Premio Racconti nella Rete 2012 “La mela” di Maria Grazia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Secondo la tradizione della nostra famiglia siamo nate per essere mangiate.
Così dopo un lungo viaggio io mi trovo, insieme a qualche sorella ed alcuni estranei, in questa scintillante fruttiera d’argento. Non mi lamento. Mi è andata anche bene. Aspetterò qui che il mio destino si compia. Sbucciata, tagliata a spicchi, o forse spezzata a morsi, andrò a finire nello stomaco di un umano compiendo il mio destino. Io, infatti, sono altamente nutritiva, mi allevano per questo. Ricca di vitamine e fibre, specie ora che sono giovane e fresca. Sono molto ricercata e mi vendono a caro prezzo. Questa storia me lo sono sentita ripetere fin da piccola.
Tra qualche ora una mano mi afferrerà, mi liscerà e mi luciderà sulla coscia dei pantaloni. Io sono pulita, non serve lavarmi, né spellarmi col coltello. Mi piacerà essere addentata, baciata e leccata. Sono piena di succo saporito da succhiare con gusto. Mi piace sbrodolare le mie polpe tra avide labbra. Sono nata per questo: per provare l’effimero piacere di essere divorata.
Mi hanno riferito che è eccitantissimo sentirsi crocchiare tra i denti, dileguarsi tra le carni morbide della bocca umana. E maggiore è la soddisfazione se quella stessa bocca emette mugolii di piacere e apprezzamento. Siamo nate per questo.
Sono certa che tutte le mie sorelle, ne ho migliaia sapete, hanno compiuto con gioia il loro destino. Nostro padre è vent’anni che ci procrea e c’invia in tutto il paese orgoglioso di noi. Purtroppo ora è invecchiato e non so se ce la farà a passare la prossima potatura. Mi sa che noi siamo le ultime.
Al momento in questa fruttiera si sta un po’stretti. Niente a che vedere col cassone in cui ci hanno sbattuto appena giù dall’albero. Lì eravamo migliaia, non si respirava neanche dal buio che c’era. Mia sorella mi pesa un po’ sul picciolo. Non vorrei ammaccarle la depressione ombelicale e chiazzarle la sua bella buccia. A volte basta così poco per essere scartate. D’altronde non posso muovermi, sono completamente schiacciata su una fredda parete metallica, che non mi fa traspirare, e uno spigolo vivo in argento mi entra nella carne. Se comincio a sudare mi si irrita la scorza.
Al mio fianco c’è un’arancia, non abbiamo niente da dirci noi due, non siamo neanche della stessa famiglia anche se ci ritroviamo sempre insieme nelle fruttiere. E poi puzza. Devono avergli spruzzato qualche pesticida : finirà col contaminarmi. Beh non durerà a lungo, siamo troppo appetitose per restare qui. Fa parte della nostra esistenza saper aspettare, maturare e compiere la nostra sorte.
Mi ricordo quando me ne stavo ancora sull’albero, tra i rami di mio padre, attaccata a lui col mio saldo peduncolo. Circondata da sorelle. Questo anno pare che non fossimo tantissime, mio padre non ce la fa più a nutrirci tutte. E’ invecchiato. E’ lui che ci ha additato, fin da quando eravamo in boccio, il nostro compito. Farci belle, rosse, lisce, e attraenti, sviluppare forme regolari, cioè due begli ombelichi simmetrici, emanare aromi intensi, accumulare zuccheri e liquidi in abbondanza per conservarci più a lungo. Sopratutto insiste sulla buccia che non deve essere troppo grossa e volgare, e neanche troppo sottile. E la nostra unica protezione.
Ora che sono qui in questa fruttiera, ho nostalgia del raggio di sole che mi gonfiava, del vento che mi dondolava sui rami e mi faceva rabbrividire con le sue carezze virili. Se non fosse per lui non sarei mai nata.
Ricordo quand’ero fiorellino, con le mie corolle spalancate giorno e notte, i pistilli ben in mostra, nell’attesa d’un insetto pronubo. Che tormento queste bestiacce, ti ronzano continuamente intorno, sempre indecise su dove appoggiarsi e non sai dove te li ritrovi. Mi ricordo il mio bombo, faceva un sacco di rumore per niente e non riusciva a mettere il suo pungiglione al posto giusto. Sembrava impaurito invece che attratto dal mio profumo intenso. Fu proprio il vento che lo sbatté al suo posto e io potei smettere d’essere fiore.
E’ bello stare sui rami tutte in compagnia e chiacchierare giorno e notte tra noi.
O con qualche uccello che si posa tra i rami. Qualche volta sono villani, magari si mettono a beccarti per lo sfizio di assaggiare a che punto sei della maturazione e ti guastano la polpa..
Forse non avete mai visto una mela attaccata al suo albero. Col culo per aria, esposto ai quattro venti, levigata dalla pioggia, sculacciata dal sole. Che delizia.
Nella buchetta pelosetta che mi resta del fiore che fui, gli umani spingono il pollice senza pudore, e mi stringono il torsolo contro il medio.
