due mesi, impastando il pane alla mensa della stazione ferroviaria di Piacenza, la sua vita di undicenne era cambiata. Non più fame sui libri di scuola.

Una rovina che consuma anche me.

Era ritornato a casa nel cranio avvelenato della periferia romana. Ha diciannove anni più di me e questo a volte lo spaventa. Non è stato mai sincero e non credo abbia mai saputo ascoltare il battito di un cuore umano. L’ho sempre visto così, con una piaga che appare e scompare sul braccio, la raucedine, la caramella d’anice, l’assedio degli stuzzicadenti in bocca. Noi sappiamo che mia madre spia incollata al buco della serratura e sa cosa fa sul tappeto la sua bambina tredicenne. Sa che tutte le loro vite sono in pericolo, sa che stanno diventando cadaveri respinti. E solo così rappresentano una famiglia, ne hanno il senso, l’odore, la ferocia, i finti brividi dell’innocenza.

Vivevamo vicino alla marrana, un luogo d’acqua e fremiti di rane. Un posto lontano dalla strada, una riva greve tra le canne. La fine della loro storia, dell’odio e dell’amore tra mio padre e mia madre, è stata crudele, un muro che si è chiuso su di noi che l’avevamo costruito proprio per quella utile fine.

Lei, ridotta a pezzi e brandelli colpi di bastone accanto al convento di clausura dove si vivono per sempre vite recidive, protette dagli alberi di ciliegio bianco donati dalle suore di  Ferrara.

Era finito il mio futuro nel deserto dove avevo vissuto come un cane fedele. Nella provocazione quotidiana non è difficile morire a colpi di bastone, una morte per mano di nessuno, di un marito che adesso si dispera curvo come uno schiavo. Lapide al cimitero. Un grande nulla. Lei è stata mia madre, il mio servilismo, il mio eroismo e gli ordini di mio padre, il suo balbettio impaurito e oggi il figlio che sto per cancellare. E’ stata lei il mio costante desiderio di uccidere e il mio eterno vuoto. Io l’ho amata senza nostalgia, ora senza pietà.

Non volevano credere ai loro occhi. Era perfetto, con i piccoli pugni chiusi e rugosi. Avvolto in una plastica, gli occhietti spalancati e vitrei tra le canne secche della marrana. Intorno, poliziotti e zanzare. Giornalisti e fotografi non sapevano dove mettere i piedi per paura di scoprire qualcos’altro nell’argilla umida e fetida.

Il poliziotto frugava nella terra e bestemmiava.

“Sono diventata morte” pensavo osservando tutti quei figli di puttana che scorticavano la plastica per togliere la terra intorno alla bocca del neonato.

Ho socchiuso le palpebre. Una traballante giornalista piange impigliata in una trama di radici, sta per cadere nel fango. Lacrime che le avrei fatto volentieri ingoiare alle luci della ribalta di un campo pietroso. Scommetto che ne aveva di riserva per ogni genere di orrore ingenuo e nevrotico, infantili o di plastica lattiginosa. Una così poteva marcire per mesi durante un pellegrinaggio, illividita e scivolata in un fosso di fango nero.

Mio figlio era finito in un sacchetto gelato senza neppure respirare. Una bambola tremante con le gambette corte o spezzate, dentro una tenda trasparente che gli schiaccia il naso di lumaca bavosa. Carne di povera madreperla.

Il poliziotto dall’aspetto primitivo solleva il sacco come fosse un nido mentre un faro fruga negli avanzi di una vita scartata. Il vento improvviso scompone le tracce di fotografi e giornalisti.

Il fruscio delle telecamere e l’oscena perforazione degli zoom sono uno stupro meccanico di metallo nero, un seme con occhi di vetro allungati su un piccolo delitto. La gente del quartiere osserva dal vero quello che vede sempre in tv. Ecco invece un corpicino imbalsamato nello spazio acceso dalle luci come un piccolo televisore gettato sulla terra. Un ghiotto cerchio che si chiude: è diventato fotografia, carne in scatola. Occhi rotondi e rugosi, scuri e aperti. Un bambino spillo che guarda tutti noi e me, sua madre. Qualcuno mi mette un microfono davanti alla bocca. Guardo la telecamera, nuda, ottusa.

