Premio Racconti nella Rete 2012 “Performance” di Maria Grazia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012La situazione era diventata insostenibile.
Fu così che decisi di partecipare al concorso per giovani artisti, proposto dalle autorità comunali.
Si trattava di presentare un progetto per un’opera sulla realtà della città: diceva il titolo. Il vincitore acquisiva l’immodesto diritto di esporre nella piazza principale il suo lavoro per un periodo di un mese. Il mio progetto, per quanto vagamente elaborato, poteva risultare di sicuro interesse. Consisteva in una performance che avrebbe mostrato, nonché dimostrato, le condizioni di degrado ecologico della città. Senza esagerare, dovetti precisare. Nell’enfasi dell’espressione artistica, sarebbe emersa la drammaticità del problema dell’uomo, dell’umanità tutta e del suo nero destino in un mondo sommerso dai rifiuti. Lo spettatore si sarebbe sentito coinvolto, partecipe insieme alle autorità nel programma di spazzatura e salvaguardia dell’intera città e dell’universo. Spiegai che l’intento della performance era portare in piazza, concretamente, non inutili e noiosi slogan, il problema in questione, problema che era al fine mio e di ognuno. Dell’attualissima opera, risultato del mio gesto artistico, facevo omaggio alla città.
Non mi interessava la fama, la notorietà, la chiacchiera; a me premeva liberare il mio spazio vitale, purificarmi dall’immondezzaio in cui ero avvolto, scaricare per sempre dalla mia esistenza il peso insostenibile di un’ossessiva e degradata materialità. E questa era la mia unica possibilità.
Pertanto, quando arrivò il giorno in cui seppi di aver vinto, rincasai pieno di fervore, pronto a dare il via all’organizzazione della mia strepitosa performance.
Comprai seicento sacchetti per pattumiere che mi sembrarono i contenitori più adatti, più in tema, per trasportare il materiale necessario alla mia creazione.
Li riempii uno ad uno, chiudendoli tutti col loro nastrino, e accumulandoli nel centro della stanza, l’uno sull’altro come grandi chicchi di un grappolo rovesciato. Un grappolo immenso, dal diametro di otto metri e l’altezza di quattro, tanto che per sistemare gli ultimi sacchetti dovetti servirmi della scala. Ora in casa si poteva intravedere un po’ d’ordine.
Il materiale accumulato in tanti mesi di lavoro, il prodotto dei miei lenti e segreti progetti, il frutto dei miei sforzi più intensi, delle mie giornate più lunghe, erano tutti lì, impacchettati, ordinati, pronti ad uscire di casa per divenire pubblici. Ansiosi di rompere la clandestinità cui li avevo tristemente obbligati.
Grazie all’autorizzazione dell’ente promotore, ottenni la collaborazione, d’altronde giusta e doverosa, dell’azienda municipale alla nettezza urbana. Tale partecipazione, non solo mi risolveva i problemi pratici del trasporto, ma avrebbe reso più elegante e credibile lo svolgimento della performance, e l’esecuzione ne avrebbe guadagnato in coerenza e unità di stile.
Il giorno stabilito la barca dell’azienda suddetta cominciò a caricare il materiale accatastato nel mio appartamento. Ogni sacchetto che usciva dalla porta sollevava il mio spirito dalla paura e dall’angoscia che quel materiale, ora impacchettato, mi aveva procurato. Dovete infatti sapere che, nonostante io paghi le tasse, e porti il mio sacchettino quotidiano di rifiuti a uno di quei signori incaricati di conservare puliti i luoghi del nostro soggiorno, mi trovavo a quel tempo in difficoltà nell’assolvere quest’ultima mansione.
Avevo deciso di portare qualche ammodernamento alla mia abitazione. Una cosa da nulla; allargare un po’ la piccola ritirata per inserirci la vasca da bagno. Era stato necessario demolire un muretto, rifare un pavimento, e il tutto si era tramutato in un imprevisto e sproporzionato ingombro di macerie. Considerando che queste dovevano scomparire senza farsi notare, data l’ufficiale clandestinità del lavoro, le sbriciolai. Cercai di eliminarle negli scarichi, di mescolarle ad altri rifiuti, di abbandonarle in zone sempre diverse della città. Ma le tubature si ingorgarono, lo spazzino s’insospettì, e io mi stancai di girovagare carico di macerie camuffate nella borsa delle spese. Così vivevo da mesi accanto al mio tumulo.
