Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Sorelle sconosciute” di Tina Osser

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Respirava a scatti per solitudine o per respingersi. Sudava nel caldo del vagone. “Ti proibisco di non vedermi”: ricordo una gonna rossa in corsa sotto il ponte della ferrovia di San Pietro, la strada dell’amore, la chiamavano.

Ancora un ruggito di treni: tutti guardano fuori, quanto tempo passeremo in questo scenario di luci riflesse, né alberi né luna, fuori c’è solo il semicerchio della galleria.

Sedute nel vuoto. Lei ha gli occhi grigi, ombretto verde. Capelli ben divisi, schiacciati, gelatinosi, il seno prosperoso separato da una linea netta ma depressa da un unico neo al centro. Da quel segno riconobbero nostro padre. I suoi piedi fremevano ancora senza guida. Una morte ferma tra grani di polvere.

“Muore per sé stesso ucciso da altri”.

“Non ho mai capito quella tua frase”, dicesti, come nostro padre.

Che cosa dobbiamo ancora perdere? La vita o la sola visione dei tuoi capelli, il libro di musica, o la tua borsa stretta al fianco piena di libri?

Sulla moquette del treno, macchiata, tutti marciano rapidi alla fine del vagone e ritornano con le mani in tasca scuotendo il capo.

I ricordi. Gonna rossa, disegni di piccoli delfini, non ti sei voltata ad accettare un cieco singhiozzo: silenzio e fuga come se stessi sognando, poi ti strinsi tra le braccia per proteggere il tuo intimo silenzio. Avevi iniziato ad essere sola, a scrivere lettere che poi stracciavi.

I suoi occhi bruciavano completamente l’oscurità. Anna ha resistito a lungo con gli occhi gonfi di un amore violento: un minuto e poi anni in una città di primavera. Mano sul velo, in mezzo al petto, e il gatto che miagola con delicatezza e languore. Note di cicale roche e strazianti dove la gola minuscola è un artiglio.

E’ seduta sul treno davanti a me e semplicemente non mi riconosce. I suoi occhi non mentono. Hanno il colore della sabbia bagnata, guideranno un treno verso la morte, lontano dalla mia morte.

Il treno è bloccato da tre ore in galleria, oggi, 27 settembre, a pochi chilometri da Roma. Odore dello zucchero sulle mani, adesso o tanto tempo fa in uno dei tuoi libri oppure in un film luminoso, angosciante e senza troppe parole.

Il vento non arriva in galleria e tu leggi Anna Karenina senza mai sollevare la testa, stropicciando solo un po’ i fogli. Corri sulle pagine forse perché il desiderio di sapere è diventato silenzio nel budello della galleria. Non è ancora paura. Sei fatta di creta e invecchiata da giovanissima, a pochi chilometri da Roma, in una serata troppo calda con il tuo vestito che dondola sott’acqua.

 In mano stringi un telefonino, morto come gli altri appesi alle orecchie dei viaggiatori di prima classe.

Lui è fuggito, non credeva più in niente e nessuno, solo il sapore del tuo seno stropicciato dalle carezze, tramato di piccole vene blu. Assaporava il silenzio che lo aiutava a distruggere i tuoi desideri. Poi arriva l’altro silenzio e ti strappa il vestito a respirare la tua pelle, il centro delle labbra.

Adesso leggi le frasi ordinate, pagina su pagina. Io ti osservo. Tu non sei più in missione per amore di chiunque ti sia estraneo.

Questa non è l’agonia di un treno. E’ solo la tua solitudine che ti ha portato per caso di fronte a ogni recluso di questa enorme cella viaggiante. Treno bloccato in galleria ormai da tempo, viziato da una guerra iniziata un mese fa e dentro ognuno di noi, sui binari da ore, in attesa di un grido che ci sfracelli in urli privati senza schianto né impronte digitali.

Le porte dello scompartimento si aprono automaticamente sibilando aria calda su un bambino seduto accanto alla madre: dorme tranquillo con il dito mignolo sollevato.

Parlami ancora del tuo fantastico giocattolo di legno giallo, marionetta amatissima, faccia di orologio, bambola che non segna più le ore. Non hai bisogno delle tue solite merendine ma di stelline di carta colorata soffiate dal vento contro i vetri del nostro interminabile treno. Voglio parlarti e diventare parte di te. Non basta essere soltanto in gabbia.

Il bambino si è svegliato e mangia soddisfatto e tranquillo. Dietro le orecchie, sono certa, la sua pelle odora di pane. Se il treno non riuscirà a muoversi lui fuggirà insieme con Anna, a cercare l’aria oltre la trappola della galleria. Saprà cavarsela grazie alle sue dita grasse e mobili come il geco sul muro.

