Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “La Spagnola” di Rossana Giorgi Consorti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012
L’aveva detto tante volte. L’aveva ripetuto, ostinata, che non ci voleva più tornare. Eppure era lì su quella stessa strada che aveva percorso per anni, finchè i figli erano stati piccoli e la casa di Pieve Fosciana aveva fatto comodo, in estate, per far cambiare aria alle creature, consumate da troppo mare, come diceva la zia Elvira.

“Passa dal lato sinistro del fiume” le aveva suggerito suo marito Piero “la carreggiata è più larga”.

Come se non lo sapesse o non se lo ricordasse più. E invece a Calavorno la strada brillava di ghiaccio, insidioso. Un’ occhiata al cielo, nero di nuvole dense e fumoso di torbati bassi, la fece rabbrividire come al solito.

Svoltò a destra e imboccò il ponte; poi a sinistra. Di là la strada era tutta una curva e centro abitato. In alcuni punti il monte a ridosso era ingabbiato da reti di metallo.

Quando arrivò a Castelnuovo, il sole era largo e le vette innevate tagliavano geometricamente il cielo. Magda si fermò ad un bar, nella piazza, per fare colazione. Sebbene fosse gennaio, l’aria era calda e profumava di neve. S’incamminò verso la Rocca e proseguì per il centro. I negozi, se lo ricordava, esponevano prodotti di qualità. Qualche passante la guardava, incerto se accennare ad un saluto. Qualcuno forse si ricordava di lei, l’aveva riconosciuta dopo così tanto tempo, quando dalla Pieve scendeva a Castelnuovo con la zia per fare compere o per portare i figli al cinema. Visitavano la Rocca ariostesca o compravano al mercato i prodotti tipici della garfagnana: il miele e il formaggio, la farina di castagne.

Non volle lasciarsi prendere dai ricordi e salì in macchina, continuando per la sua strada. Proprio ora doveva morire la zia Elvira, si disse. E proprio a loro doveva lasciare la casa della Pieve in eredità, pensò contrariata. Era tanto devota alla Chiesa, avrebbe potuto lasciarla al prete.

Corrado, il macellaio del paese, le fece un cenno di saluto, come la vide passare. Un largo sorriso gli illuminò il volto.

“Ben tornata!” Le disse “Qual buon vento, dopo tanti anni?”

Di fronte a tale cortesia, Magda non riuscì che a balbettare qualche parola.

“La casa dell’Elvira? Non mi dica che l’ha lasciata a voi!”

“Che sia un dispetto?” Magda sentì che poteva aprirsi con lui.

“Potrebbe essere. Visto il tipo, potrebbe proprio averlo fatto per dispetto. Suo marito che dice? L’Elvira era sua zia”.

“Mio marito non dice niente e non ha mai creduto a quella storia. I fantasmi sono come gli ufo, sostiene lui: tutti ne parlano, tutti credono di averli visti, ma in realtà nessuno gli ha mai stretto la mano”.

Corrado rise, reggendosi la pancia sotto il grembiule sporco di sangue.

“Eppure…” azzardò.

“Lui dice che io me ne andai quella famosa estate perché ero gelosa della Spagnola…sì, insomma, quella ragazza mora con i pendenti, che tutti chiamavano la Spagnola”.

“La Rebecca?! Bella donna, un purosangue” esclamò il macellaio, come se stesse valutando, pezzo per pezzo, le carni migliori della bestia da macello.

“Che fine ha fatto?” Chiese Magda.

“Si è sposata con uno di Cutigliano ma vive da queste parti, facendo ingelosire ancora tutte le donne del vicinato, a quanto ne so” rispose vago.

“Piero aveva ragione: io ne ero gelosissima” confessò Magda “ma ho sempre avuto fiducia in mio marito. Non credo, no, non credo davvero…”

Corrado si battè le mani sulla pancia.

“Ho un cliente” disse e rientrò in bottega.

