Premio Racconti nella Rete 2012 “L’oracolo” di Sara Catacci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Spesso utilizziamo il termine “probabilità” riferendoci a situazioni incerte, eventi aleatori, intendendo distinguere gli eventi certi, da tutti quegli altri il cui verificarsi dipende esclusivamente dal caso. Il caso mi è apparso di frequente come un delirio caotico di percentuali, e ancora più spesso come una bilancia i cui piatti sono tenuti esattamente nella stessa altezza, in attesa di un segno.
Cinquanta e cinquanta.
Fu decisamente un evento aleatorio, quello di conoscerti, pressappoco quindici anni fa. Eri uno dei tanti corpi adolescenziali incastrati all’interno dell’informe massa studentesca dell’Istituto Tecnico Commerciale di via Tecla. Eri alquanto grasso, lo ammetteresti se potessimo ancora parlare, io dalla mia avevo un’accozzaglia di vestiario di dubbio gusto. Facevi battute cretine, ma divertenti, volevi fare l’attore e io ti prendevo in giro un po’ crudele, mortificando le tue velleità artistiche. Ero invidiosa dei sogni altrui già allora e il tuo appariva così ben organizzato da risultarmi insopportabile. A volte, raramente, nella mia testa vuota si sente l’eco dei tuoi discorsi assai profondi, ma poco chiari e stagnanti, come il laghetto vicino casa nostra. Almeno lì ci buttavano le trote di lago, ingrassate disgustosamente da ogni genere di rifiuto. Noi pure ingrassavamo (tu decisamente di più), rimpinzandoci di schifezze chimiche che mi offrivi puntualmente, sentendoti tronfio per un’opulenza superiore alla mia, di ben cinquemila lire alla settimana. Io godevo delle tue attenzioni, senza provare alcun bisogno di reciprocità, alimentando quella schiera di azioni, ancora innocenti, ma proporzionalmente deprecabili, zampillate spontaneamente da una perdita oscura, in qualche zona marcia dentro di me.
Che ci fosse del marcio me lo confermò di lì a poco anche Jolanda, la cartomante del paese, la mattina in cui ci avviammo verso i palazzoni grigi di S. Giacomo, praticamente quasi costretti da Clara. Era finita da poco la scuola, rischiavamo tutti e tre di non passare l’anno, io e te per le troppe assenze, Clara per le troppe lacune celebrali, e terrorizzata dall’eventualità di un primo fallimento che già intuiva avrebbe potuto spalancare la strada ad altri più violenti, voleva essere rassicurata dall’infallibilità di un destino già prestabilito e facilmente scrutabile.
Jolanda ci accolse solennemente in un soggiorno minuscolo impregnato di incenso al gusto di cannella, quasi totalmente buio e sottilmente inquietante. Al centro della stanza, per quel che si poteva vedere, era piantato un tavolino di compensato ricoperto da una tovaglia orrenda color cachi, costellata di macchie di cera rappresa che mi facevano pensare a un racconto osceno letto settimane prima e di cui ti parlai esaltata per giorni. La fattucchiera non si preoccupò neanche di offrirci un bicchiere d’acqua e fece cenno a Clara con fare sgarbato di sedersi, tradendo una certa fretta di chi ha cose molto più interessanti da fare. Clara si accomodò con un tonfo carico d’ansia sul pouf mentre Jolanda già afferrava il mucchietto di carte consunte maneggiandolo con una destrezza ipnotica. Io ero in preda ad una sonnolenza innaturale che la calura e la puzza di cannella contribuivano ad accentuare. Tu invece sedevi tranquillo, stranamente a tuo agio.
La cartomante fece le sue previsioni con una voce cantilenante e Clara fu rassicurata circa la sua imminente promozione. Fui contenta per lei e soprattutto per me stessa, quel buco di casa mi metteva profondamente a disagio e ancora di più Jolanda, la quale di tanto in tanto mi lanciava occhiate enigmatiche e non del tutto benevole. Clara sborsò con allegria le sue ventimila lire guadagnate da qualcun altro, e ci avviammo finalmente all’uscita. Rimasta indietro nel corridoio, mi sentii afferrare con forza il braccio nella penombra, ma rimasi volutamente tranquilla. Jolanda si avvicinò alla mia faccia, aveva un’espressione calma e quasi cordiale, nonostante la morsa della mano caldissima sul mio braccio, e mi sussurrò una cosa nell’ orecchio, anzi due.