“Mi chiamo Nicoletta” dice la giornalista. Non rispondo. La osservo mentre si allontana con la telecamera e i fogli stretti sotto l’ascella. Nicoletta lancia occhiate complici, scrive e sorride. Storce la bocca di tanto in tanto, forse ha capito, forse non vuole capire. Ha un brillantino sulla narice destra, le scarpe violacee affondano nel fango. Non mi perde di vista. In testa ha quattro mollette a forma di lemure. Torna e parla. La telecamera minacciosa è lontana, abbandonata sul sedile del furgoncino. Mi dice piano che ha dieci giorni di tempo per decidere se interrompere la gravidanza. Le medicine rischiano di fare male al bambino che aspetta da poche settimane. Non mi chiedo neanche il perché di questa bugia così evidente. E’ sospettosa ma calma e scatta fotografie. Uno diventerà tra poche ora la copertina di un giornale, l’altro un reperto da tribunale. Non sa niente ma fiuta la polpa degli elementi ancora sparpagliati almeno che qualcuno non riesca a trapassarle la gola nel buio, tra le canne della marrana. Nell’aria di Centocelle c’è odore di minestrone, passano vecchi tram che stridono come lupi. Inizio a passarmi lo smalto sulle unghie, lei si ferma di scatto e si lamenta della puzza e del fango.

Ragiono sulle ultime mie faccende. Forse il padre è il medico, uno degli ultimi incontri, non brevi. Voleva che ballassimo al suono del valzer del Gattopardo e siccome non capivo e restavo nuda a fissarlo, mi disse che voleva solo controllare l’immobilità della mia indifferenza. Sembrò soddisfatto e ballò da solo.

Tornò a cercarmi dopo due settimane. Mi portò davanti alla finestra della stanza. Quando cominciai a spogliarmi lui mi fermò. Desiderai che qualcosa mi schiacciasse: aspettavo, mentre la luce calava oltre vetri, i capelli sciolti sulle spalle in quella penombra che brillava di nulla, aspirata dal vuoto delle sue braccia che mi stringevano, stupita dal segno feroce della sua miseria. Sembrava in attesa dell’obolo, della carità. Quasi lo costrinsi e fu la prima volta che scoprii il piacere.

Mi disse che si occupava di disagi psichici e che lo interessavo perché trasmettevo idee malate senza compromessi. Gli chiesi di portarmi al mare. Distesa sulla spiaggia umida guardavo il cielo. Raccontava di un giovane che si bruciava regolarmente le spalle con l’acido e di un paziente che da vent’anni andava in una stanza d’albergo a Camaiore, la stessa nella quale sua madre si era suicidata mentre lui era lì: aveva quattro anni e mezzo. La mano umida e sabbiosa del medico frugò tra le gambe con leggerezza e gettò lontano via le scarpe nere. Aveva piedi minuscoli e gambe magre, senza peluria. Esitava, somigliava a mio nonno che adorava le osterie e credeva   al destino. Mi sembrò che fosse lì a guardarmi con i suoi occhi complici e i giochi delle sue dita arrotolate di fili magici che cambiavano forme e spazio. Era uno che preparava sempre la valigia ma non partiva mai. Un giorno la buttò via dalla vergogna. Quel caotico smarrimento lo fece invecchiare di colpo: salvò soltanto la macchina fotografica. Fu allora che capii il perché di certe strane somiglianze e soprattutto il perché della mia segreta violenza. Era di tutti contro tutti, in ogni luogo: sempre mistificato, mascherato, forse si trattava soltanto di riflettere su un pugno di giorni cancellati dalla mente. Ma il volto di mio nonno, i libri di favole che comprava per me e leggeva con voce dolcissima, erano parte della mia identità? “Il Piccolo Principe”, gli stivali, le stelle, i pianeti, l’elefante, il cielo con una sola linea infinita, erano nella valigia lanciata dalla finestra e dove sono approdate le favole? Perché sei sparito nonno?