La sua mente assorta nelle pagine del libro è altrove ma in parte anche qui. E improvvisamente, senza ragione, inizia a leggere Anna Karenina a voce alta, senza nessun pudore. Il primo suono che arriva mie orecchie dopo tanti anni di silenzio. Un canto, prima che il mondo e il treno se ne vadano in guerra. La notte è ormai salita su questo treno. Ora capisco le tue parole e scopro che quello che stai dicendo non viene dal libro avvolto dall’oscurità. Gli occhi non lasciano le pagine, la voce è tranquilla. Sto attenta: sapori, di muffa nella camera d’albergo, isterica vendita di idee per noi che distruggeremo comunque le tue parole inventate su un treno ormai impaurito. Fotografie bianche, monti rovesciati. Legge ancora e il tempo passa: la sua testa immobile gioca a dadi all’inferno. I nostri occhi versano veleno sulla sua fuga di parole. E quel racconto, quella invenzione, è equilibrato, grigio, incolore.

Il nostro ultimo giorno… il suo primo giorno d’amore pagato a respiri. Vorrei rivedere il volto del nostro uomo seduto alla fontana di piazza dei Mirti, di fronte al monumento: un antico cannone arrugginito. Guardare un senza nome vestito di grigio e fracassato dalla vecchiaia precoce. Lasciato solo sulla strada che porta alla Torraccia sulla via Casilina nell’anno in cui i vecchi del quartiere furono portati al mare, gratis. Loro e la loro intimità esposta alla felicità delle onde sulla spiaggia immensa di Ostia. Per imparare a camminare e ridere.

Anna, vorrei sedermi accanto a te. Abbiamo assaggiato insieme il primo cono gelato, crema e nocciola. Ricordo i tuoi calzini bianchi, l’anellino d’argento, sottile serpente con l’occhio rosso di vetro, il nostro piccolo rubino.

Siamo rimaste sole nello scompartimento. La paura della morte ha ormai occupato i capannelli di gente sparsa sulle piattaforme, bisbigli e telefonini sempre più nervosi. I tuoi occhi hanno bisogno di guardarsi intorno per riuscire a vivere ora che la morte è di tutti e continua.

“Come ti chiami?”

Alza la testa e non risponde. Ripeto la domanda. Sopporto di non sparire e i suoi inganni mi lasciano insoddisfatta e allarmata. Vorrei provare con te lo sfrenato rischio di vivere davanti alla finestra nera di un treno bloccato in galleria dalla nostra nascita. Muoversi senza Anna Karenina alle porte di Roma. Muoversi da un attimo all’altro e verso quello che è già stato respirando la vita, e solo quella, come fosse musica nel buio.

Continua su strade vere, non binari. Il treno si muove, solo pochi metri, si ferma con un ultimo strappo.

Arrivano frammenti di notizie. Qualcuno parla preoccupato della moglie, Graziella, che non riesce a mettersi in contatto con lui.

Noi due, con il suo libro in mano, ci abbandoniamo sulla neve. Fantasmi di amanti che non hanno lasciato tracce. Il treno è arroventato, un caldo impossibile. Senza emozione riesco proprio a vederlo, faccia occhi e corpo, per la prima volta e in quelle circostanze. Non mi piace tornare in quel luogo della memoria dove ti ho conosciuto. Sto sul treno con una prostituta dalla mente malata.

Lei ora è in disparte, allargata, dissipata. Non accetta di togliersi la maschera, ma io sono il suo volto. La mia faccia è là.

La tua paura si accende. Incapace come sempre di volere o desiderare qualcosa. Come nostro padre che è andato via portandoti con sé.

Il tuo vestito a fiori, le tue mani sporche d’inchiostro e sudore. Ho sentito il tuo passo e il tuo petto mentre sparivate dalla mia vita, insieme. Da allora siete tutto il mio odio e la mia vita. Non ho più visto i vostri occhi che mi hanno lasciato. Le tue braccia aggrappate al collo di un uomo. Non ho più sfiorato le tue guance con le mie labbra. Ti ho scritto da un albergo di Otranto, le mani avvinte alle spalle di un piacere intenso che ancora continuava, un amante di soli orgasmi, senza parole. Amore aspro, a manciate, come una pioggia su tutto il corpo, il ventre disteso a ventaglio e i suoi occhi pieni di pianto.

Da quel giorno ho smesso di cercarti. Nel cuore il giorno delle tue labbra sporche di cioccolato. E rifiutati l’autorità assoluta di quel veleno, mentre lo baciavo con più dolore e voluttà. Ho dato a quell’odio il nome di una puttana. Anna non voglio perderti e non ce la faccio a guardarti ancora. Abbiamo paura e il treno non si muove. Ti eri tolta di mezzo e forse sarebbe stato meglio per sempre. Vorrei che scomparissi di nuovo senza lasciare tracce. Io vivrò se perdo il tuo amore.

Ti lascio il pensiero dell’estate: fiori gialli e grilli sotto un sole bianco dove non torneremo mai più insieme.

Il treno riparte. Siamo rimaste vicine tre ore. Addio a mia sorella Anna che chiude il libro e mi guarda. Correrò ancora dentro e fuori di te. Fuori dal tunnel noi due andremo ancora avanti.

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1 commento »

  1. L’ho letto due volte senza capirci niente… Un po’ come quando ho letto certi libri di Baricco

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