Premio Racconti nella Rete 2012 “Il funerale” di Andrea Parato
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Era stato un urlo nella notte a far temere il peggio. Quando il lamento della sirena si era allontanato, il paese era sveglio, gli animi confusi e arruffati. Ma la corsa in ospedale era stata inutile, un ultimo sogno svanito nelle ore notturne schiarite dal neon.
Oggi, per il funerale, ostinatamente non voglio uscire. Fuggo e mi rifugio davanti al grembo di una madre calda che mi illumina con raggi video e mi sussurra consigli per gli acquisti.
Le macchine chiassose, la gente vestita di scuro, le mani strette sono immagini che navigano lontane: ho deposto la mia mente sul ventre di vetro di chi mi consola.
Ma una mano mi strappa al torpore, mi veste, mi accompagna lungo la salita che porta al funerale. La strada attraversa la collina verde per la primavera che rinasce. Il cielo è una manciata di lapislazzuli contro cui si stagliano le gemme. Penso che la natura non capisce proprio niente, anzi che proprio non gliene frega niente di quello che sentiamo.
D’altra parte, non è così anche per noi nei suoi confronti? Chi si accorge di questo cielo, di queste foglie, dei primi fiori? Forse i bambini, ma solo quelli che ancora hanno tempo per giocare randagi. Non certo gli uomini-formica imbottigliati con la musica alta nelle orecchie, che lavorano e corrono e si lamentano e si consolano alla televisione, per non sentire.
Continuo a salire sino alla porta di pietra dell’edificio, la soglia tra il chiasso dell’esterno e il pio brusio all’interno. Entro e riconosco alcuni ragazzi nascosti dietro le ampie colonne. Saluto e faccio per mimetizzarmi con loro.
Così, scostato, quasi di passaggio, posso finalmente guardare al centro della navata, dove temo la bara solida, definita, scura.
Poi cerco lei con lo sguardo, perché è per lei che sono qui.
Cerco il suo volto, il naso particolare incorniciato dai capelli lisci. I suoi occhi indecifrabili, che ho così spesso scoperto persi in tempeste di mari lontani da me. Quegli occhi un tempo mi hanno fatto sentire goffo e crudele inseguitore di una chimera.
Ma ora piangono in silenzio, mentre guarda la bara.
Tutti si alzano in piedi alle parole di saluto e di commiato. Ho fretta di scappare. Desidero la poltrona, il letto o, comunque, la mente spenta: questo è il mio rifugio. E invece resto, perché voglio gridare in faccia quel nulla che mi sento, così inutile tra gli altri indifferenti. Vorrei urlare agli impazienti che devono andare a casa, alle ragazze che non la smettono di parlare dei fatti loro, all’amico che è passato ma deve andare a giocare la partita, a quello che ha dismesso la maschera del burlone per calzare quella del lutto. Vorrei urlare, ma rimango in silenzio.
Il rito si conclude in una nuvola di incenso. Appoggio le mani sulla pietra nuda e fredda, in modo che il corpo aderisca perfettamente con la colonna. Mi abbandono a occhi chiusi al gelido contatto. Con gli occhi chiusi vedo il corpo nella bara, freddo e indifferente. Eppure non è un dolore che non posso capire. Non è un dolore che mi tiene lontano, diverso dal mio. Ne buio che scruto c’è una vaghezza di luce, come il momento prima dell’alba in una mattina d’inverno senza nuvole.
Ora sto piangendo. Sento le lacrime calde scorrere senza che io le possa fermare. Piango per un cuore dubbioso che non sa commuoversi davanti al dolore più antico. Piango l’aridità di un cuore insoddisfatto e cinico che per paura ha amato a metà. Piango per la finzione quotidiana di essere altro, dietro alla quale nascondo il mio odio. Piango perché nessuno è riuscito a capire, per il pugno alzato al cielo senza un lamento e per il sasso lanciato nel vuoto senza un tonfo.
Poi sento lei che parla, apro gli occhi e vedo il suo profilo famigliare. Non dice parole di rancore: “Mi manca il tuo contatto, mi manca la tua voce. So comunque che sei con me. Ti prego, fammi sentire che resti vicino”.
E finalmente mi vedo.
Il mio corpo viene preso e calato, mentre qualcuno sussurra un canto. Lei mi getta un pugno di terra addosso, poi la sua ultima lacrima. Ora è sigillato, serbato nel grembo della terra, forse prigioniero del piombo, forse pronto a sfuggire come un umido umore che ritorna alla natura.
E’ il momento di tornare. Non per me, che sono spoglio e stanco nel mio nuovo giaciglio.
Ma un braccio mi sorregge e nel buio che scruto vedo occhi già visti, occhi senza volto, non più lontani. Con loro ritorno anche io, per un cammino diverso.
E anche se la strada è più dura, non sono solo. Almeno questo dubbio è fugato: la verità, la prima, è che questo è di nuovo l’inizio.
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