Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Metafisica della carne” di Veronica Lanconelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

E’ lo specchio il mezzo attraverso cui capiamo a quale oggetto, nel mondo, corrisponda il primo pronome. La superficie riflette l’immagine ribaltata di ciò che gli altri vedono di noi: permette la conoscenza superficiale di sé attraverso una percezione, se non sbagliata, ingannevole.

F. aveva capito per la prima volta di avere un corpo un martedì sera, mentre stava mettendo in ordine le confezioni di cosce di pollo da sei al reparto macelleria.

Occupava le sue braccia, gambe, testa e intestini vari da circa trentanove anni e ogni mattina gli capitava di incrociare il suo sguardo guercio da sopra il lavandino, ma era una di quelle persone alle quali le cose semplicemente capitano, e non ci pensano, e realizzano solo dopo che sono successe proprio a loro.

Potremmo vagamente definire F. come un uomo sensibile, caratteristica che forse non era innata ma dovuta, così almeno aveva sempre sostenuto la madre, alle sue letture (aveva letto tutti i classici), che da promettente e vivace rampollo qual’era glielo avevano guastato (e su questa parola la vecchia ogni volta arricciava le labbra in segno di profondo disgusto). Non lo avrebbe confessato facilmente, ma in cuor suo F. desiderava più di ogni altra cosa diventare un grande scrittore, un classico. Ambizione pretenziosa e quasi comica, per uno che non aveva mai scritto di suo pugno una sola riga leggibile.

Non aveva che una vaga conoscenza di sé e del mondo, come se dell’uno e dell’altro avesse consultato solo l’indice, e forse proprio grazie a questa sua ignoranza era riuscito a preservarsi dalla depressione che comunemente colpisce gli esseri dotati di un’indole simile alla sua. Gli mancava una naturale propensione alla speculazione quasi quanto all’azione. E se vi sembra che si sia troppo crudeli già dall’inizio nei suoi confronti, considerate che l’intelligenza, in tutte le sue forme, non è mica un merito, è un privilegio.

La sua non era una presa di posizione politica né, potremmo dire, una forma di avveduto cinismo esistenziale: non gli capitava di interessarsi fino in fondo a nulla, ecco tutto.

Quella sera, con le braccia allungate sopra il banco frigo, F. stava sistemando l’ultima fila di confezioni in fondo quando improvvisamente notò la perfetta coincidenza del suo ossuto avambraccio con quei piccoli arti mozzati e perfettamente allineati all’interno della confezione. L’epidermide giallastra, spessa e vagamente grassa, le sporgenze delle ossa del gomito, porosità diffusa.

Non aveva mai pensato di poter essere brutto. Prima che avesse formulato la domanda, ecco che gli si era presentata la risposta (e come questo sia possibile, francamente non lo so).

La confezione di cosce gli aveva dato la scomoda certezza di possedere un corpo, al di là dei pruriti, degli starnuti e delle funzioni intestinali, di più, gli aveva in qualche modo suggerito che lo era, solo un corpo. La sua più intima essenza e il suo destino servite su un dozzinale vassoio di polistirolo. Ecco cos’era: un animale di piccola taglia, di poco valore, di scarsa sostanza, un bipede d’allevamento, una povera bestia da batteria cresciuta per essere sfruttata e immolata a qualche predatore un gradino più in alto nella scala alimentare, e ora lo sapeva.

Il momento di più terribile sofferenza dei suoi trentanove anni coincise, come spesso pare che accada, con quello di maggiore lucidità.