A guardarlo bene era suggestivo, così polveroso, così misterioso. Franava in un tremore di vita propria, producendo un gorgogliare soffice come quello di un moderno rubinetto. Spesso al mattino si era spostato, mezzo metro più a destra o più a sinistra e le sue pendici avanzavano. Nell’oscurità brillava tutto; pezzetti di ceramica, scaglie di vetro e di specchio, sabbia silicea nella malta scalpellata rifrangevano il chiarore minerale della luna che ogni tanto appariva nell’appartamento.
Dall’alba al tramonto invece ingoiava l’intera luce della stanza creando un buco nero che assorbiva tutto il mio coraggio; prima o poi avrebbe risucchiato anche me. Di quando in quando ne gettavo una manciata sconsolata nel wc o nella pattumiera, ma di questo passo avrei dovuto convivere per il resto dei miei giorni accanto a quel cadavere che mi rinfacciava di vigliaccheria. Se, infatti, mi era presa l’illusione di poter eseguire un lavoro senza i necessari permessi, ora dovevo sbrigarmela per conto mio; le leggi sono pur fatte per non lasciarti solo!
Abbandonato insieme al mio tumulo, senza poter invocare nessuno, mi sentivo ingannato e beffato. E poiché ormai disperavo di potercela fare da solo, avrei preferito scoprissero le mie colpe, mi multassero, mi processassero, m’imprigionassero, almeno avrei recuperato la mia libertà.
Allora io non conoscevo Kafka, lo lessi per caso molto più tardi. Ma se lo avessi conosciuto sarei ancora qui con le mie macerie, o probabilmente le avrei mangiate, morendo di un blocco intestinale, o di una colica renale. A quel tempo conoscevo solo la mia avvilita tristezza e la disperazione che quell’ingombro polveroso recava alle mie giornate. Avevo cercato di incivilire la mia casa dandole un’onorata vasca da bagno ed avevo solo afflitto il mio spazio, il mio mondo o meglio me stesso, di questa irrimediabile distruzione.
Il giorno della performance però, capii che non ero solo. D’illecite rovine ognuno ne possiede un po’. Un vicino, approfittando della situazione, mi chiese il permesso di imbarcare un’altra cinquantina di pacchettini, frutto anche quelli di un piccolo lavoretto casalingo. Non potei rifiutare né a lui né agli altri che seguirono, finché il barcone sovraccarico si diresse tremolante verso il luogo della performance.
Quando l’imbarcazione approdò trionfalmente al Todaro, stracolma delle sue migliaia di sacchetti, lo spettacolo era bello ed emozionante, commentò il pubblico, come se stesse sbarcando una regina.
Diretti da me i ligi netturbini avanzavano lentamente con i loro folcloristici carretti ricolmi, verso il centro della piazza. Lì, ad uno ad uno, sistemai i fagottini evocando le proporzioni descritte. Ma giunto al livello dei due metri, quando il mio plastificato grappolo doveva cominciare a prendere forma, mi mancò la scala. Sicché, senza dare dell’occhio, con virtuosa improvvisazione, allargai il grappolo alla base e lo costruii metodicamente e artisticamente di tredici metri di diametro per due di altezza. Così composto non ridestava più l’idea del grappolo rovesciato dai grandi chicconi, ma sembrava piuttosto una discarica ordinata.
Il pubblico applaudì. Le autorità si compiacquero. Qualcuno, come sempre, fischiò. La performance era terminata e la piazza si sgombrò silenziosamente.
Ma il grappolo capovolto se ne stava ancora lì, nel mezzo, circondato da transenne, come ogni buona opera d’arte. Sugli sbarramenti ricadeva un bel drappo bordeaux, con le scritte in oro “Assessorato all’arte Comune di Venezia”, il nome dell’artista e la data.
I sacchetti di plastica nerofumo, lucidi e umidicci per la notte, risplendevano nella piazza illuminata dai caffè.