Di ritorno a casa, camminavamo in fila indiana, tu per primo leggermente sbieco, io al centro, in preda all’affanno da pressione arteriosa ai minimi termini, e Clara per ultima, sonnolenta e incurante dell’universo circostante, come sempre. Stagliati in quel sole impietoso, avevamo semplicemente quattordici anni, ed eravamo incredibilmente brutti, martoriati da una tediosa adolescenza provinciale.
Faticavo per starti dietro, la luce della tarda mattinata era abbacinante e mi rassegnai allo svenimento senza mezzi termini sull’asfalto liquido. Alzai la testa per informarti del mio collasso prossimo e fu in quel momento che ti vidi per la prima volta. La luce ti sbatteva violentemente in faccia, tanto che io alle tue spalle potevo vedere i contorni della tua nuca tonda sfocati, dai riflessi rossastri, le spalle larghissime, dritte, le scapole espanse ai due lati del collo, mentre il busto scendeva con dolcezza ad accompagnare il movimento incessante di passi distesi, prima uno poi l’altro, protesi verso un orizzonte a me precluso alla vista, al pensiero stesso. Mi sembravi lontanissimo, nonostante ci separassero poco più di sei sette metri e l’epifania che sopraggiunse distrusse qualcosa per sempre. La mediocrità, lo standard quotidiano nel quale mi sentivo imprigionata apparteneva a me come io appartenevo ad esso, tu, però, eri decisamente un’altra cosa. Ti avevo imposto la frustrazione della consapevolezza di una selezione naturale che non mi avrebbe risparmiata. Sarei rimasta indietro, come tutti, come Clara. Ti vidi sfacciatamente pieno di potenzialità inespresse, in attesa di detonare tutte insieme, cariche esplosive che mi avrebbero impietosamente fatta a pezzi.
Ci salutammo per l’ora di pranzo e tornai a casa con una vaga sensazione di lutto, di disagio colpevole e mal nascosto, di inferiorità. Anni dopo fui in grado di dare un nome a quella sensazione, prendendo in prestito una facile psicologia elaborata da altri. Ma in quel momento era solo la mia testa che pulsava ad un ritmo sordo, luce e buio intermittente e Jolanda che faceva capolino nella luce, Jolanda che mi guarda, Jolanda che mi afferra il braccio, Jolanda che mi sussurra una cosa all’orecchio. Anzi due.
Io e te passammo l’anno e Clara fu bocciata. Nel suo pianto a cascata notai una disperazione più profonda che poco aveva a che vedere con il risultato scolastico. L’oracolo l’aveva tradita, aveva ingannato la sua fiducia forse stupida, ma incondizionata. Per lei fu il primo grande passo verso la menzogna dell’età adulta. Credo non si sia mai ripresa da quel primo colpo di realtà, troppo fragile, povera Clara, avresti dovuto vederla, quindici anni dopo, dietro il bancone del bar di sua madre, mi salutò appena e nei suoi occhi c’era come un rimprovero decennale, un ottuso senso di ingiustizia e poco più su già tanti, troppi capelli grigi.Eppure quel giorno, mentre mi impegnavo a consolarla, stetti bene attenta a non guardarla negli occhi, a nascondere dietro le ciglia truccate una sottile poltiglia grigia fatta di sollievo e soddisfazione. Jolanda aveva sbagliato la sua previsione.
Passai il resto dell’estate in preda ad un’euforia malata. Mi distaccai a poco a poco da te, persa nell’incauta marcia verso una piena adolescenza fatta di pochi sogni, ordinari e facilmente raggiungibili, non potendo essere al passo con i tuoi.Il settembre successivo ti iscrivesti finalmente al corso di teatro dell’Università Civica, noi ormai non ci parlavamo quasi più. Nel tempo, rimasero solo due anni di amicizia corsi via come un viaggio in treno di due ore, di fronte ad un altro passeggero.