All’immediato gelido orrore (di sé, per sé, da sé) seguì in lui un altrettanto violento senso di orgoglio, perché per la prima volta aveva formulato un pensiero autenticamente suo, un pensiero di quelli come ci sono solo nei libri grandi e immortali, un pensiero profondo. Questa bruciante soddisfazione fu però rapidamente sostituita da un nuovo orrore: F. aveva capito qual’era la causa remota delle preziose massime e intuizioni che snocciolavano pensatori e poeti, e cioè la necessità di gratificare il proprio io ferito, la propria vita misera, la necessità di affermarsi, di farsi guardare e apprezzare. I pensieri cosiddetti profondi e tutta la letteratura altro non erano che uno bieco metodo di compensazione. Questa riflessione lo gettò nello sconforto più inconsolabile, dal quale tuttavia riemerse concludendo che lui, avendo smascherato la finzione, avrebbe potuto invece dire chiaramente come le cose stavano. Ma le cose stavano per lui in modo molto deprimente, lo aveva appena scoperto, e questa considerazione lo rigettò nella più buia disperazione. A farla breve, aveva paura.

E’ acquisito che una grande insoddisfazione non fa le persone più sagge o più buone, semmai più cieche ed egocentriche e così F., che aveva raggiunto una cristallina coscienza di sé in un sol colpo, non pensò a quanti, come lui, si dovevano trovare in quei panni, o in che modo riscattarsi da tale condizione. Forse per via della sua abitudine a sistemar cose sugli scaffali, il suo primo pensiero andò alla classificazione.

Il manzo, con le sue carni rosso intenso che aderivano perfettamente alla pellicola, dava l’idea della  forza, di antiche qualità virili: il manzo è la carne più magra e sostanziosa, con il manzo si preparano piatti semplici e nutrienti. Prese in mano una confezione di fiorentina di quelle lì a fianco e non poté fare a meno di vederci la poderosa schiena del suo vicino di casa. Pensò al signor D. senza maglietta che tagliava la legna nelle giornate primaverili (e non giudichiamolo se questa immagine suscitava in lui un pruriginoso inconfessabile piacere), che coltivava il suo orto sotto il sole di mezzogiorno d’agosto, che rideva profondamente, come un vero uomo dovrebbe, che diceva e pensava poche idee semplici, e sempre giuste, oneste e buone. Non che il signor D. avesse mai fatto realmente una sola di queste cose, ma l’importante era che avrebbe potuto farle, o meglio, per seguire il ragionamento del nostro, era fatto per essere così. Pensò a come la cucinava sua mamma, la fiorentina: alla brace, una scottata di qua e una di là, come due schiaffi, in maniera veloce, rude. Sempre troppo cruda per i suoi gusti. Un rivolo d’olio o un po’ di burro diaccio, come suggerisce l’Artusi, e nient’altro, che il sapore al piatto glielo dà tutto la carne.

Una goccia di sangue scivolò nell’angolo in basso della confezione. In alcuni esseri sembra che la vita si sprigioni da ogni fibra, ad altri resta attaccata come per diplomazia o per dispetto, sentenziò.

Lo scompartimento della carne equina, che si trovava lì a lato, era molto più ridotto di dimensioni, e già questo suggeriva a F. l’idea dell’eleganza, qualità che, aveva appena concluso, doveva essere rara. E mentre fissava due bistecche sottili intravide le sagome dei coniugi B., vecchi amici di famiglia. La loro impeccabile logica anglosassone (la logica per F. era caratteristica esclusiva del popolo inglese, e i coniugi B., anche se inglesi non lo erano, ne avevano tutto l’aspetto), il loro senso cinico e umoristico dell’esistenza, la loro sobria ricercatezza borghese erano perfettamente espressi dai loro corpi lunghi e asciutti e dai loro secchi nasi. F. intuiva che ci dovesse essere una stretta connessione tra razionalità e bellezza, ma intuiva allo stesso tempo che solo persone come i coniugi B. avrebbero potuto spiegarlo, questo nesso, o pensarlo davvero senza provare una certa sensazione di vertigine, come invece capitava a lui.

Una volta gli era stato servito un raffinato piatto di straccetti di cavallo, ricordava, del quale non era rimasto particolarmente soddisfatto. Il cavallo, salmodiava sua mamma, lo si deve cuocere con attenzione rigorosa e servire preferibilmente con qualche ragionato abbinamento di sapori.