La loro cupa luminosità superava il fascino delle volte bizantine; la compattezza del volume si accordava perfettamente con la maestosità delle arcate napoleoniche; soprattutto la staticità di quella massa giocava, risultato prospettico eccezionale, con la velocità dei portici che chiudevano i lati della piazza; la mia opera e la basilica si fronteggiavano graziosamente nel salotto del mondo: scrissero i critici.
La gente seduta ai tavolini ne era chiaramente entusiasta. Nella piazza, assopita dalla sua ordinata geometria, si propagò un’improvvisa e sguaiata baldanza. La massa incelofanata, nota a tutti, sollevava il luogo dal decoro dell’antichità. Ci si sentiva ora a proprio agio in quel luogo impegnativamente suggestivo. Quel mucchio li rincuorava, li riambientava; faceva di Venezia una città senza il privilegio dell’unicità. Scioglieva i suoi misteri, ne impediva l’incantesimo.
Nell’afa estiva, l’allegria da comitiva non si accontentava più dell’euforia svogliata della musica di piazza. Grazie a quella presenza, che richiamava l’epoca contemporanea, che ricordava a chi avesse voluto dimenticare la civiltà metropolitana da dove era venuto, gli animi si esimevano dal peso della contemplazione e dell’estasi di fronte alla bellezza.
Durante la notte il mio grappolo si accrebbe smisuratamente.
Secondo l’inverso del principio per il quale togliendo un chicco da un mucchio di grano il mucchio resta tale (e così via fino a quando resterà solo un chicco), la gente ammassò rifiuti per tutta la nottata, finché la mia opera diventò una catasta, e la catasta una muraglia, e la muraglia una montagna di sedie, legnami, lavatrici, materassi che ostruiva per metà il passaggio della piazza. Le transenne ne erano sommerse, o in alcuni punti sorreggevano coraggiosamente le chine frananti. Tutto attorno alla muraglia si estendeva un fossato di piccoli detriti fuoriusciti dai sacchetti grazie al lavorio di ratti e piccioni.
Alimenti putridi, bottiglie, rovinacci, fiori marci, lattine, cartoni, bucce di patate e foglie di carciofo, pesce di Rialto, plastiche, carte unte, spaghetti variamente conditi, scatolette, qualche scarpa e indumento demodé, gusci d’uovo, costolette abbrustolite, Gazzettini e zampe di gallina, confezioni di ogni genere, batterie proibite, segature umide e bambagie mosce, polistiroli, carta regalo, grassi animali e vegetali esplodevano dai sacchetti lacerati dal peso di se stessi. Oltre il fossato, colava verso il centro della piazza, nei marmorei tombini, un liquido nero e oleoso, che decorava pazientemente il bianco selciato.
All’alba la mia creazione artistica era ancora lì, decomposta, irriconoscibile, brutale e oscena, bestia sventrata crudamente di fronte agli sguardi impudichi e bramosi dei passanti. Cittadini forzati a quel passaggio affrettavano il cammino, ciò nonostante l’occhio disgustato e curioso attirava i particolari putridi, esalanti dal mucchio alla fantasia morbosa e pettegola.
La fossa comune degli umani cascami faceva dell’impudicizia privata pubblico spettacolo.
La mia performance, destinata a concludersi nell’effimero spazio di poche ore, si prorogò estenuante per tutta la giornata. Perpetuata nell’oscurità per mano degli abitanti, alla luce del sole rosolante essa si trasformava, si sfaceva e si rigenerava continuamente, attraverso un processo di partenogenesi che la rendeva ancora più degna di pubblico.
La situazione divenne insostenibile.
La piazza puzzava orrendamente. Il tanfo prepotente, tagliato dalla sdolcinata musica dei caffè, marciva l’aria fin dentro la basilica incensata, fin dentro i superclimatizzati uffici circostanti. Voraci gabbiani si pascevano della mia opera abbandonata, mettendo in fuga la gente con grida violente e crudeli picchiate. Il problema però non mi riguardava.
L’opera era stata donata alla città. Spettava a lei restaurarla, conservarla.
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Molto arguto, brava!!
Tema originale e attualissimo. Racconto ben scritto e dal finale che appare la giusta soluzione. Complimenti.