Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “La forma Chen” di Daniele Cerruti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

                          

Stare nello stato di un pino

Nella posizione di partenza della forma Chen, il praticante poggia il peso su entrambe le gambe, distende la nuca verso l’alto e piega leggermente le ginocchia. È necessario concentrarsi, svuotare la mente, raccogliere l’energia nel Tan-Tien.

Il silenzio sgorga da membra rilassate, eppure agili e pronte al movimento. O almeno così dovrebbe essere, pensa, mentre il corpo rifiuta la levità della pratica e le vaporose fluttuazioni nascondono, nella carne, nervose desolazioni.

La camicetta viola, comprata chissà dove, forse al mercato di Casale, il giorno che si andò, insieme, a trovare la zia Erminia. È ancora lì, nella cesta della biancheria, quando lui la svuota. C’è il profumo di lei, sopra; l’essenza incendia le narici di ricordi aspri e penosi. Per un attimo sembra che tutto non sia stato, che lei sia ancora lì, che la sua voce possa risuonare dalla camera accanto. Sono le sette. Tra poco arriverà Mario con le bozze del primo atto da correggere. Ce ne sarà per tutta la sera.

Il gallo d’oro resta solo.

Il praticante poggia il proprio peso sulla gamba sinistra, la destra alzata a livello del ginocchio. Le braccia sono piegate a livello del gomito e gli avambracci si alzano, tesi, verso l’alto ad angolo retto. Le mani sono aperte e le dita unite l’una all’altra.

Il moto che ne segue è misurato, lento, inesorabile. La gamba destra si distende, leggera; il corpo inizia a ruotare, in un gesto fluido e delicato.

Bisogna ricordarsi il latte, una buona volta. E le presine. Quelle che ci sono, appese ai ganci di plastica incollati alle mattonelle della cucina, sono da buttare: bruciacchiate ai lati e infeltrite, consunte dall’uso. Prenderne di nuove. E poi le solite cose.

Oggi che si mangia? Dà un’occhiata al frigo e annota, con scrupolo.

La spesa, lui, la fa con la lista, si scrive le cose perché, altrimenti, se le dimentica. Perché non vuole comprare delle cose inutili che poi stanno lì a marcire.

Ieri, Mario è stato allegro e lieve, una brezza fresca, la sera, nel deserto. Si è corretto il primo atto e ci si è sorpresi più avanti, nel lavoro, di quanto si fosse pensato. Mario ha parlato un po’ di Perini, del fatto che i traduttori, le copie, gliele inviano in ritardo, e lui non sa gestire, non sa gestire, è inutile.

Hanno riso e bevuto un paio di birre.

Mario non ha chiesto. Voleva sapere come andava, è chiaro. Ma non ha chiesto. È stato discreto, sensibile, cosa rara, al giorno d’oggi.

È andato via verso le due.

Ha lasciato dietro di sé una lattina di birra accartocciata e il rumore di un motorino.

In lontananza.

Giocare con le nuvole

Qui bisogna coordinare mani e piedi. I piedi si spostano lateralmente, seguendo una linea retta. Le mani ruotano davanti al viso. Il passaggio alla forma successiva avviene con calma senza soluzione di continuità. D’altra parte è così in tutto il Tai-Chi. Ma questa forma gli riesce meglio di altre. Eppure, ora, sente attraverso la carne, la tensione dei nervi, la contrattura dei muscoli. Il corpo esegue la forma con sobbalzi impercettibili. È necessario abbandonarsi, accettare lo scorrere del movimento.

Incubi. Di notte ha quasi paura di addormentarsi. L’altra sera, ad esempio, si è svegliato di colpo, ma non ricordava nulla. Spesso, nel sogno, lo coglie la sensazione di cadere nel vuoto, di non avere sostegno. Cadere nel vuoto lo terrorizza, più di ogni altra cosa. Arianna dice di andare da uno psicologo. Che non vuol dire essere matti, si affretta a precisare più a sé stessa che ad altri. Il fatto è che certe cose, ecco, lui non le ha ancore superate. Deve trovare uno che lo ascolti.

Dallo psicologo ci va davvero. È passata una settimana dalle esequie. Parlano molto, lui si sente un po’ meglio.

Di pomeriggio, al lavoro, dopo quasi una settimana.

Secondo gli altri è un buon segno.

Portare la tigre in montagna

Vuol dire ripetere la stessa sequenza quatto volte, in quattro direzioni differenti. La sequenza non è che una successione di parate e respinte che uno apprende all’inizio della pratica. Ripetere gli stessi movimenti, crea una cadenza interna, un ritmo proprio dell’usuale. Ciò che è noto, semplice, costante, risuona nella mancanza.