Il gusto vagamente dolciastro e speziato era troppo particolare per il suo palato, e la carne così sottile non lo aveva affatto sfamato. L’autentica bellezza era qualcosa cui non avrebbe mai avuto accesso.

Infine passò al maiale. La carne più gustosa, la più varia, la più grassa, la più economica. Con il maiale si preparano tutti i popolari piatti contadini, e a F. ricordava l’osteria, la domenica e la convivialità. Ma soprattutto gli ricordava la signorina V., la piadinara. La signorina era talmente formosa che veniva spontaneo immaginare che fosse stata modellata con un impasto doppio (e F. lo immaginava spesso, quando la intravedeva lavorare nel suo baracchino, e pensava a quanto doveva essere morbido sdraiarcisi sopra). Portava sempre scollature profondissime e aveva un soprannome, “la Corriera”, che riassumeva le opinioni dei compaesani sui suoi costumi disinibiti. Non che fosse una del mestiere, solo non aveva alcun tipo di vincolo morale, religioso o sociale che la tratteneva dallo spassarsela ora con questo, ora con quello, o, perché no? con tutti quanti assieme, se le andava così. F. provava una certa attrazione, più che per la signorina (che ad esser sinceri non era certo una bellezza), per la sua capacità di non avere vergogna dei suoi  bassi e sinceri istinti. F. si sentiva come guasto, al  confronto, come grigio, come se si fosse verificato in lui uno strappo che gli impediva di provare piacere per le cose più elementari. Tutto quel grasso delle salsicce che stava fissando, una volta abbrustolite si sarebbe sciolto a formare un sughetto che lui avrebbe accuratamente evitato insieme ai lardelli rimasti, che lo ripugnavano, anche se sapeva che erano la parte più gustosa.

Ma il pollo… Cosa ci si può mai tirar fuori? Un petto in padella può andare per i malati o per gli anziani che devono rimanere leggeri, e un lesso scondito è passabile, sì, ma solo se sei a dieta.

Quella somiglianza, per F. tanto gravida di significati, si fece ancor più terribile nelle sue implicazioni quando si ricordò del prelibato brodo di cappone. Il cappone: per la prima volta (non era precoce proprio in nulla) F. sperimentò il ben noto timore dell’evirazione. Solo rendendosi totalmente impotente sarebbe diventato qualcosa di buono.

A questo punto, come si usa, alzò gli occhi al cielo (cioè ai neon bluastri sopra la sua testa) e formulò l’eterna domanda:  «perché?». Neppure lui sapeva di preciso quale fosse l’oggetto del suo chiedere. Potremmo ipotizzare che quel «perché» fosse riferito in primo luogo al suo sfortunato (si trattava di sfortuna, non di responsabilità: lui non aveva mai scelto nulla) essere parte della categoria più disgraziata di esseri, oppure all’ingrato destino comune, al suo stesso chiedere o al perché si fosse istintivamente rivolto a una sorda e muta fonte luminosa.

Qualche metro più avanti, al reparto gastronomia, i polli erano ancora infilati uno dietro all’altro nei grandi spiedi ad arrostire.

F. sapeva che, letterariamente parlando, la sensazione giusta da provare a quella vista sarebbe stata la nausea.

E invece lui aveva un mal di testa terribile, come un crampo.

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4 commenti »

  1. Divertente questa associazione tipo di carne/tipo di umano e assolutamente azzeccata!!!! mi è piaciuto molto questo racconto. E’ scritto molto bene. Complimenti!

  2. Geniale. Mi sono iscritto al sito solo per commentare questo racconto. E’ scritto davvero bene, e un po’ di cinismo autentico non fa mai male. Merita assolutamente di essere selezionato.In bocca al lupo!

  3. Grazie, troppo gentili.
    Comunque sono ben accette anche le critiche. E le stroncature, preferibilmente motivate.
    Forse sono la cosa più utile.

  4. Ah. per quanto riguarda l’aspetto del testo la critica me la faccio da sola.
    Non so come mai sia venuto fuori così orribilmente a patchwork.
    La tecnologia a volte mi è avversa.

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