La mia vita, intanto, scorreva negli anni come il paesaggio dai finestrini, catapultata nella grande città, defluiva veloce, incollandosi su sfondi di cartapesta di una scenografia urbana male assemblata. Non ti pensai mai di proposito, e quando riuscivi, di tanto in tanto, ad intrufolarti nella mia attività onirica, lo facevi senza particolari drammi.
Seppi da altri della brillante promessa teatrale che stavi diventando, mentre io sgobbavo con scarso successo all’università. Quelle poche informazioni sulla tua vita, mi arrivarono sempre da altri, e sempre in netto ritardo.
Non fece eccezione la notizia della tua morte, a funerali già avvenuti da giorni. Una telefonata di Clara e poche parole impastate: morto, uscita del teatro, centoventi chilometri orari, strisce pedonali, fiori, sangue, sorrideva disteso sull’asfalto, polizia, autista sotto shock, morto, madre padre fratello, grida in lontananza, morto.
Ho posato il bicchiere sul tavolo pieno di briciole, ho riattaccato. Non ho pensato a niente per un quarto d’ora. Un quarto d’ora di nulla assoluto, e poi, incredibilmente, Jolanda. Il suo fiato tiepido e vecchio di quindici anni prima sul padiglione auricolare,
Ascolta, Tu sei cattiva, ma non preoccuparti Lui non se ne accorgerà, perché presto se ne andrà lontano.
Clara era stata bocciata, e tu te ne eri andato lontano, scagliato infiniti metri più in là dalla forza dell’impatto.
L’oracolo, nelle sue infinite e fittizie probabilità di successo e fallimento, aveva sputato il suo responso. Aveva fallito una volta e vinto nell’altra, ponendosi esattamente a metà, tra i due piatti della bilancia.
E io allora, sarei cattiva? Come distinguere tutti quegli eventi certi, da tutti quegli altri il cui verificarsi dipende esclusivamente dal caso? Sono stata meschina, ipocrita, fallimentare, come lo è la maggior parte di noi se solo abbiamo la possibilità di esistere abbastanza a lungo.
Mi sono alzata e mi sono sporta dalla finestra senza balcone. Ho respirato l’aria sporca della città e ho guardato le antenne piantate sui tetti, sembravano tante giunchiglie sgraziate. Più in basso altre finestre senza balcone, dirimpetto alla mia angoscia.
Non c’erano risposte evidenti a quell’ultima domanda, nessun oracolo a distinguere un evento aleatorio, da un evento certo.
Cinquanta e cinquanta.
Bellissimo racconto ricco di espressioni linguistiche molto efficaci e coinvolgenti. Il ritmo incalzante della narrazione trascina il lettore verso un finale tragico che invita a profonde riflessioni.Complimenti Sara!
Se vuoi puoi leggere il mio racconto ”Tuo padre” e lasciarmi il tuo commento: ci terrei molto!
Acci, Sara,
che bello!…
Come giustamente sostiene Franca, un racconto infarcito di espressioni efficaci, alcune delle quali trovo estremamente moderne e realistiche.
Uno scorcio di vissuto narrato con partecipazione e perizia tecnica, ottimo esempio di come analessi e prolessi possano coesistere felicemente, nel medesimo ambito.
Gustosissimi i passaggi arditi ma ottimamente bilanciati da macrosequenze a microsequenze narrative che conducono il lettore per mano al finale tronco, più che narrativo.
Mi piace davvero. Bello, Sara.
Per stile, partecipazione e tecnica.
Ti auguro una gran fortuna.
A presto, Nikki
Bello, decisamente bello. Scritto bene, con parole e immagini efficaci. Complimenti!
A mio giudizio questo è uno dei racconti più belli letti finora, in un italiano elegante e con uno stile pulito. Il genere di scrittura che prediligo. Auguri anche se non credo tu ne abbia bisogno. Ti rileggerò volentieri. Donatella
Concordo anch’io, uno dei racconti più belli. Interessante il disagio psicologico della protagonista che si valuta marcia e cattiva. Fa tenerezza e intristisce allo stesso tempo perchè si rivela fragile e inadeguata attribuendosi, forse ingiustamente, aggettivi negativi: meschina, ipocrita, fallimentare. Molto azzeccato l’espediente dell’oracolo e molto efficace la chiusura.