Magda salì in macchina. Aveva ancora tre chilometri di strada sterrata e poi, eccola lì la dimora infestata dai fantasmi, sbuffò.

Osservandola, a tanti anni di distanza, le sembrò deliziosa: la scala in pietra, addossata al muro e il piccolo porticato, adorno di gerani rossi. Chi li manteneva, se la zia Elvira aveva abitato a Lucca con loro negli ultimi due anni prima di morire?

Girò la chiave nella toppa, trattenendo il respiro. Il salottino era come l’aveva visto l’ultima volta: ordinato, con i centrini ricamati sui mobili, i vecchi lumi in ferro battuto e i divani foderati di gobelin. La cucina con il fuoco alto e la grande cappa in muratura, davanti alla quale, in inverno, per la festa della Befana, i suoi figli aspettavano caramelle e cioccolatini che magicamente scendevano giù, calati dall’Elvira. Le camere profumavano di lavanda, posta anche sui davanzali di pietra delle finestre, per tenere lontani gli scorpioni. Si ricordò di quando Matteo, il primogenito, gongolando gliene aveva portato uno, tenendolo per la coda. Naturalmente era stato punto e il dito indice si era gonfiato come una salsiccia.

La zia Elvira, per tutta consolazione, gli aveva dato uno scappellotto.

“Così impari a disturbarli” aveva brontolato.

Non valsero le proteste di Matteo che spiegava come quello scorpione fosse stato sul suo letto, nascosto tra le pieghe della coperta che lui e la Spagnola, cameriera a ore dell’Elvira in estate, stavano sistemando. Da quel giorno, però, la lavanda sui davanzali, sul pavimento e sotto i quadri, annodata ai chiodi, abbondava.

La zia Elvira aveva fatto di tutto perché nel mese di settembre la famiglia del nipote andasse a Pieve Fosciana e risiedesse nella sua casa, a tenerle compagnia.

Ma poi c’era stata quella faccenda dei fantasmi e allora…anche se il termine fantasma forse non era appropriato. Era un dato di fatto, però, che quando lei incontrava certe persone accadevano sempre delle circostanze spiacevoli o delle disgrazie.

“Sei una gran superstiziosa” le aveva detto un giorno la zia di suo marito. Era stizzita, si capiva e sdegnata anche.

“Ma quell’uomo accovacciato sotto la finestra della mia camera da letto, io l’ho visto con questi occhi” aveva obiettato Magda.

L’Elvira aveva alzato le spalle.

“Era un cencio volato da qualche stenditoio. Non ti è mai capitato a Lucca?”

“Sì, certo” era stato quasi un sussurro quello di Magda.

Però il giorno successivo Marco, il secondogenito, era scivolato, rompendosi una gamba.

La zia l’aveva guardata con le mani sui fianchi, spazientita.

In effetti si erano recati al Lagosanto. La Spagnola li aveva accompagnati con le vivande.  Marco, scalzo, aveva cominciato a saltare nell’acqua da un sasso all’altro. Che sono vischiosi i sassi d’acqua dolce, si sa, ma rompersi una gamba, le era sembrato troppo.

Come troppo le era sembrato che per tre giorni consecutivi un cencio nero volasse sotto la sua finestra in serate prive di vento, neanche un alito.

“Da dove è volato questa volta, dall’inferno?” Scappò detto a Magda, incerta se ridere o piangere. Oltretutto quel cencio continuava a sembrare sempre di più un uomo, un vecchio arrotolato su se stesso. Appariva dal niente all’imbrunire e al mattino era scomparso.

“Sembra un gobbo” continuò perplessa.

“E allora porta fortuna” aveva riso Elvira “tu non sei proprio adatta a vivere da queste parti, vedi diavoli ovunque. Qui, in paese, siamo tutti una grande famiglia e non ci preoccupiamo di niente, perché di niente dobbiamo avere paura. Ma se le paure sono nella mente…be’ allora di quelle c’è di che spaventarsi e quelle bisogna togliere di mezzo” c’era del sarcasmo in quel discorso che  la offese.