Riemersi dal torpore: ora lui mi stava lavando le braccia, il viso, il corpo con l’acqua di mare. Andammo a mangiare in una rosticceria di via dei Gerani.

Nel cielo lucido e nero le colline, oltre la distesa di rovi e alberi polverosi che lambivano Torre Angela, apparve una grande luna d’ambra nel cielo: tutto, senza motivo apparente, era più grande e importante di me. Una manciata di perle, stelle conficcate nel cielo. Ho cercato tante volte di rivedere con chiarezza quell’attimo breve. La luce si era curvata all’orizzonte, simulando raggi e drappeggi di un blu intenso. Poi il tramonto morì veloce dietro un velo opalescente, rosso e viola, durato un attimo.

I miei piedi, lontani dal corpo, piombarono sul gradino della rosticceria e mi trascinarono dentro. Conoscevo bene la signora Maria. Era molle e gonfia come la pasta di una pizza uscita dal congelatore. Era tardi, il locale vuoto, i supplì freddi. Guardai le strane cartoline disseminate sul bancone e sui tavoli. Notai le enormi tondeggianti nuvole di pelliccia bianca sul ghiaccio. Sono gli animali più grandi, imprevedibili e feroci del pianeta. Si vede la piccola foca straziata tra le fauci di un orso bianco. Ho letto che a Longyearbyen, isole Svalbard, serve la motoslitta o una slitta tirata dai cani. Non ci si muove senza guida o senza un fucile. La carabina si può noleggiare soltanto dimostrando di saper sparare. Il maestro delle elementari ha un fucile accanto alla cattedra. Fuori tutto è recintato. Nell’oceano veleggiano le balene. Lassù l’avvenire non è un problema, non c’è niente da perdere e i sentimenti cambiano senso.

Ricordo quando ho cominciato ad aver paura di me stessa e anche quando il medico mi aiutò ad affondare. Finché rispondevo a odio con odio mi potevo salvare. Ora sono molto stanca e tutto avviene soltanto per caso. Scrivo qualcosa su quella cartolina della rosticceria: decido di farlo. So che Nicoletta, La giornalista della tv, vuole catturare verità segrete su quella terra inquinata della marrana. Adesso sono io a decidere, a chiamarla.

D’ora in poi niente dovrà avvenire per caso. Non voglio più che l’avvenire sia ricattato dal mio ieri. So che polizia e stampa hanno abbandonato quella storia senza colpevoli. So che Nicoletta ha dimenticato me e il corpicino abbandonato. Sono al sicuro. Ma quel bambino l’ho amato come si ama l’infanzia. Adesso le   scrivo, voglio incontrarle, parlare. Non cerco pietà, non sopporterei la vergogna. Vediamo cosa ha da dire. Io sono disposta a ragionare con lei. Con Calma.

Sono stata da piccola nel cortile di un carcere quando le bambine stavano per poco tempo con le proprie madri, dietro le sbarre, alle quali ci aggrappavamo urlando di dolore quando ci strappavano per scaraventarci lontano. Con mia madre che fabbricava pupazzi di pezza, giocavo con gli orsi bruni e bianchi, le foche e le rane gialle e verdi. Avevamo anche due cucchiai di latta e la domenica il semolino caldo prima della mela.

Posso ricominciare da lì.

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3 commenti »

  1. Una bella storia di cose brutte, con una via di uscita ed un nuovo inizio, risalita, riappropriazione. Una scrittura ricca e densa che lentamente esonda dal tracciato dei fatti per invadere e riempire gli avvallamenti della memoria e della coscienza. Complimenti davvero e in bocca al lupo!

  2. Vorrei essere bravo a commentare come Marco Floridia per scrivere le stesse cose che lui ha scritto. Mi limito a ribadire (*_*)

  3. : ) ) ) )
    Rinnovo un grandissimo in bocca al lupo a Leonardo, Tina e a tutti i partecipanti, scrittori, e commentatori!

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