In redazione sono tutti gentili, compassati. Perfino la Nencini riesce a sembrare quasi umana: Arianna le telefona per dire che non viene, che ha la febbre, e lei si limita a grugnire e a scuotere la testa.

La febbre di Arianna, la Nencini al telefono, le bozze di Mario, Perini che non ci sa fare, è inutile: tuffarsi nel lavoro, dicono quelli che se ne intendono.

Tuffarsi.

Pronuncia la parola a fil di labbra, un’esitazione iniziale, lo spazio di una sillaba, seguito dal doppio fragore labiale di un corpo che si scontra con l’acqua. Poi la carne che s’immerge nel mare e riaffiora, il suono della schiuma che si disperde nell’aria.

Tuffarsi: lanciarsi in uno spazio vuoto, immergersi trattenendo il fiato, riaffiorare.

Forse, un giorno.

Respingere la scimmia

Con i pugni, spostandosi all’indietro, almeno tre volte. Le braccia compiono traiettorie curvilinee, la sincronia con i passi è da migliorare. Lo yin e lo yang nelle gambe: il segreto della stabilità, la radice della forza.

È necessario esercitarsi.

L’idea che tutto sia destinato a finire, a sgretolarsi, all’improvviso lo affascina. La presunzione di eternità si rivela uno smisurato autoinganno. La perdita ed il dolore restano, una lacerazione netta, decisa, insanabile. Il vuoto rimane assordante.

Ma accanto al nulla, emerge, ora, un germe di consapevolezza. Equilibrio: lo yin, il vuoto, e lo yang, il pieno, in rapporto dialettico tra loro.

Per l’autorizzazione ci vorranno sei mesi. Intanto c’è da pagare la tassa al comune. Formalità.

La ditta Capece Marmi, gli ha dato un bollettino da pagare e un foglio dove c’è scritto un preventivo. Un pezzo di carta stropicciato, dei numeri scritti con inchiostro blu, una macchia (unto? Terriccio?) in alto sulla destra.

Una coda alle poste, un bonifico o una strisciata di bancomat; può pagare anche subito, dice, sottotono, una voce gentile. Ma prima di sei mesi…

Fuori l’aria fresca e umida, il silenzio rotto dalle auto che parcheggiano davanti all’ingresso principale, un uomo in tuta blu sporca di terra che chiama a gran voce un collega, due passeri si inseguono in sfrontate evoluzioni in mezzo agli alberi del viale: e poi il chioccare della suola di gomma sulla ghiaia, un suono, aspro, assoluto. Pezzi di anima scricchiolano sotto i suoi passi regolari, pesanti e composti, e, forse per questo, ancor più odiosi al suo sentire.

È venuta a trovarlo la madre di lei. È sfatta, povera donna.

Il viso scavato, vecchio e stanco.

Non ha più nessuno, dice, prima di mettersi a piangere. È un pianto struggente, lento, senza singhiozzi. Un pianto senza rabbia, senza consolazione.

Si cena insieme.

Minestra di ceci, bisogna accontentarsi, dice lui, con un mezzo sorriso, e si pente subito di averlo detto.

Lei chiede come va.

Lui non riesce a risponderle e cambia argomento.

Fingono di parlare di lavoro, della tragedia in tre atti che stanno traducendo, lui e Mario. Lei chiede, fa domande. Non ascolta le risposte, ma tanto è uguale.

Arriva una telefonata. È Perini: “Domani” dice” se ce la fai, dovresti venire un po’ prima, così con Mario andate insieme alla riunione con l’editor”.

“Fai bene” dice la madre di lei, e lo dice da distante. Lui vorrebbe replicare, ma non può.

Andare verso le sette stelle

Il piede sinistro ruota verso l’esterno. Il tallone fa da fulcro alla torsione. Il peso si sposta gradualmente sulla gamba sinistra e quando essa diventa piena (yang) l’altra gamba inizia ad avanzare. Bisogna fare attenzione a non inclinarsi, a mantenere l’equilibrio, l’armonia, avanzando.

Lo spostamento del peso è essenziale. Coordinare il vuoto e il pieno.

Troppo pieno, questo è l’errore di prima.

Ora, il vuoto, ha reclamato il suo spazio.

È necessario esercitarsi, migliorare ancora.

Mentre, nonostante tutto, si avanza.

Lame di luce tagliano con esattezza il buio della camera, creano giochi di chiaroscuro sulle pareti, rimodellano contorni familiari, fino a rivelarne insospettati segreti.

Una mattina come le altre, porta nuova determinazione: il rapporto tra lo scorrere quotidiano degli eventi e la velocità delle sue azioni cambia, i gesti sono precisi, efficaci, i pensieri affilati.