Dopo quei tre giorni però era morto un parente di Magda. Un parente alla lontana, sì, ma sempre parente.

Quando Clara cadde nel pruneto, dopo aver incrociato sulla stessa strada la Spagnola, Elvira cominciò a nutrire qualche perplessità, forse perché la terzogenita era la sua preferita. Ma non lo dette a vedere, anzi.

“Se vai per poggi con le scarpe di cuoio, per forza!” Esclamò, negando l’evidenza, dato che Clara calzava scarponcelli di gomma sopra calzettoni di lana.

Da quel giorno Magda aveva notato che la zia si recava in chiesa più spesso e un pomeriggio aveva invitato il prete a casa sua per un tè. Se l’aveva fatto per allontanare dalla dimora e dalla famiglia diavoli veri o presunti, travestiti da fantasmi veri o mentali, beh, l’Elvira non ebbe i risultati che si aspettava: Piero ritornò quella sera con un taglio profondo ad una mano e gli dovettero dare dei punti. Era stato a comprare la carne da Corrado, spiegò, ultimo cliente dopo la Spagnola.

“Ma guarda!” Era esplosa Magda.

Il marito non era in grado di spiegare come fosse successo.

“Giocavi con i coltelli?” Sibilò ancora la moglie.

Fu quando aveva incrociato lo sguardo della zia che si sentì improvvisamente vinta, avvilita, annientata. Diceva che era una –cretina- quello sguardo. Lei, Magda, una vera cretina. E fu quello sguardo a farle fare le valigie e a tornarsene a Lucca.

“Elvira è sola. Elvira è rimasta vedova presto. Elvira non ha avuto figli. A volte è un po’ nervosa ma in lei non c’è cattiveria. Un domani quella casa potrebbe essere nostra” le aveva detto il marito al telefono, perché ritornasse.

“Per carità!” Aveva esclamato Magda “Ci mancherebbe anche che quel regno di fantasmi diventasse nostro”.

Ma era tornata.

E invece quel regno di fantasmi o di diavoli era proprio diventato loro. Magda non ci poteva credere, ma più osservava quelle stanze profumate e in ordine, seppure coperte di polvere, più sentiva che all’epoca aveva sbagliato, travisando segni insignificanti, dovuti al caso.

La fotografia incorniciata di Elvira che, sebbene statica, sembrava studiarla con aria severa, le rammentò alcune parole che la zia le aveva rivolto al suo ritorno, quella funesta estate, l’ultima che trascorsero a Pieve Fosciana.

“Le storie di fantasmi e di streghe si raccontano nelle campagne. Qui da noi non ci sono streghe ma fatti reali”.

Come sarebbe a dire? Le chiese Magda, prendendo in mano la cornice “Allora tu sapevi qualcosa! Ma cosa? Chi ce l’aveva con noi?” Gridò ad alta voce.

Scese di nuovo al primo piano. Aveva in testa quella domanda cui Elvira non avrebbe più potuto rispondere. Notò che la porta di casa era aperta e le sembrò strano, dato che era stata sua premura chiuderla. Ma qualcos’altro catturò la sua attenzione: i ritratti di Elvira sul caminetto del salotto; piccole fotografie in bianco e nero, incorniciate in madreperla e in fila in ordine decrescente. Non c’erano quando era entrata in casa, ne era sicura. Si passò le mani tra i capelli: di nuovo era tutto così strano, come anni addietro e si sentiva confusa come allora.

Si avvicinò per osservare meglio. I ritratti di Elvira, da bambina, avevano un che di moderno e comunque di familiare: i tratti del volto molto simili a quelli di Piero.

Buon sangue non mente, considerò e prese in mano una foto. Elvira in quella istantanea doveva avere sì e no quattro anni. La data riportata sul retro, però, quasi un monito, indicava un anno molto più recente, un anno addirittura in cui lei, Piero e i figli trascorrevano ancora il settembre a Pieve Fosciana. Chi era allora quella bambina? Controllò con mani incerte tutte le altre foto. I numeri parlavano chiaro: gli anni erano proprio quelli.