Sì, mi prende la nostalgia del prato sotto di noi, dell’erba fresca che è nata con noi nella terra concimata. Mi ricordo ancor le zolle rivoltate, mescolate al letame mentre noi infanti da lassù cominciavamo ad ingrassare. Chi sa perché è l’immagine che più mi ritorna in mente ora in questa fredda fruttiera d’argento. Belle zolle aperte e umide. La pioggia le impregna, le scioglie. Il letame le penetra, sparisce e si amalgama. Dal mio ramo mi giunge l’odore della lenta decomposizione, lo sfrigolio della fermentazione. Allora mio padre, con i peli che rivestono le sue radici, aspirava l’umidità profonda della terra, fiotti di linfa ci raggiungevano ed era una gran festa.
Il giorno che ci staccarono dall’albero eravamo tutte eccitate. Si parte. Ognuno per la propria via a compiere il nostro identico destino.
Me ne sarei restata un altro po’ attaccata al mio picciolo, volevo maturare ancora, non ero proprio pronta. Cercai anche di resistere aggrappata al ramo, ma una mano esperta e decisa mi staccò ruotandomi dolcemente. Molte mie sorelle furono invece brutalmente strappate, fino a scorticare la corteccia dei rami del padre. Tanta cattiveria mi fa presagire che per lui sarà l’ultima stagione.
Il giorno che mi staccarono dall’albero fu l’esperienza più brutta della mia vita.
Da quando sono nata non mi sono mai mossa. Tutto si spostava intorno a noi, il sole, la luna e le stelle. Il vento, gli insetti, gli umani. Io dondolavo un po’, ma ero ben salda al mio picciolo, il mio cordone ombelicale. Quando mi hanno sceso dall’albero, mi presero le vertigini. Anche se mi sentivo in solide mani, per la prima volta attraversavo lo spazio. E’ vero che nel nostro DNA c’è traccia di un volo, di un viaggio verticale, dall’albero alle zolle, dall’alto alla terra. L’unico concesso alla nostra esistenza. Ma io sperimentavo il movimento orizzontale.
A volte ho l’impressione che ci sfruttino. Ci trattano bene, ci concimano, ci annaffiano solo perché dobbiamo essere belle e appetitose, ma di noi non gliene importa niente. Io sono ben contenta di essere mangiata con gusto, di dare nutrimento agli umani, mi hanno insegnato che questa è la mia funzione. E’ da secoli che ce lo ripetono, ma ogni tanto ho qualche dubbio. Penso che a me degli umani non importa proprio niente, come a loro non importa niente di noi.
Tra breve sarò mangiata e allora scoprirò se è valsa la pena crescere per questo scopo.
Chi sa se apprezzeranno la mia polpa profumata, il mio sugo? Gli umani ci hanno plasmato, addestrato, e per causa loro siamo quello che siamo. Altrimenti saremmo dei pomi selvatici e acidi che neanche i porci se li mangiano. E una volta cadute dall’albero staremo lì a marcire.
Ormai siamo rimasti in pochi nella fruttiera d’argento. Ogni volta che la spostano dalla tavola alla credenza della sala da pranzo, rotoliamo e rimbalziamo tra noi, tre mele e un mandarino. Si sta comodi ora, ma in realtà siamo tutti più tristi. L’attesa si fa snervante.
La pelle mi si è impolverata, traspiro peggio di prima. Lì dove pigiava l’argento cominciano ad apparire macchie più scure, e sento i miei carpellini ammosciarsi. Persino la fruttiera non è più splendente come quando sono arrivata. Chiazze nerastre si intravedono lì dove abbiamo sostato più a lungo. Ancora qualche giorno e non riuscirò a nascondere la diminuzione di volume, la cuticola mi si rugherà. Mi sto disidratando.
Oh ancora questa vertigine. Qualcuno mi ha afferrato. Sento il tepore di una piccola mano umana. Palpeggia, mi fa rimbalzare tra le sue dita. Addio sorelle! Addio fruttiera! Sarò morsa, mangiata, divorata. Con mia sorpresa non so se essere contenta o aver paura. Con mia sorpresa perché non sono io a pormi questa domanda, ma la bimba che mi palleggia. Che domande sono queste, si può mai aver paura di essere mangiate, e perché dovrei essere contenta?
Non odo con le orecchie, ma sento, non vedo con gli occhi ma guardo, e so che non mi mangerai.
Conosco la sensazione, un volo questa volta verso il basso. Mi lancia fuori della finestra. Non un gran tiro, ma rimbalzo gaia e veloce tra le erbacce sull’ umido retro della casa. Nella corsa mi spezzo in due e mi acquieto tra le zolle muschiose.
L’umidore dell’erba mi sembra più attraente della mano sudaticcia di pochi attimi fa. Riconosco l’odore della terra e lo preferisco all’esalazione dell’argento ossidato. Mi ricordo che dall’alto del mio ramo avevo teso a queste zolle. Non è male qui. Mi sistemerò tra i riccioli di humus. Mi spolperanno le formiche. Mi trapasseranno i lombrichi.
Finché i carpellini si apriranno, lasceranno cadere i semi nelle profondità del terreno e non sarò più.
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E’ “deliziosa”, forse come la mela protagonista?
Veramente deliziosa. Complimenti.