In redazione ci arriva mezz’ora prima, Perini ha sulla scrivania il testo revisionato dell’ultimo atto. Ad Arianna, rientrata, poi, con sofferente foulard al collo che emana odore di crema balsamica, una mano gliela dà lui, ma sì figuriamoci, è tutto a posto. Si tenta la via dell’azione, si riempie il vuoto con il pieno, si liberano energie, con l’inconfessata speranza che tutto ciò sia sufficiente.

La sera, invece, la luce non entra nella sua stanza, le cose riprendono i contorni di sempre, l’euforia è svanita, il pieno si dissolve nel vuoto perché ha rifiutato di riconoscere, in esso, la sua essenza.

Non rimane che un disperato ritorno al nulla.

Perini è contento. “Bene” dice “avete fatto un buon lavoro”.

Con l’editor tutto a posto. Ci vorrà tempo per le correzioni e le modifiche, ma lui e Mario, il loro l’hanno fatto. Una buona traduzione, un buon adattamento.

Un buon lavoro. C’è da esserne contenti.

Perini dice che lo trova in forma straordinaria, gli raccomanda di tener duro. Il peggio è passato. Il tempo, si sa, è sempre un buon alleato in certe cose.

Lo psicologo dice che non riesce ad accettare. Che è difficile, c’è bisogno di tempo per elaborare. Una ragionevole dose di tempo che rimuova tutto, che cancelli tutto, in modo delicato, senza strappi, senza traumi.

Che cancelli tutto, una volta e per sempre.

Al parco con Mario e Arianna, all’una; per pranzo, si portano dietro tramezzini al tonno e un paio di birre. Siedono su una panchina sotto un salice. C’è il sole e fa caldo.

Un paio di anziani passeggiano senza meta, s’incontrano, si abbracciano, si raccontano. Due bambini in bicicletta si sfidano, una mamma accorre con aria torva. Sulla panchina di fronte alla loro, c’è un uomo solo, il busto proteso in avanti, le mani si incrociano sotto il mento. Ogni tanto stacca la mano destra e dà un’occhiata all’orologio sul polso.

Quel posto gli fa venire in mente un deserto, di quei deserti assolati e aridi che si vedono in vecchi film di cassetta: niente dune di sabbia, niente paesaggi da cartolina o scenari esotici. Un deserto discreto, essenziale: terriccio reso duro e secco dal sole e dal vento, spazi aperti in cieli senza nuvole. Ma qua e là arbusti resilienti al clima, impronte di animali notturni, pozze d’acqua che evaporano in fretta. Un deserto vivo, a modo suo.

I due vecchi si sono seduti l’uno accanto all’altro: il più anziano fra i due, ha gli occhi lucidi.

Il bambino con la biciletta azzurra ha vinto, ma non era regolare; l’altro, quello con la mamma-sergente, non alza gli occhi da terra, mentre lei lo sgrida. L’uomo con l’orologio si è alzato e cammina incontro ad una donna trafelata e in ritardo.

Ogni deserto, in fondo, vive a modo suo.

Chiusura apparente

Si distribuisce il peso fra le gambe, la mano sinistra passa sotto il gomito destro e risale lungo l’esterno del braccio.

Il pugno destro si apre.

Il braccio si abbassa fino ad incrociarsi con il sinistro davanti al petto.

Ci si prepara al finale.

Un rubinetto che gocciola, il suono delle campane, un cane che abbaia, il rumore di tacchi sulle scale, una voce di uomo che sbraita qualcosa, colpi attraverso il muro, il ronzio del frigorifero.

Il silenzio, a poco a poco, si riempie di suoni, rumori a volte privi di significante, sussistenti in sé stessi, mere parvenze sonore, onde che si propagano e si disperdono nell’infinito. Ma esistono, lo spazio di un attimo, e rivendicano in esso l’eterno.

Tutto alla fine riprende la forma originaria con un gesto lieve, discreto.

Senza scosse, senza illusioni di oblio: lo squarcio nero e possente si allarga ancora al centro della tela rossa.

Solo il peso si sposta leggermente in avanti, senza inclinarsi, e questo spostamento è principio e misura del movimento.

Chiusura e ritorno al punto di partenza

Le mani avanzano, divergono l’una dall’altra, secondo la distanza dalle spalle. Le braccia sono stese in avanti, rilassate, le palme delle mani rivolte verso il basso.

Poi, le mani, iniziano a scendere verso il bacino.

Le ginocchia si piegano appena. La schiena è dritta, il ventre leggermente ritratto.

Le mani giungono al termine del loro viaggio e si distendono anch’esse.

Si ritorna alla posizione di partenza.

Lo sguardo è fisso e dritto davanti a sé.

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