Un rumore, anche se leggero, alle sue spalle la costrinse a voltarsi di scatto.

Seduta su una poltrona una donna la stava osservando, una luce di sfida negli occhi neri. La riconobbe dai pendenti, a forma di falce. La Spagnola si alzò lentamente. Il corpo ancora sinuoso si avvicinò a Magda, quasi strisciando.

“Hai visto?” Chiese, accennando col mento alle fotografie.

Magda aveva la bocca impastata e gli occhi le bruciavano, come se le ci avessero tirato una manciata di sabbia.

“Non capisco” sussurrò appena, più a se stessa che alla Spagnola.

“Lo so” rispose quella, spavalda, tirandosi indietro i capelli corvini “non hai voluto capire nessun segno all’epoca, neppure quando ho ferito Piero alla mano. Niente. Più dura della roccia. Ma Piero capì e anche Elvira. Piero sa che ha avuto una figlia da me. E ora questa casa è anche sua”.

“E che dovevo capire da quei segni?”

“Dovevi andartene! Dovevi aver paura e andartene” ripetè, avvicinandosi minacciosa al volto di Magda “invece tornasti anche perché Piero…lasciamo perdere” concluse, schioccando la lingua. Non valeva la pena, decise, rivangare il passato.

“Non è vero!” Si ribellò ad un tratto Magda “Non ci credo” gridò.

“Povera piccola!” Esclamò la Spagnola con plateale sarcasmo e si tastò i pendenti.

Nella luce della porta d’ingresso si stagliò una figura massiccia che con passo pesante entrò in casa. Teneva le mani grassocce sulla pancia, sotto il grembiule bianco sporco di sangue.

“Hai bisogno di qualcosa, Rebecca?” Chiese, sbirciando nella semioscurità del salotto. Poi mise a fuoco le due donne, sedute una di fronte all’altra e rivolse un  sorriso canzonatorio a Magda.

“La Spagnola è mia moglie, non lo sapevi?!”

“Sì, ma ancora per poco” sibilò quella tra i denti.

Ma c’era anche qualcun altro dietro il macellaio, un’ombra che indugiava tra i gerani rossi del porticato e che somigliava tanto a Piero.

“Rebecca ha detto una bugia” iniziò Corrado “sono stato io a ferire tuo marito. Doveva smettere o con le buone o con le cattive di infastidire quella che sarebbe diventata mia moglie. Io preferisco i sistemi forti…ho dimestichezza con i coltelli! E anche Rebecca non è da meno, vero Spagnola?” E rise, facendo ballare la pancia “E’ stata una bella occasione che tu sia venuta qui stamani e da sola. Ci siamo detti, io e Rebecca, che, prima, dovevi sapere la verità sulla piccola Elvira”.

“Prima di cosa?” domandò Magda debolmente “non ci credo, non credo a niente di quello che dite” si difese ancora, sebbene si sentisse confusa.

“Ci crederai, ci crederai, o con le buone o con le cattive” sibilò la Spagnola e si sfilò un orecchino “vuoi provarlo? Li osservi da un’ora!”

E senza dire altro, glielo affondò nella carotide.

Magda si portò le mani al collo,  mentre un sapore amaro si diffondeva nella sua gola, dalla quale uscì un grido di disperazione. La vista cominciò a velarsi ma riuscì ugualmente a vedere i gerani sotto il porticato. Ora capiva un segno, troppo tardi dato che era l’ultimo, ma lo capiva: i fiori erano stati sostituiti o avvelenati come lei. Al posto di quelli rossi e rigogliosi solo rami secchi e foglie avvizzite.

 

Loading

1 commento »

  1. Mi sembra un po’ corto per poter esprimere un giudizio. Ho letto diverse volte ma c’è qualcosa che manca come per esempio l’espressione “avvelenati”
    marco caputi

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.